ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 175/2022

4 Luglio 2022

Il PNRR, gli asili nido e l’eguaglianza delle opportunità

Gianfranco Viesti in relazione alla realizzazione di moltissimi posti aggiuntivi negli asili nido prevista dal PNRR spiega perché la scelta di stanziare le risorse e chiedere ai Comuni di proporre progetti può condurre a esiti contrari all’eguaglianza delle opportunità.

Una delle misure più importanti previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è l’investimento di ben 4,6 miliardi per la realizzazione di 228.000 posti aggiuntivi negli asili nido e nelle scuole per l’infanzia, raggiungendo così l’obiettivo comunitario di copertura del 33% della domanda. Perché è così importante? Innanzitutto perché gli asili nido rappresentano una prima esperienza di apprendimento e socializzazione per i più piccoli; perché si tratta di servizi che possono favorire la conciliazione dei tempi dedicati al lavoro e alla famiglia per le madri, creando condizioni più favorevoli per l’occupazione femminile; ma anche perché può essere un tassello della strategia per accrescere la natalità e contrastare la riduzione e l’invecchiamento della popolazione, fornendo maggiori servizi alle coppie che desiderano avere figli. L’Italia è molto indietro rispetto alla media comunitaria; la disponibilità di servizi è assai dispari sul territorio nazionale: vi è una presenza diffusa in Emilia-Romagna e assai scarsa nel Mezzogiorno e in modo particolare in Campania; nel 2019 il 58% dei Comuni italiani, prevalentemente di piccole dimensioni, non offriva il servizio.

Come ben documentato in una recente audizione del Presidente della Commissione Tecnica per i Fabbisogni Standard, i 4,6 miliardi per le opere sono stati opportunamente accompagnati da una norma (legge di bilancio per il 2022, 234/21) che ha anche fissato per la prima volta un “livello essenziale delle presentazioni” (LEP), stabilendo che tutti i comuni debbano raggiungere un’offerta (pubblica e privata) pari al 33% della popolazione fra 3 e 36 mesi. La norma ha disposto anche un incremento delle risorse disponibili per la gestione corrente di queste strutture, cioè per farle funzionare dopo averle costruite. Risorse che, con una decisione opportuna e innovativa, sono vincolate a questo fine e delle quali le amministrazioni beneficiarie dovranno rendicontare l’utilizzo. La Commissione Tecnica per i Fabbisogni Standard sta facendo un lavoro di straordinaria qualità per definire i parametri della loro allocazione a favore delle realtà dove l’offerta del servizio è minore. Il quadro mostra ancora criticità, anche normative, come notato in un recente intervento, ma si è trattato di un grande passo in avanti.

Tutto bene, dunque? Purtroppo, no. Con una scelta assai discutibile, il Piano non fornisce alcun criterio per l’allocazione territoriale dei 4,6 miliardi; non indica alcuna priorità, ad esempio le aree del paese dove il servizio non è offerto o è su livelli molto contenuti. Tutto è rimesso alla discrezionalità del Ministero dell’Istruzione (MI), cui fa capo l’attuazione della misura. E le decisioni prese dal MI sollevano perplessità.

In una prima fase, il MI (ministra Azzolina) ha deciso con un dpcm del 30.12.2020 di finanziare con 700 milioni del PNRR il Fondo asili nido e scuole per l’infanzia varato con la legge di bilancio per il 2020 (L. 160/2019). I criteri di valutazione del bando scaturito da quello stanziamento, però, erano discutibili; prevedevano tra l’altro un punteggio aggiuntivo per i Comuni in grado di cofinanziare con proprie risorse di bilancio la costruzione dei nuovi nidi (quindi tendenzialmente per quelli a maggior reddito e probabilmente già dotati del servizio). Come notato in una audizione dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB), cui si rimanda, questo ha fatto sì che la quota degli assegnatari del finanziamento fra i comuni sprovvisti del servizio fosse inferiore rispetto ai comuni provvisti. Nella stessa Audizione l’UPB forniva utili suggerimenti per futuri bandi.

In una seconda fase, successiva all’approvazione della norma sul LEP, e dopo l’esperienza già fatta e le autorevoli critiche ricevute, il Ministero (ministro Bianchi) ha emanato il 2.12.2021 un ulteriore bando rivolto ai Comuni, con un finanziamento di ben 2,4 miliardi. Il Ministero avrebbe potuto disegnare un piano di sviluppo del servizio in Italia, individuando aree e municipalità nelle quali realizzare gli interventi. Invece, anche in questo caso si è deciso di procedere con un bando. La questione è importante, delicata: si può pensare che sia opportuno chiedere agli amministratori se desiderano attivare o potenziare il servizio e selezionare progetti realizzabili entro il 2026. Ma i diritti di cittadinanza dei bambini e delle bambine dovrebbero essere garantiti da una forte spinta politica nazionale. Si pensi se la realizzazione, e quindi le condizioni di frequenza delle scuole, fossero lasciate alla decisione dei Sindaci di partecipare o meno a bandi.

In ogni caso, il bando avrebbe dovuto essere destinato, con una scelta politica coerente con le decisioni prese per la legge di bilancio, ai Comuni sprovvisti del servizio, o con un servizio inferiore al LEP, in modo da muovere un importante passo verso la loro attuazione e verso una maggiore uguaglianza nei diritti. Non è stato così. Il bando è rivolto a tutti i comuni. E’ stato preceduto da una pre-allocazione delle risorse su base regionale. Ma basata su quale criterio? Escludere le regioni in media oltre il 33%, oltre che impraticabile politicamente, avrebbe leso i diritti dei bambini dei comuni di quelle regioni con scarso o nessun servizio. Si sono usati invece due criteri, con un peso rispettivamente del 75% del 25%, determinato autonomamente dal MI. Per allocare i tre quarti delle risorse si è introdotto un criterio del 43%. Sono state cioè destinate zero risorse alla Valle d’Aosta, che ha raggiunto quella percentuale di copertura del servizio e somme a scalare a tutte le altre. Ma a scalare quanto? Dagli scarni e non motivati dati resi pubblici, non è chiaro. Se per ricavare i pesi regionali sul totale disponibile pubblicato insieme al decreto, si prende la percentuale di copertura (numero di posti per bambini 0-2 anni) di ciascuna regione, desumibile dall’ Istat e si moltiplica per il numero di posti da coprire (in totale o per arrivare al 33%) non si arriva mai al riparto regionale che è stato deciso. Appare sempre una sovrastima delle necessità finanziarie delle regioni più piccole, come se la ponderazione demografica abbia avuto qualche problema di calcolo. Per il 25% si è presa la popolazione 0-2 prevista dall’Istat al 2035, senza considerare la copertura del servizio. Perché un peso del 25%? Perché non considerare le dotazioni? Ma soprattutto, perché al 2035? Non è chiaro. L’unica differenza del numero di utenti previsti al 2035 rispetto agli utenti attuali è che sono un po’ di più al Nord e di meno al Sud, a causa dei fenomeni demografici naturali e soprattutto migratori che l’Istat prevede. Ma il PNRR serve proprio a influenzare questi fenomeni, con quel che si farà entro il 2026. Usare i dati al 2035 significa implicitamente certificare la totale inutilità di quel che si sta facendo.

Definire pre-allocazioni regionali, piuttosto che procedere con un unico bando nazionale, aiuta a promuovere una maggiore equità territoriale. Ma dipende da come lo si fa. La pre-allocazione a favore delle regioni del Sud del secondo bando è stata pari a circa il 55%: la stessa percentuale che si era determinata come esito del primo bando. Una allocazione che ha certamente penalizzato, rispetto alla necessità, le grandi (ma non le piccole) regioni del Sud, in primis la Campania.

Quanto ai criteri del bando l’assenza del servizio pesava solo 45 punti sui 100 disponibili per la valutazione. Non vi erano poi incentivi per l’offerta intercomunale di servizi, una carenza penalizzante per le realtà di minori dimensioni. Anche in questo caso è disponibile una assai pregevole critica dell’UPB.

Ai comuni sono stati dati tre mesi per presentare progetti: un lasso di tempo decisamente assai ridotto. Non sorprendentemente, quando il bando è scaduto, a fine febbraio, le richieste hanno raggiunto la metà dell’importo disponibile. Ciò, a differenza di quanto avvenuto per gli avvisi paralleli relativi alla costruzione di nuove scuole, e alla realizzazione di mense e palestre per cui c’è stata una grandissima domanda. Sulla base di pochi dati filtrati (non sono disponibili dati ufficiali) è possibile dire che per i nidi la domanda è stata molto inferiore alla disponibilità economiche in tutte le regioni italiane tranne l’Emilia-Romagna. Il Ministero ha deciso una proroga di un mese. Al 31.3.22, rispetto a fine febbraio, come reso noto dal MI, le domande presentate sono passate da 953 a 1676 e i finanziamenti richiesti hanno raggiunto i 2 miliardi. Proprio questo dimostra che con maggior tempo a disposizione e con un’azione più tempestiva ed intensa di coinvolgimento delle realtà locali si sarebbero potuti raggiungere richieste ben maggiori. Il MI comunica che il maggior numero di richieste è arrivato dalla Campania (196) e che tutte le candidature provenienti dal Sud saranno accolte. Ma quanti dei comuni senza servizio o con modesti livelli di erogazione sono stati in grado di fare domanda? Al momento non c’è alcun dato per saperlo.

Nello spiegare la bassa richiesta alla prima scadenza, la sociologa Chiara Saraceno, in un articolo pubblicato su La Stampa il 10.3.22, ha avanzato alcune ragionevoli ipotesi: il timore di non poter sostenere i costi di gestione dei nidi, l’affanno dei Comuni nel dover presentare progetti contemporaneamente su tanti bandi; la maggiore facilità nel rispondere all’avviso su mense e palestre (per le quali possono esistere già da tempo progetti di realizzazione); ma anche una possibile sottovalutazione politico-culturale dell’importanza cruciale dei nidi. Non sorprenderebbe, purtroppo, se in qualche realtà ci fosse scarsa attenzione politica ad interventi che avvantaggiano in misura particolare le donne e i bambini. In particolare è del tutto possibile ipotizzare che le Amministrazioni siano state maggiormente in grado di avanzare domande per servizi che essi già gestiscono e conoscono bene: lo testimonierebbe la domanda, nettamente superiore alle disponibilità, pervenuta (anche dal Mezzogiorno) per gli interventi sulle scuole; per le palestre vi è stata una richiesta per 2,8 miliardi a fronte di 300 milioni disponibili. Ma proprio realizzare nuovi servizi laddove essi non ci sono, per le comunità che non se ne possono giovare, dovrebbe rappresentare il grande obiettivo del PNRR.

Staremo a vedere quando saranno disponibili i dati, in che misura il bando avrà favorito l’estensione del servizio e dei diritti. Vedremo come saranno utilizzate le residue risorse ancora da allocare. Ma, come già si accennava, resta un problema di fondo: il PNRR in questo come in tantissimi altri casi, procede per bandi. Il Governo nazionale stanzia le risorse e chiede ai Comuni di proporre progetti; se essi sono superiori alle disponibilità, li seleziona. Alloca territorialmente le risorse, senza preciso riferimento, come avvenuto in questo caso, alla disparità delle situazioni di partenza. Le nuove reti dei servizi si strutturano così “dal basso”, a richiesta. Se questo può portare ad avere qualche maggiori certezze sulla cantierabilità, e quindi sulla realizzazione, delle opere, e a selezionare i progetti ritenuti “più meritevoli” (ma sulla base dei criteri autonomamente decisi dai Ministeri, che in molti casi, come quello di cui qui si è detto, destano perplessità), certamente non soddisfa l’esigenza di avere una piena copertura. Cioè a raggiungere quello che dovrebbe essere l’obiettivo politico più importante: offrire il servizio del nido a tutti i bambini piccoli italiani, alla “nuova generazione”, indipendentemente da dove hanno la ventura di nascere. Invece, se si nasce in un Comune la cui Amministrazione è meno sensibile al tema, che non ha esperienza del servizio e non sa bene come fare, che è troppo piccolo per garantire un numero minimo di utenti, o collocato in una regione che ha raggiunto il plafond degli stanziamenti disponibili, che teme di non avere sufficienti risorse correnti per gestirlo, o che semplicemente non ha le risorse tecniche per rispondere ai bandi, si resta senza.

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