Basta salari da fame: le ragioni di un salario minimo

Marta e Simone Fana presentano un estratto del loro libro “Basta Salari da Fame” pubblicato da Laterza. Dopo aver presentato alcuni dati sull’evoluzione del mercato del lavoro italiano, da cui emerge la necessità di porre il tema del livello dei salari e, dunque, della lotta al lavoro povero al centro del dibattito di politica economica, gli autori sostengono che alla base delle tendenze in atto c’è lo squilibrio di potere tra imprese e lavoratori e concludono affermando che la ricomposizione del mondo del lavoro non può prescindere dalla rivendicazione di salari minimi più elevati.

Stando alla memoria depositata in Senato dall’Istat la scorsa primavera, in occasione della discussione sul ddl sul salario minimo, l’incidenza dei nuovi rapporti di lavoro con una retribuzione lorda inferiore ai 9 euro l’ora va dal 4,5% per il settore delle attività minerarie al 61% degli altri servizi privati, passando per il 27% delle attività di alloggio e ristorazione e il 34% dei servizi di noleggio e altri servizi alle imprese, costituiti principalmente dalla somministrazione di manodopera da parte delle agenzie interinali alle imprese affittuarie. Salari da fame che confliggono con l’ideologia che vede nel terziario italiano, in particolare nel turismo, il nuovo “petrolio” di un’economia in declino. Dati che indicano quanto falsa e piena di malafede sia la narrazione della classe dirigente italiana. Dal sindaco di Gabicce, Domenico Pascuzzi, che sulle colonne del “Resto del Carlino” tuona contro i lavoratori stagionali che si rifiutano di rispondere ad offerte di lavoro per la stagione balneare, a Matteo Renzi, ex premier, che della svalutazione salariale ha fatto il proprio marchio di fabbrica. Inveiscono contro lavoratori e lavoratrici che rinunciano volentieri a dodici ore di lavoro al giorno pagate 35 euro e senza riposo settimanale. Non sono solo le periferie marginalizzate del mondo del lavoro a convivere con stipendi da fame: anche il 28% del settore dell’istruzione, valore poco più alto di quello relativo al settore turistico, e il 14,3% delle attività manifatturiere si trovano nelle stesse condizioni. Si tratta di salari pari a 9 euro lordi per ora lavorata, ma al netto delle ore di straordinario che farebbero ulteriormente diminuire quella soglia già di per sé fin troppo bassa.

Una condizione che colpisce principalmente, ça va sans dire lavoratori e lavoratrici con qualifiche di operaio: parliamo di 2.322.203 persone, circa un lavoratore su dieci tra quelli con contratto dipendente. E se 9 euro vi sembran pochi, provate a pensare a chi ne guadagna 4,4 lordi, come nel caso dei lavoratori a cui si applica il contratto dei “servizi fiduciari” – la vigilanza privata ma anche i servizi di portierato – firmato dalle maggiori sigle sindacali italiane. Uno spaccato di paese messo ai margini, vittima di un’umiliazione quotidiana, che ha saputo reagire, ritrovando nella lotta lo strumento per riprendersi la propria vita. È grazie alla vertenza di un lavoratore che questo contratto è stato giudicato con le seguenti parole dal giudice Giorgio Mariani: “Una retribuzione che prevede una paga oraria di 4 euro e 40 lordi, manifestamente non è sufficiente al lavoratore per condurre un’esistenza dignitosa e far fronte alle ordinarie necessità della vita”. Pur riconoscendo la validità normativa del contratto contestato, “questo non lo mette certamente al riparo dallo scrutinio di compatibilità con la norma costituzionale”. Il dibattito attuale sulla possibilità di introdurre anche in Italia un salario minimo orario corrobora l’idea per cui la questione salariale rimane un tema urgente per una proposta politica che voglia riportare al centro della scena la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici che vivono in questo paese. Sono dati che dovrebbero togliere il sonno a tutti quelli che sproloquiano contro i lavoratori o pensano di difenderli senza mai aggredire i nessi primari del conflitto distributivo tra salari e profitti. I contratti nazionali non sono oggi in grado di garantire un salario orario lordo di 6 euro. È un fatto. Scorrendo con maggiore attenzione il settore dei servizi si nota che solo raramente tale soglia per ora retribuita viene superata: si tratta dei contratti bancari, alimentaristi, dei ministeri, della sanità e degli enti locali. Gli ultimi tre nell’elenco appartengono alla funzione pubblica e non al settore privato. Tutte le altre attività secondo i dati del 2015 prevedono minimi contrattuali inferiori fino ad arrivare a meno di 6 euro lordi per colf e badanti, operai agricoli e portieri.

Stanno fuori da questi calcoli tutti i lavoratori autonomi e parasubordinati in balìa di una contrattazione basata sul prendere o lasciare imposto dai committenti, spesso veri e propri datori di lavoro come nel caso delle finte partite Iva, dei collaboratori con unico committente, di stagisti e tirocinanti di ogni genere ed età. Per capire appieno come e quanto la terziarizzazione in Italia abbia un aspetto di gran lunga differente da quello che avviene a livello europeo è possibile utilizzare i dati elaborati nell’European Job Monitor 2017 dell’Eurofound, in cui la dinamica delle strutture occupazionali viene mostrata in termini del connubio tra occupazioni e salari. Una metodologia che per tutti i paesi europei considerati classifica ogni coppia “qualifica professionale-settore economico” in base al suo salario medio orario. Ne viene fuori una distribuzione di tali coppie suddivisa in cinque parti – quintili – uguali, dal 20% più povero al 20% più ricco. Per ogni paese è poi considerata quanta parte della nuova occupazione si colloca in un quintile piuttosto che in un altro. A livello di Unione Europea, tra il 2011 e il 2016 si è avuta un’espansione dell’occupazione principalmente nel quintile più “ricco”, seguito da quello più povero. Un fenomeno che tecnicamente prende il nome di “polarizzazione con upgrading”. Guardando alla composizione per settore economico, risulta evidente che l’aumento dell’occupazione sia dovuto quasi esclusivamente a un incremento nel comparto dei servizi. È utile notare tuttavia che il settore manifatturiero contribuisce in maniera inequivocabile ad aumentare l’occupazione nel quintile più ricco, dove appunto i salari orari sono mediamente più alti del resto dell’economia.

Per quanto riguarda l’Italia invece si nota come l’espansione occupazionale sia dominata dalle combinazioni, qualifiche professionali e settori, in cui i salari orari appartengono al quintile -più basso – calcolato a livello europeo. Nei servizi a più alta produttività (tra cui la sanità), dove il livello delle retribuzioni è maggiore, l’aumento occupazionale non è neppure un terzo rispetto a quello del quintile più basso. Tra il 2011 e il 2016, l’Italia si caratterizza per un inequivocabile peggioramento della struttura occupazionale. Dati che in fin dei conti mostrano non tanto e non solo il processo di deindustrializzazione dell’economia italiana, ma anche la scelta consapevole e reiterata da parte del tessuto produttivo e imprenditoriale italiano di specializzarsi in settori a bassa produttività, dove tuttavia l’estrazione dei profitti non è mai stata messa in dubbio, grazie alla possibilità di ridurre o non aumentare i livelli salariali. In quegli anni si è sentito spesso ripetere, dai nuovi capitani di impresa e non solo, che il vero petrolio d’Italia era il turismo, per poi scoprire invece che proprio il settore dei servizi di cui il turismo fa parte è quello che mostra la dinamica più stagnante in termini di domanda estera (catturata dalle esportazioni). Nel periodo 1995-2017 il peso del settore manifatturiero sul totale del valore aggiunto si riduce del 12%. Oltre alla trasformazione della struttura produttiva in termini di “cosa si produce”, la possibilità di estrarre saggi di profitto più elevati senza dover ricorrere ad aumenti produttivi sia in termini quantitativi che qualitativi poggia su un’altra strategia: il decentramento produttivo con e senza il ricorso al sistema di appalti e subappalti. Utilizzato non solo in Italia, è uno tra gli espedienti attraverso cui i processi produttivi si dispiegano concretamente, rendendo sempre più variabile il fattore lavoro utilizzato.

Fintanto che i salari potranno scendere anche al di sotto della soglia di povertà e sussistenza, le imprese avranno tutto l’incentivo ad aumentare l’attività in questi settori a scapito di quelli maggiormente produttivi e/o in cui i salari sono più elevati. Guarda caso, infatti, la caduta del salario minimo reale negli Stati Uniti è strettamente legata a un’espansione dell’occupazione nei settori più poveri, invertendo proprio quella tendenza all’emancipazione avvenuta a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Dinamiche ampiamente discusse da Erik Olin Wright e Rachel Dwyer a partire dal 2003: gli autori evidenziano il nesso tra la svalutazione dei salari reali, che passano dai 7,07 dollari del 1968 ai 5,02 del 1992, e una crescita dell’occupazione nei settori poveri pari al 20% dell’intera espansione occupazionale di inizio anni Novanta (“The Patterns of Job Expansions in the USA: A comparison of the 1960s and 1990s”, Socio-Economic Review, 2003, pp. 289 -325). Il parallelo con l’Italia di oggi, in cui la terziarizzazione è giocata sulla parte più povera della struttura produttiva, appare quanto mai evidente, così come dovrebbero esserlo i moniti di Olin Wright e Dwyer.

La battaglia per la ricomposizione del mondo del lavoro passa dalla rivendicazione di salari minimi più elevati e, nel nostro caso, dalla sua introduzione. Lo stesso ragionamento si può applicare alla struttura dei processi produttivi, dove la frantumazione e la gestione a rete propria dei modelli dominati dalle esternalizzazioni delle fasi produttive sono state rese possibili e convenienti dalla possibilità di sfruttare i lavoratori. L’introduzione e/o l’aumento dei salari grazie al salario minimo sarebbero quindi una prima e ferma risposta al tentativo del capitale di ristrutturarsi a scapito dei lavoratori, perché renderebbero vani i tentativi di sfruttamento attraverso gli appalti al ribasso, l’intermediazione di manodopera, i contratti a cottimo. Certo, è necessario che il salario minimo non sia solo un tratto di inchiostro su carta, ma tra averlo e lottare affinché sia rispettato e non averlo c’è una bella differenza. Come non ci può essere alcun tentennamento nello scegliere tra un po’ di flessibilità e profitto per le imprese e un vantaggio generalizzato per i lavoratori e quindi per l’economia tutta. Non soltanto, è possibile stabilire il salario minimo legale a complemento della contrattazione collettiva e non in sostituzione ad essa; ciò dipende dal come viene regolamentato, cioè dalla scelta politica sul tema. Le evidenze In Europa e non solo dimostrano che il salario minimo aiuta la contrattazione collettiva sia nei periodi di crescita, promuovendo un maggiore aumento i tutti i salari, che di crisi, fungendo da fattore di resistenza contro la svalutazione e compressione salariale.

Si è detto che una discussione sul salario minimo è aperta. Ma nessuno sembra voglia portarla a termine nell’interesse di chi lavora. Sarebbe sufficiente partire da una soglia minima tabellare fissata a 10 euro l’ora a cui aggiungere contributi, ferie, tredicesima mensilità e malattie. Sarebbe un modo per garantire a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici una soglia di dignità, da cui non si scende. Significherebbe arrestare alla base il meccanismo di sfruttamento che schiaccia le vite di milioni di persone per il profitto di pochi. Un pavimento che consentirebbe ai sindacati di aggredire spazi di potere da restituire ai lavoratori, riportando al centro della contrattazione il tema dell’organizzazione del lavoro, dal controllo sui turni alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, e – perché no? – di rivendicare ulteriori aumenti salariali come leva per la crescita della produttività, e non viceversa.

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