ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 177/2022

31 Luglio 2022

Alcune considerazioni sulla legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021

Michele Grillo riflette sul disegno di legge per il mercato e la concorrenza e propone due spunti di riflessione sulla mancanza di consenso diffuso per scelte politiche favorevoli al meccanismo di mercato. Il primo riguarda l’incapacità di cogliere la complementarità tra concorrenza nel mercato e istituzioni sociali che proteggono gli operatori dal rischio economico. Il secondo richiama la perdurante incomprensione delle ragioni, affermate nel referendum del 2011, del diritto di una collettività all’autoproduzione dei servizi pubblici locali.

Il percorso del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 si avvia in questi giorni alla sua conclusione con l’approvazione di un testo che rinvia o stralcia i temi più divisivi (come le concessioni balneari e i taxi). Questo commento non entra però nel merito delle singole proposte di riforma ed è estraneo alle vicende del governo Draghi. Intende invece cogliere l’occasione per una riflessione generale sulla vicenda complessiva di una legge “per il mercato e la concorrenza” che nel 2009 il legislatore ha imposto al Governo di presentare ogni anno alle Camere, a seguito della relazione annuale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), con il fine di “rimuovere ostacoli regolatori di carattere normativo o amministrativo all’apertura dei mercati, promuovere lo sviluppo della concorrenza e garantire la tutela dei consumatori”.

Tra il 2010 e il 2014 l’AGCM ha scrupolosamente contribuito all’attuazione della legge inviando pressoché tutti gli anni al Governo segnalazioni generali con proposte di riforma concorrenziale. L’AGCM ha poi fatto ricorso al potere di advocacy anche nel 2021 e nel 2022. In tredici anni il Governo si è tuttavia adeguato all’indicazione normativa solo nel 2017 e nel 2022, in entrambe le circostanze con vivaci resistenze nel dibattito pubblico. Il quadro che emerge rivela le difficoltà del Paese a raggiungere un consenso diffuso su politiche favorevoli all’operare del meccanismo di mercato e suggerisce l’opportunità di una riflessione ad ampio spettro. 

Un argomento spesso suggerito per spiegare l’impasse politica è l’influenza delle lobby in Parlamento e nel Governo. Si osserva che ogni singola lobby, concentrandosi su un interesse specifico, esercita una pressione politica più efficace rispetto al resto dei soggetti sociali che, portatori di interessi opposti ma dispersi, non riescono, sebbene più numerosi, a incidere con la stessa forza. Si nota, inoltre, che le diverse lobby possono coalizzarsi nell’arena politica. Non necessariamente per queste ragioni, nella segnalazione inviata al Governo nel marzo 2022 con riferimento al disegno di legge del prossimo anno, l’AGCM non è intervenuta ad ampio raggio, ma si è concentrata su ambiti specifici (i settori dell’energia elettrica e del servizio idrico integrato). Questa scelta dell’AGCM è però in contrasto con il diverso argomento utilizzato in passato (che l’intervento ad ampio raggio è preferibile perché costringe ciascun interesse specifico a una valutazione nella quale la somma dei benefici complessivi supererebbe il costo particolare). Peraltro, concentrare di volta in volta l’attenzione su un singolo ambito di intervento per evitare la coalizione tra le lobby, significherebbe fare affidamento su una improbabile ignoranza, da parte delle lobby, di come il terzo Orazio ebbe successo sui tre Curiazi con una strategia di “divide et impera”.

In ogni caso, complessivamente, l’attenzione all’architettura di intervento, o agli specifici contrasti sociali sollevati dalle proposte del Governo, aiuta poco a comprendere le ragioni delle difficoltà che legge annuale per la concorrenza incontra sistematicamente. Manca piuttosto nel dibattito pubblico una riflessione generale sulla debolezza, nel Paese, di una cultura favorevole a relazioni di mercato. Mi concentrerò così nel seguito su due spunti di riflessione. Il primo ha valenza generale. Il secondo si rivolge a un tema specifico del disegno di legge: i servizi pubblici locali.

In una prospettiva generale, la riflessione sulla concorrenza tende a ignorare che nel mercato i soggetti sono posti a confronto, sistematicamente e direttamente, con i rischi associati all’attività economica. Quando si trascura questo elemento non si vede però che molte forme di organizzazione dell’attività economica che ostacolano i meccanismi concorrenziali non sono percepite come fonte di rendita, bensì come istituzioni che assicurano gli individui dai rischi economici. Per esempio, in casi di protezione diffusa (come nella vicenda delle licenze dei tassisti), uno dei principali rischi del “mercato” percepito dagli operatori è la perdita di rendite capitalizzate che il detentore ha acquisito sopportandone interamente il costo. Il punto è che, se si vuole esaltare il meccanismo di mercato, occorre saperne cogliere una duplice sfida. Da un lato, il mercato aiuta la divisione sociale del lavoro ad adeguarsi nel modo più efficiente all’evoluzione delle tecnologie produttive e dei gusti dei consumatori. Dall’altro, i singoli soggetti economici, quando prendono decisioni in condizioni di incertezza, fanno i conti con una generale avversione al rischio e sono perciò portati sia a privilegiare assetti istituzionali che riducono il rischio individuale; sia, quando operano in contesti di rischio, a orientarsi verso scelte meno rischiose, che si accompagnano inevitabilmente a minori rendimenti. Pertanto, se si vogliono indurre i soggetti economici a riconoscere, in un “mercato” intrinsecamente rischioso, un modo efficiente di organizzare la divisione del lavoro, la politica deve preoccuparsi di operare tramite istituzioni sociali che, per un verso, siano compatibili con il meccanismo di mercato ma che, al contempo, siano anche dotate di un’adeguata portata assicurativa. Questo messaggio generale di Arthur Cecil Pigou in The Economics of Welfare ha ispirato gli assetti istituzionali del capitalismo occidentale nella seconda metà del secolo XX. Nel dibattito italiano la complementarietà tra istituzioni sociali che favoriscono la concorrenza nel mercato e istituzioni sociali che offrono protezione individuale dal rischio è invece sistematicamente ignorata. Spesso, anzi, gli stessi istituti del Welfare State sono considerati come un ostacolo al funzionamento del meccanismo di mercato. 

Un aspetto più astratto, ma rilevante dal punto di vista teorico, si collega a questa prospettiva. Negli ultimi decenni la teoria economica ha progressivamente abbandonato una visione “sistemica” della concorrenza da interpretare come un meccanismo sociale intrinsecamente win-win poiché induce ciascun soggetto a contribuire al benessere sociale specializzandosi, nella divisione del lavoro, nel ruolo nel quale gode di un vantaggio comparato. E’ prevalsa piuttosto una nozione darwiniana di concorrenza, culturalmente meno adeguata a farne apprezzare i benefici sociali, perché si concentra solo su un aspetto del meccanismo, peraltro in sé poco desiderabile. E’ una visione del mercato concorrenziale che si condanna facilmente al fallimento politico, perché si propone ai soggetti come un gioco conflittuale con un solo vincitore che emerge dal fallimento di numerosi soccombenti.

Il secondo spunto di riflessione riguarda i servizi pubblici locali. All’origine del modo con cui la legge per il mercato e la concorrenza tratta la questione c’è un difetto storico che risale a una ambiguità con cui il diritto della concorrenza fu introdotto in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta. Allora, a fronte delle pressioni europee che sollecitavano modifiche istituzionali favorevoli al mercato, si superò la contrarietà di diverse parti sociali (in ampia misura connesse con il mondo confindustriale) con un accordo di retorica politica che faceva leva sul presupposto che il principale obiettivo da perseguire fosse quello di affrancare l’economia italiana dalla presenza del soggetto pubblico. Questa premessa – allora in sintonia con un orientamento internazionale favorevole alle liberalizzazioni in numerosi settori – non ha fondamento nell’analisi economica (non lo aveva già allora, ma chi lo faceva notare era invitato a non ostacolare la necessaria mediazione politica): il diritto della concorrenza può facilitare le scelte di privatizzazione perché mira a controllare il potere economico privato, ma ha comunque poco da dire sulla presenza e sul ruolo dello Stato in economia.

Anche se negli ultimi tempi le ragioni a favore delle privatizzazioni si sono significativamente indebolite, il dibattito italiano sulla concorrenza continua a essere pervaso da questo difetto originario. Nella legge odierna il difetto rivive, in particolare, in una perdurante incomprensione delle ragioni dell’esito del referendum del 2011. Il referendum aveva cancellato un obbligo, introdotto per legge nel 2008, di affidare, tramite gara, i servizi pubblici locali a imprese che operano nel mercato. L’esito del referendum riconduceva la disciplina italiana ai principi comunitari che, a determinate condizioni, riconoscono il diritto di una comunità all’autoproduzione collettiva dei servizi pubblici locali. Non è peraltro irrilevante richiamare che il diritto all’autoproduzione è principio basilare del diritto antitrust, recepito anche in Italia nell’articolo 9 della legge 287/90. A fondamento del diritto all’autoproduzione, i promotori del referendum avevano invocato la caratteristica di beni comuni dei servizi pubblici locali, ritenendo che il principio di servizio universale non fosse tutelato adeguatamente nella normativa di cui si chiedeva l’abrogazione. La legge odierna attribuisce all’Autorità antitrust il potere di esaminare, e infine di approvare, la scelta di una collettività di esercitare il diritto all’autoproduzione, e di farlo alla luce di un criterio di valutazione che, mentre non ha riferimento alle ragioni sottostanti all’esito del referendum (la tutela del servizio universale), individua nella presenza di market failure la condizione necessaria perché una collettività locale possa opporsi all’obbligo di delegare l’offerta di servizi pubblici locali a operatori privati (assumendo, implicitamente, la delega al privato come sempre preferibile in assenza di market failure).

Le mie competenze non mi consentono di valutare se – come già avvenuto con un provvedimento del Governo Monti di cui la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità nel 2012 – questi passaggi della legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 sono contraddistinti dalla medesima ratio della normativa abrogata dal referendum. E’ plausibile che la nuova formulazione li renda immuni da quella critica. Il diverso punto che mi preme di mettere in evidenza è però che l’incomprensione delle ragioni sottostanti alla vicenda del referendum del 2011 (peraltro l’unico, dopo il 1995, ad avere raggiunto il quorum) è un ulteriore elemento che può aiutare a comprendere le radici della difficoltà che il Paese incontra nel trovare consenso su riforme di policy che favoriscano il ricorso al meccanismo di mercato. Come la difficoltà generale di cogliere la complementarità tra istituzioni sociali che favoriscono la concorrenza nel mercato e istituzioni sociali che offrono protezione dal rischio agli operatori economici, così anche l’incapacità specifica di vedere i servizi pubblici locali come beni comuni riflette, in una parte del dibattito politico, l’incomprensione di una prospettiva di cultura sociale diffusa che può spiegare le resistenze dell’altra parte alla luce di ragioni sociali molto più profonde delle modalità con cui le lobby riescono a esercitare efficacemente la propria pressione politica rispetto al resto della società.

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