ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 182/2022

14 Novembre 2022

Aborto e persistenza del patriarcato: riflessioni a partire dalla sentenza Dobbs

Francesca Angelini riflette sugli effetti della persistenza del patriarcato a partire dalla recente sentenza Dobbs della Corte Suprema degli USA, che ha de-costituzionalizzato, in nome della tradizione, il diritto all’aborto. Il ritorno al centro della contesa politica dell’accesso all’aborto, anche nei rapporti fra livelli di governo, è un elemento comune a molti paesi che attraversano torsioni conservatrici e che, negli ultimi anni, ha riguardato anche l’Italia.

All’indomani dell’elezione di Trump, nel 2016, voci autorevoli del femminismo statunitense della differenza sessuale rilevarono come fosse tornato alla ribalta, dopo anni di lotte delle donne, il patriarcato, la cui cultura, organizzata secondo una «struttura binaria e gerarchica di genere» – che «eleva alcuni uomini al di sopra di altri e tutti gli uomini al di sopra delle donne» -, si alimenta dell’azione «di regole, codici e valori che prescrivono dettagliati comportamenti e ruoli su come stare al mondo sia agli uomini che alle donne» (C. Gilligan, Perché il patriarcato persiste? [2018], Milano 2021, 31-32). 

L’intero mandato di Trump ha testimoniano l’esattezza di quella previsione, dimostrando quanto siano profonde e radicate le forze politiche, sociali e psicologiche che alimentano la persistenza del patriarcato. Le ragioni di tale persistenza oggi appaiono chiare nel rafforzamento della rigidità della struttura sociale che ha veicolato i processi di restaurazione di stampo conservatore e illiberale che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato le esperienze politiche di diversi paesi, anche di democrazia consolidata. 

Non appare un caso, dunque, che in tutti quei paesi proprio l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza (d’ora in poi Ivg) sia stato posto simbolicamente al centro della contesa politica e del conflitto ideologico, sino al punto da diventare il banco di prova della capacità di comando, di una parte, di affermare orientamenti illiberali sull’intera società, come è avvenuto in maniera chiara in Polonia, ma anche in Ungheria. Da ultimo, l’eclatante caso della sentenza Dobbs, del 24 giugno 2022, con la quale la Corte suprema degli USA, a cinquant’anni dalla storica sentenza Roe del 1973 (confermata, nel 1992, dalla sentenza Casey), che aveva sancito il diritto federale all’aborto ricavandolo in via interpretativa dalla Costituzione, ha eliminato, con un clamoroso overruling, il diritto all’Ivg e contestualmente inferto un duro colpo al principio, fondamentale per il sistema costituzionale statunitense, dello stare decisis (che pone la vincolatività del precedente). 

La Corte suprema, nel caso Dobbs, è stata chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità di una legge del 2018 dello Stato del Mississippi, che prevede modifiche, in senso restrittivo, all’accesso all’aborto previsto a livello federale, riducendo a quindici settimane il tempo entro il quale è ammesso interrompere la gravidanza rispetto al criterio della viability, che consentiva l’aborto entro il tempo necessario affinché il feto potesse sopravvivere autonomamente al di fuori del corpo materno. La Corte suprema, con una decisione lunghissima (presa con una maggioranza di 5 giudici, una opinione concorrente e 3 dissenzienti) ha considerato i precedenti Roe Casey «un clamoroso errore» e un «abuso dell’autorità giudiziaria» e sulla base di argomentazioni originaliste, finalizzate a enfatizzare il concetto di storia e di tradizione, è riuscita a de-costituzionalizzare il diritto all’aborto. In maniera paradossale, dunque, la decisione incide pesantemente su una questione che riguarda chiaramente la condizione giuridica delle donne, facendo appello al valore della tradizione (intrisa di cultura patriarcale).

Benché clamorosa la sentenza Dobbs non giunge inaspettata. L’affermarsi di posizioni conservatrici e antiabortiste all’interno della Corte suprema era prevedibile dopo le ultime 3 nomine dei giudici da parte di Trump ed era già emersa in altre pronunce recenti; inoltre, la sentenza appare come il punto di arrivo di almeno 25 anni di politiche conservatrici e antiabortiste, frutto delle battaglie di organizzazioni religiose integraliste e reazionarie. Queste ultime, dopo anni di contestazioni aperte, anche molto violente, hanno utilizzato il potere legislativo degli Stati a maggioranza Repubblicana per rimettere in discussione modalità e tempi di accesso all’Ivg previsti a livello federale. È questo il caso della legge del Mississippi nella sentenza Dobbs. La decisione, discussa in tutto il mondo per i suoi effetti non solo sulla libertà di autodeterminazione delle donne ma anche sulla tenuta dei principi democratici, manifesta una forza estremista, affermando soluzioni unilaterali che pesano anche sul sistema costituzionale degli USA. Peraltro, rispetto alla questione posta, sarebbe stato sufficiente per la Corte suprema accogliere l’opinione concorrente del Chief Justice Roberts – che riconosce ugualmente la legittimità della legge del Mississippi senza, tuttavia, cancellare il diritto di aborto e senza mettere in discussione la sentenza Roe e il principio dello stare decisis – per giungere ad una decisione meno problematica dal punto di vista giuridico e politico. 

All’interno di un dibattito che pure ha rilevato i pericoli di messa in discussione dell’aborto «a tutte le latitudini e sotto tutti i regimi politici» (I. Dominijanni, in www.Internazionale.it, 25 giugno 2022), si è sottolineato da più parti, all’indomani della sentenza Dobbs, con intenti quasi rassicuranti, rispetto all’esperienza statunitense, che l’accesso all’aborto nel nostro Paese, anche se è stato consentito dalla sostanziale depenalizzazione operata dalla storica sentenza della Corte costituzionale n. 27/1975, è disciplinato e garantito dalla l. 194/1978 (in avanti l. 194); in realtà le maggiori minacce all’Ivg derivano proprio dalla l. 194 e dalla scelta, fatta dal legislatore del 1978, di ampia procedimentalizzazione dell’accesso all’aborto che ha finito per prestare il fianco a plurime forme di complicazione e di vero e proprio sabotaggio alla sua attuazione. 

Andando per ordine, va rilevato innanzitutto un cambiamento di strategia di opposizione alla l. 194. Nei primi due decenni hanno prevalso forme di contestazione diretta, come ben due referendum abrogativi di segno opposto, e di aperto attacco finalizzato a tentare anche la strada dell’illiceità morale, mettendo sotto accusa i medici non obiettori e le donne che facevano ricorso alla legge, violando il loro diritto alla riservatezza. Negli ultimi due decenni, le modalità di contrasto si sono trasformate soprattutto sul piano politico, basandosi su vere e proprie forme di boicottaggio operativo all’attuazione della legge, che spesso hanno come protagonisti anche livelli di governo sub statale, esattamente come negli USA a livello sub federale.

La portata della pronuncia della Corte suprema ha fatto sentire i suoi effetti nel nostro Paese, in particolare, durante l’anomala campagna elettorale dell’estate del 2022. In realtà, il tema dell’aborto era tornato centrale nel dibattito pubblico in Europa prima della sentenza Dobbs a causa della contestata sentenza con la quale, nel 2020, il Tribunale costituzionale polacco ha considerato legittima una legge che elimina la possibilità di ricorso all’Ivg anche in caso di violenza sessuale o di pericolo di vita della donna. Nello stesso anno, la pandemia ha contribuito a riaccendere il dibattito interno sull’aborto; le difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie durante i mesi del lockdown si sono sommate alle diffuse carenze e inadempienze che accompagnano da sempre l’accesso all’Ivg, al punto da compromettere del tutto la stessa prestazione, peraltro procedimentalizzata per legge in un sistema di tempi rigidamente prestabiliti. Molte donne si sono così viste negare l’accesso alla prestazione abortiva per interruzione del servizio (in due Regioni) o perché positive al Covid o, infine, perché mancavano i pochi operatori sanitari non obiettori. Per arginare tale grave situazione, il Ministero della salute, nell’agosto del 2020, ha adottato le nuove «Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine» finalizzate all’aggiornamento delle modalità applicative del c.d. aborto farmacologico che, accogliendo pratiche cliniche ampiamente sperimentate all’estero, oggi escludono il ricorso al ricovero ordinario di 3 giorni della donna, prevedono la somministrazione ambulatoriale del farmaco, anche presso i consultori, ed estendono da 7 a 9 settimane il periodo entro il quale la pillola abortiva può essere somministrata. 

La semplificazione del percorso abortivo farmacologico rappresenta una strada per superare le difficoltà poste dalla riorganizzazione dei centri ospedalieri in pandemia, ma, soprattutto, risponde all’esigenza di liberare quel percorso dall’intervento diretto del medico e, quindi, dagli effetti negativi connessi all’obiezione di coscienza. Attualmente circa il 65% dei ginecologi pratica l’obiezione, ma in 72 ospedali la percentuale è compresa tra l’80 e il 100% e in 18 di questi raggiunge il 100%. Inoltre, sono 4 i consultori con il 100% di personale obiettore (cfr. la ricerca di C. Lalli e S. Montegiove su www.associazionelucacoscioni.it). 

Tuttavia, all’indomani dell’aggiornamento, alcune regioni governate da coalizioni di destra (Umbria, Piemonte, Marche e Abruzzo), non solo hanno opposto il loro rifiuto ad applicare la nuova disciplina statale, ricorrendo a proprie Linee guida regionali e prevedendo il ritorno al ricovero ordinario, ma in alcuni casi hanno accompagnato tali decisioni a politiche di rimessa in discussione, indiretta, della libertà di autodeterminazione procreativa delle donne e lo hanno fatto dando attuazione, a modo loro, ad alcune disposizioni particolari della l. 194 che, all’epoca dell’approvazione della legge, furono il frutto del compromesso che condusse alla sua difficile definizione (cfr. particolarmente l’art. 2, lett. d, l. 194 «I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita»).

La Regione Piemonte ha così accreditato alcune organizzazioni anti-abortiste negli ospedali pubblici e nei consultori, prevedendo l’attivazione di sportelli informativi da parte di associazioni del volontariato quali il Movimento per la vita e i Centri di aiuto alla vita (CAV). Queste associazioni intervengono al momento dei colloqui che precedono il rilascio del certificato medico per recarsi in ospedale per l’Ivg con l’obiettivo di indurre le donne a un ripensamento della loro decisione. Più recentemente, nel mese di aprile di quest’anno, sempre la Regione Piemonte, su iniziativa di un assessore di Fratelli d’Italia, ha stanziato 400.000 euro a favore di associazioni antiabortiste, al fine di dissuadere con aiuti economici le donne che vogliono interrompere una gravidanza (cfr. www.quotidianosanita.it del 27 aprile 2022). 

A marzo del 2021 il Consiglio comunale di Pescara ha approvato una mozione, avanzata sempre da un consigliere di Fratelli d’Italia, che propone un incentivo di mille euro per le donne che rinunciano ad abortire (cfr. www.abruzzoweb.itdel 2 aprile 2021). 

Alla vigilia della formazione del Governo, in più occasioni Giorgia Meloni, quasi a voler rassicurare sul futuro della l. 194, ha sostenuto di non voler toccare la legge, anzi di volerla attuare per riconoscere il «diritto a non abortire». L’affermazione può avere due letture: la prima mira a sviluppare il ruolo fondamentale di luoghi come scuole e consultori quali presidi territoriali finalizzati a diffondere, preventivamente, una sessualità e una genitorialità consapevole di donne e uomini; la seconda guarda a misure puntuali dirette a dissuadere la decisione di donne che chiedono l’Ivg, ma che muove dal considerarle paternalisticamente come bisognose di aiuto. Le esperienze regionali appena riportate anticipano a livello sub statale ciò che ora può essere realizzato a livello nazionale e sembrano orientarsi verso la seconda delle strade indicate. 

Quarant’anni fa, con un difficile compromesso la l. 194 provò a conciliare il riconoscimento dell’autodeterminazione della libertà procreativa della donna con una disciplina fortemente procedimentalizzata e, per altri versi, decisamente paternalistica. Quel compromesso rischia oggi di offrire nuove vie di riemersione a vecchie forme di patriarcato. Così dopo decenni di lotte femministe dirette ad affermare la libertà delle donne, ad accrescere la consapevolezza della propria sessualità e della straordinarietà del proprio potere procreativo, a legittimare il desiderio di diventare madri con o senza un compagno e la libertà di scegliere di non esserlo, dopo aver conquistato spazi pubblici, come i consultori, a questo finalizzati, la persistenza del patriarcato sembra, come negli Stati Uniti, pronta a riposizionare paternalisticamente la condizione femminile ai blocchi di partenza. 

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