ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 223/2024

15 Ottobre 2024

Appunti storici sulla riduzione dell’orario di lavoro

Massimiliano Massimiliani ripercorre l'evoluzione storica dell'orario di lavoro, dall'era preindustriale ai giorni nostri ed esamina come si sono trasformati i concetti di lavoro e tempo libero. Esplorando temi come il rapporto tra lavoro e strutture sociali, il ruolo dei movimenti dei lavoratori nel modellare le condizioni di lavoro e il dibattito sull’equilibrio tra lavoro e vita privata, l’articolo fa luce anche sulle discussioni contemporanee sulla riduzione dell’orario di lavoro e sul miglioramento della qualità della vita.

[…] mi batto soprattutto per la mia libertà, per la possibilità di esprimermi. E qui trovo un punto enorme di solidarietà con tanti miei simili, che anche loro hanno questo problema di essere soli, di essere liberi, di essere sé stessi. E questo sistema, il modo di produzione, che ancora gli rimane, […] gli nega questo diritto di realizzare sé stesso. È un diritto fondamentale, è quello che fa camminare una civiltà. Io non credo che sia il ripiegamento verso l’individualismo, quello che sto dicendo. La valorizzazione delle persone, della ricchezza che hanno dentro, è una grande battaglia di libertà e di progresso.

 (Bruno Trentin, “La straordinaria voglia di libertà”, 2008)

Il tema dell’orario di lavoro e della sua durata è stato un elemento di dibattito tra sociologi degli storici fin dall’inizio della rivoluzione industriale. Marx ed Engels parlarono di un peggioramento generale delle condizioni di lavoro e l’allungamento degli orari delle fabbriche nei primi anni dell’industrializzazione, in queste considerazioni sostenuti anche da osservatori vittoriani contemporanei (E.J. Hobsbawm, “Il tenore di vita in Gran Bretagna nel periodo 1790-1850”, in Studi di storia del movimento operaio, Einaudi, 1972). Il peggioramento delle condizioni materiali era anche legato alla rottura dei modelli socio culturali precedenti che determinarono un peggioramento generale delle condizioni materiali di vita e di lavoro. Tra gli altri, gli studi di Edward P. Thomson e Jan de Vries analizzarono la realtà del lavoro nell’Europa nel passaggio tra l’età preindustriale e quella moderna (Stefano Musso, “Tempo di lavoro, tempo di vita. Qualche riflessione dalla storia”, Lavoro Diritti Europa n.2/2023). 

Uno dei temi che Thompson evidenziò nei suoi lavori, ad esempio, era che la mancanza di una scansione del tempo legata all’orologio permetteva più ampi margini di autonomia nell’organizzazione del lavoro e del tempo da parte dei lavoratori. Riguardo il tema del cambiamento del modello produttivo, Jan de Vries teorizza una rivoluzione industriosa che dalla metà del ‘600 preparò la rivoluzione industriale. Intorno al 1650, infatti, nei paesi protestanti si registra una crescita della produzione, avvenuta con una scarsa innovazione tecnologica, grazie all’aumento dell’offerta di lavoro salariato nell’industria rurale a domicilio. Tra il XVII ed il XIX secolo si assiste a due trasformazioni: “la riduzione del tempo libero in seguito all’aumento dell’utilità marginale del reddito monetario e la riallocazione del lavoro da beni e servizi per il consumo diretto a beni commercializzabili, cioè una nuova strategia per la massimizzazione dell’utilità marginale familiare. Lo vediamo tra le famiglie di contadini che concentrano il loro lavoro nella produzione alimentare per il mercato, nelle famiglie contadine che dirigono la manodopera disoccupata verso la produzione protoindustriale, nel lavoro più estensivo e orientato al mercato di donne e bambini e, infine, nel ritmo o nell’intensità del lavoro” (Jan de Vries, “The Industrial Revolution and the Industrious Revolution”, The Journal of Economic History, Vol. 54, No. 2, 1994, pp. 249-270). 

Inoltre, ci sono studi che fanno risalire già al quindicesimo secolo l’aumento di attenzione per il tempo di lavoro da parte della Chiesa e dei capi cantiere per i lavori edilizi, mettendo in discussione in questo caso la visione weberiana della divisione tra mondo cattolico e mondo protestante sulla nascita del capitalismo (Musso, cit.). Sicuramente con la nascita del macchinismo si avviano, ben prima del taylorismo, tentativi per formalizzare il rapporto di lavoro, il rendimento e l’organizzazione del lavoro in fabbrica. Queste considerazioni evidenziano, quindi, una cesura meno forte di quella che normalmente si pensa tra età preindustriale e prima industrializzazione e che già in epoca Rinascimentale nell’Europa meridionale era presente un’attenzione consapevole riguardo a organizzazione e tempi di lavoro quantomeno nel settore edilizio. A questo riguardo, l’Imperatore di Spagna Filippo II nel 1593 emanò un editto che fissava un massimo di 8 ore di lavoro al giorno, divise in 4 ore la mattina e 4 ore il pomeriggio, limitatamente per i lavoratori impiegati nelle fabbriche reali e nella costruzione di fortificazioni e nei settori strategici come produzioni di armi e polvere da sparo (Recopilacion de leyes de los reynos de las Indias, Madrid, Iulian de Paredes, 1681, R/38740 V. 2, p. 347. Biblioteca Digital Hispánica).

Nell’agricoltura i tempi di lavoro erano sempre scanditi dalle stagioni e dalle condizioni meteorologiche, mentre nell’artigianato il tempo era misurato con il compito che l’artigiano doveva portare a termine (task oriented labour) più che con l’orologio (timed labour) (Edward P. Thompson, Tempo e disciplina del lavoro, Milano, 2011). Nell’era preindustriale nel settore agricolo e artigianale, ma soprattutto in quello agricolo, non c’era ancora una separazione netta tra lavoro e vita, tempi di lavoro e tempo libero. L’unità di lavoro era la famiglia allargata e i momenti di lavoro erano basati su reciprocità e lavoro comunitario anche tra gruppi familiari differenti. Se vogliamo parlare di tempo libero vero e proprio dobbiamo pensare alle domeniche e alle feste religiose o laiche. Con l’avvento del capitalismo quello della diminuzione delle festività fu uno dei campi di battaglia in cui anche la Chiesa cattolica fu molto impegnata, perdendo.

La battaglia per le otto ore era stata iniziata dal movimento operaio già dalla metà del XIX secolo. La festa del 1° maggio nasce proprio da questa battaglia: seguito degli scontri sanguinosi accaduti durante una manifestazione per le otto ore convocata nella zona del Haymarket a Chicago, otto operai vennero condannati a morte e quattro impiccati alla fine del processo. Per ricordare questa data, le organizzazioni operaie iniziarono a celebrare il primo maggio come festa del lavoro. 

Il Manifesto di convocazione della manifestazione di Haymarket a Chicago il 4 maggio 1886 (Fonte: Today in History, Library of Congress, https://www.loc.gov/item/today-in-history/august-20/)

Le otto ore vennero concesse formalmente solo dopo la Prima Guerra, quando si ottenne la riduzione effettiva dell’orario di lavoro settimanale a 48 ore anche per il settore industriale, anche se in molti settori ed in molti paesi l’orario effettivo rimase spesso superiore. Negli USA, ad esempio, la giornata lavorativa di otto ore fu introdotta negli anni ’30 con il New Deal di Roosevelt, grazie a una serie di leggi approvate dal governo federale, tra cui il National Industrial Recovery Act e il Wagner Act.

Ci vorranno ancora circa altri 50 anni per raggiungere l’obiettivo delle 40 ore con il sabato non lavorativo. Dopo aver raggiunto questo risultato, gli scontri tra manodopera e datori di lavoro continueranno sui temi delle ferie, dei ritmi di lavoro e degli straordinari. Proprio la limitazione del lavoro straordinario sarà uno dei punti più importanti nelle istanze del movimento operaio nella seconda parte del Novecento, con la richiesta di fissare i tetti massimi che potevano essere assegnati e che fosse più costoso per il datore di lavoro. 

Su questo tema si scontrarono le esigenze dei singoli lavoratori (soprattutto quelli più anziani) che avevano maggiori esigenze rispetto ai più giovani di incrementare il reddito di fronte a salari che non coprivano le esigenze crescenti della vita familiare. Un altro tema storico di conflittualità fu quello dell’organizzazione delle turnazioni per l’utilizzo ottimale degli impianti; per esempio, l’organizzazione 6 per 6 ha costituito spesso un altro elemento di scontro tra la parte più giovane della forza lavoro e quella più matura, con i primi che tentavano di mantenere sabati, domeniche e serate più libere per le esigenze della vita privata.

Con la crisi del fordismo dagli anni ‘70 ricominciano le richieste di riduzione dell’orario di lavoro, soprattutto con l’intento di combattere la disoccupazione strutturale. In questi anni, prende piede lo slogan “lavorare meno lavorare tutti”, anche se all’interno del movimento operaio si manifestarono sempre perplessità sulla possibilità di realizzazione di questo obiettivo posto in questi termini. Tra le voci dubbiose, possiamo ricordare la posizione di Bruno Trentin, che sosteneva che nell’epoca del post-fordismo la battaglia dei lavoratori e dei sindacati non si dovesse focalizzare solo sul tema dei tempi di lavoro, ma che si dovesse spostare sul tema dell’accrescimento del contenuto del lavoro e delle mansioni, per conquistare maggiori spazi decisionali nell’organizzazione del lavoro. Infatti, secondo Trentin le tecnologie potevano offrire le soluzioni per rompere la gerarchia delle costrizioni autoritarie tayloriste e costruire un nuovo lavoro di qualità. Inoltre,Trentin insisteva molto sulla questione che la diminuzione dell’orario di lavoro fosse legata in sede di contrattazione all’aumento delle ore di formazione in orario di lavorativo. Riguardo al tema della trasformazione e frantumazione del mondo del lavoro avvenuto con la fine della Golden Age ed alle sfide della modernità, Trentin sosteneva “c’è il lavoro in rete, poi ci sono forme addirittura di telelavoro, che sono una cosa un po’ diversa insomma. Il sindacato deve potere appunto avvicinarsi a tutte queste realtà frantumate, diciamo così, e rappresentare gli interessi della gente, certo non sugli obiettivi del passato, perché se si volesse dire 35 ore per tutti o un aumento salariale uguale per tutti, come se tutti fossero nella stessa identica condizione, come succedeva ben trent’anni fa, probabilmente falliremo. Ma dei problemi comuni ci sono: sono dei problemi di libertà, di diritti, di uguaglianza di opportunità, di governo del proprio tempo, di autonomia di decisione. È su questi problemi che il sindacato domani potrà rappresentare la nuova classe lavoratrice. Se io dicessi oggi, come dicevo, quando dirigevo i metalmeccanici, vent’anni fa, trent’anni fa: un aumento di centomila lire uguale per tutti, credete che muoverei una foglia in questo paese?” (Bruno Trentin, intervista, “La straordinaria voglia di libertà”, 2008).

In tempi recenti la Francia ha provveduto a ridurre ex-legis l’orario di lavoro a 35 ore, con una riforma che è entrata in vigore nel 2000 per le imprese con più di 20 dipendenti (dal 2002 per quelle più piccole), mentre la Germania ed altri paesi Nord-europei hanno scelto un approccio alla riduzione di lavoro tramite la negoziazione dei contratti tra datori di lavoro e sindacati. In Italia la richiesta di una legge sulle 35 ore proposta da Rifondazione comunista su imitazione del modello francese portò alla caduta del governo Prodi.

Ad oggi, le riforme ispirate al lavorare meno lavorare tutti, dove attuate, non sembrano evidenziare un riscontro diretto tra la diminuzione delle ore lavorate e l’aumento dell’occupazione. Tuttavia, si sono riscontrati effetti positivi per quel che riguarda la salute, il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’aumento della produttività. Sono questi che stanno guidando, almeno nelle economie più forti e nei settori avanzati, l’ulteriore evoluzione dei tempi di lavoro verso condizioni più sostenibili.

Schede e storico autori