L’altra faccia dello smart working

Luca Bonacini, Giovanni Gallo e Sergio Scicchitano riassumendo i risultati di un loro recente studio basato su dati INAPP-ICP e INAPP-PLUS sostengono che un incremento marginale (ma permanente) dell’attitudine allo smart working di alcune professioni potrebbe condurre a un significativo aumento del livello salariale. Tuttavia, a godere dei benefici salariali, in assenza di correttivi, saranno soprattutto gli uomini con redditi elevati, meno giovani e laureati, con l’effetto di aggravare le attuali disuguaglianze.

Come risulta da un report di Eurofound e ILO, prima dell’emergenza sanitaria dovuta all’epidemia di COVID-19 l’Italia era il paese europeo con la minore quota di lavoratori in smart working (o lavoro agile). A causa della sua scarsissima diffusione, il lavoro agile è rimasto senza alcuna regolamentazione sino al 2017, quando è stato introdotto il cosiddetto “Jobs Act dei lavoratori autonomi”. Questa legge definisce lo smart work come un’attività che, seppur svolta in regime subordinato, si caratterizza per l’assenza di vincoli su dove e quando lo stesso debba essere svolto. Viene quindi fatta luce su quella zona d’ombra che era la distinzione tra lavoro agile e telelavoro: quest’ultimo, infatti, prevede un maggior grado di subordinazione attraverso l’obbligo dell’indicazione del tempo e del luogo lavorativo fuori dall’ufficio.

Con l’arrivo dell’epidemia, numerose misure sono state adottate per contrastarne la diffusione e molti aspetti della nostra quotidianità sono cambiati radicalmente. In questo quadro, le misure di distanziamento sociale riferite all’ambito lavorativo si sono focalizzate sull’incentivazione (se non nell’obbligo in taluni casi) del ricorso allo smart working come pratica che consente di coniugare le limitazioni nella mobilità delle persone con la non-interruzione della propria attività lavorativa. Inoltre, in considerazione della gravità degli effetti della pandemia e dell’incertezza attuale sulla sua futura evoluzione, il lavoro da remoto è ormai, in Italia e in molti altri Paesi, una modalità di lavoro ordinaria e non più straordinaria e sembra destinato a divenire una caratteristica strutturale dei mercati del lavoro.

Diversi contributi, anche ospitati sul Menabò (fra i quali, Flisi, Granato e Santangelo; Barbieri; Betti), sottolineano con preoccupazione il rischio che questi cambiamenti possano avere conseguenze inique tra le categorie sociali, provocando un inasprimento delle diseguaglianze. Come recenti studi dimostrano per gli Stati Uniti (Brynjolfsson et al., NBER Working Paper, 2020), una volta che un’impresa investe significativamente in capitale fisso per promuovere lo smart working, è probabile che tale pratica non venga più abbandonata e che si continui a prevedere l’espletamento delle attività lavorative da remoto. Si può, dunque,  ipotizzare che questi cambiamenti diventino strutturali anche nel nostro mercato del lavoro, richiedendo nuove competenze e diverse capacità di adattamento al lavoro. In altre parole, la crisi attuale sta portando sempre più aziende a considerare lo smart working una possibile “nuova normalità”, che rappresenta però una sfida da affrontare per l’immediato futuro del lavoro, ovvero un argomento senza dubbio rilevante per i ricercatori di tutto il mondo.

In un articolo recentemente pubblicato sul Journal of Population Economics, abbiamo tentato di simulare l’effetto di una maggiore diffusione dell’attitudine allo smart working nelle professioni che caratterizzano il mercato del lavoro italiano. In particolare, ci siamo focalizzati sull’analisi delle possibili conseguenze che questo fenomeno potrebbe avere sui livelli di reddito da lavoro, nonché sulle disuguaglianze salariali tra lavoratori. Per far questo, è stato utilizzato un dataset unico che mette insieme i dati dell’Indagine Italiana sulle Professioni (INAPP-ICP) per l’anno 2013 e quelli dell’Indagine INAPP-PLUS su partecipazione al lavoro e disoccupazione per l’anno 2018.

Per l’identificazione dei lavori che con maggiore probabilità verranno svolti nella modalità smart working, abbiamo fatto riferimento all’indice di attitudine allo smart work proposto da Barbieri, Basso e Scicchitano, che permette di classificare ciascuna professione (fino a 5-digit della classificazione ISCO) in una scala da 0 (lo smart working non è realizzabile) a 100 (lo smart work è facilmente realizzabile). Sulla base di questo indice, i lavoratori vengono distinti in due categorie: se il valore assunto dall’indice per la specifica professione è superiore al valore mediano rilevato nel nostro campione, il lavoratore risulta avere una “alta attitudine allo smart working”; viceversa, se il valore dell’indice è inferiore alla mediana, il lavoratore sarà contraddistinto da una “bassa attitudine”.

La Figura 1 illustra come cambia per ogni decile di reddito da lavoro l’incidenza dei lavoratori con alta attitudine allo smart working e il differenziale salariale (wage gap) in favore di quest’ultimi e, dunque, ai danni di chi presenta una bassa attitudine allo smart working. Già questa prima analisi descrittiva suggerisce una relazione positiva tra l’attitudine allo smart working e i livelli salariali dei lavoratori italiani. Inoltre, la figura mostra chiaramente come il wage gap a favore dei lavoratori con alta attitudine allo smart working aumenti in modo significativo lungo la distribuzione del reddito da lavoro e raggiunga i valori più alti in corrispondenza degli ultimi due decili, così come l’incidenza di un’alta attitudine al lavoro agile tra le diverse professioni.

Figura 1 – Incidenza dei lavoratori con alta attitudine allo smart working e differenziale salariale in loro favore per decile di reddito annuale da lavoro

Fonte: Bonacini, Gallo e Scicchitano (2020)

Per stimare la potenziale influenza sulla distribuzione dei redditi da lavoro di un incremento marginale (ma permanente) dell’attitudine allo smart working nelle professioni che caratterizzano il mercato del lavoro italiano, abbiamo fatto uso delle Unconditional Quantile Regressions. Queste ultime hanno il vantaggio di stimare l’effetto del cambiamento marginale di una determinata dimensione (es. l’attitudine allo smart working o il livello di istruzione) su di una statistica distributiva (es. media, mediana, decili o l’indice di Gini) e, allo stesso tempo, controllare per alcuni importanti regressori. Nello specifico, questa metodologia ci ha consentito di simulare quanto e come cambierebbe la distribuzione del reddito da lavoro in Italia qualora il 10% dei lavoratori con una bassa attitudine allo smart working riuscisse ad acquisire un alto livello di attitudine al lavoro agile. Nell’analisi, inoltre, inseriamo una serie di variabili di controllo che ci permettono di tenere conto delle diverse caratteristiche dei lavoratori (ad esempio, l’età, il livello di istruzione e il tipo di contratto).

La Figura 2 mostra, nel riquadro in alto a sinistra, i risultati principali delle nostre analisi distinguendo tra stime senza variabili di controllo (Unconditional Effect o UE) e stime dove si controlla per le principali caratteristiche che spiegano i differenziali salariali tra lavoratori (Unconditional Partial Effect o UPE). Oltre agli effetti sul complesso della popolazione dei lavoratori (riquadro in alto a sinistra), sono stati approfonditi alcuni aspetti legati all’eterogeneità sociale e demografica di un possibile incremento marginale dell’attitudine allo smart working distinguendo i lavoratori in base al sesso (riquadro in alto a destra), alla classe d’età (riquadro in basso a sinistra) e al titolo di studio (riquadro in basso a destra).

L’analisi mostra risultati chiari: un incremento nell’attitudine allo smart working nelle professioni porterebbe in Italia a una crescita complessiva del reddito da lavoro, soprattutto tra i lavoratori che si collocano nella parte destra (più “ricca”) della distribuzione (Figura 2). Non tutti vincono però. Se si guarda alle stime UPE, il 10% dei lavoratori con reddito più basso soffrirebbe in questo caso di una lieve riduzione del reddito da lavoro nel tempo. Un aumento dell’attitudine (e del conseguente uso) dello smart working potrebbe permettere dunque un reddito da lavoro mediamente più elevato, ma tale crescita andrebbe a vantaggio soprattutto, o soltanto, di chi già che riceve un salario maggiore.

Figura 2 – Effetti stimati sulla distribuzione del reddito da lavoro associati a un incremento marginale dell’attitudine allo smart working

Fonte: Bonacini, Gallo e Scicchitano (2020)

Disaggregando l’analisi degli effetti per categorie di lavoratori, si evidenziano alcuni aspetti particolarmente interessanti. Dai nostri risultati emerge, infatti, che, anche a parità di tipologia contrattuale, sarebbero soprattutto gli uomini, i lavoratori più anziani (ultra-51enni) e i laureati a trarre beneficio da una maggiore diffusione del lavoro agile nel mondo del lavoro. Ciò determinerebbe, in ultima istanza, un probabile incremento delle già rilevanti diseguaglianze di genere e generazionali, nonché di quelle tra laureati e non laureati.

Questa analisi richiama l’attenzione sulla possibilità che quella che oggi consideriamo quasi come una panacea al problema di coniugare lavoro e convivenza con il virus generi, nel corso del tempo, alcuni effetti indesiderati. Il rischio principale sembra essere, in particolare, quello di un ulteriore allargamento della forbice sociale. Occorre, però, ricordare che questa analisi non prenda in considerazione i potenziali, vari, aggiustamenti del mercato del lavoro che potrebbero seguire questo cambiamento nel modo di produrre, né i possibili interventi di policy che potrebbero irrobustire e migliorare il sistema di tutele previsto dal “Jobs act degli autonomi”.

La nostra analisi evidenzia, altresì, ancora una volta il ritardo del nostro sistema industriale e di istruzione. Abbiamo bisogno di un’importante riorganizzazione del lavoro, soprattutto nel campo della re-ingegnerizzazione dei processi produttivi sulla base delle nuove tecnologie digitali e delle possibilità offerte dalla pratica dello smart working. Ciò richiede che tutti coloro che partecipano alla catena del valore, dai lavoratori dipendenti ai manager e gli imprenditori, acquisiscano le nuove skills necessarie e investano di più sul capitale umano. Tutto ciò oggi è più che mai indispensabile per competere nel mercato del lavoro globalizzato.

È urgente e indispensabile avviare politiche di lungo periodo che permettano di colmare le disuguaglianze di istruzione che continuano a protrarsi di generazione in generazione. Come suggerito dal gruppo di studiose e studiosi AGIRE nel loro “Manifesto contro la disuguaglianza” (Laterza, 2018), è necessario incentivare la partecipazione all’istruzione superiore e ridurre le differenze nella qualità dell’istruzione dell’obbligo attraverso investimenti differenziati, soprattutto a tutela di chi proviene da contesti socio-familiari meno vantaggiosi. Questo consentirebbe sia di ridurre il rischio di una frammentazione del mercato del lavoro sia di beneficiare di una società più coesa. Inoltre, l’apprendimento permanente – che accresce il capitale umano e favorisce la complementarietà del lavoro con la tecnologia – dovrebbe essere maggiormente sviluppato, in considerazione del suo rilevante ruolo nel ridurre la disuguaglianza nella distribuzione dei benefici legati alle maggiori opportunità offerte dallo smart working.

Concludendo, lo smart working potrebbe consentire di accrescere la produttività e migliorare le condizioni salariali dei lavoratori; ma perché ciò avvenga occorre fare in modo che con la sua diffusione non si indebolisca il potere contrattuale dei lavoratori e non si aggravino le diseguaglianze sia tra lavoratori e datori sia all’interno della forza lavoro.

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