Bolsonaro e il rischioso futuro del Brasile

Leonardo Ditta, completa la sua analisi del passaggio della presidenza brasiliana da Lula a Bolsonaro che ha acquistato nuovi motivi di interesse dopo la recente pubblicazione di intercettazioni che mostrerebbero l’esistenza di un disegno per escludere Lula dalla competizione elettorale del 2018. Ditta, ricostruisce le complesse vicende che hanno accompagnato il secondo mandato e l’impeachment di Dilma Roussef suggerendo che la loro spiegazione sta nell’intrecciarsi, quasi perverso, dell’elemento politico con la crisi economica.

Le vicende che hanno portato, nello scorso ottobre, Bolsonaro alla presidenza del Brasile sono al centro di una grande attenzione dopo che, negli scorsi giorni, The Intercept ha reso note conversazioni telefoniche tra i procuratori dell’accusa e il giudice, oggi ministro della giustizia, Sergio Moro, che gettano più di un’ombra sul processo che ha portato alla condanna per corruzione di Lula poco prima di quelle elezioni, spianando la strada al successo di Bolsonaro. Quelle conversazioni lasciano trasparire un progetto di lawfare contro l’ex presidente brasiliano, cioè di uso del diritto come arma politica.

Gli specialisti del diritto già sospettavano che l’operazione anti corruzione, auto denominatesi “Lava-Jato”, fosse un esempio di uso di procedimenti giudiziari a fini politici. I documenti finora pubblicati da The Intercept confermano questi sospetti e fanno intravedere una realtà anche più grave. In particolare, i procuratori della “Lava-Jato”, sempre molto elogiati dalla stampa ufficiale, sembrano essersi via via appropriati di poteri e competenze eccezionali e avrebbero ricondotto attraverso dubbi collegamenti a una sola città, Curitiba, e a una sola circoscrizione giudiziaria, la propria, processi che avrebbero dovuto essere celebrati altrove, ed hanno quindi finito per avere tutti un unico giudice, Moro. Quest’ultimo – che per occuparsi di questi processi è stato dispensato da ogni altro incarico – è apparso a un’opinione pubblica abituata da anni a pensare che i giudici garantissero l’impunità dei potenti come l’eroe nazionale della lotta alla corruzione.

In realtà vi sono motivi per ritenere che la legge sia stata applicata in maniera arbitraria e che senza tale arbitrio non ci sarebbe stata la condanna di Lula in prima istanza da parte di Moro (luglio 2017) né la conferma di tale condanna (nel gennaio 2018, in tempi brevissimi) da parte del Tribunal Regional Federal della 4ª Região. Alla luce delle rivelazioni di The Intercept, queste condanne sembrano l’esito di un progetto diretto a scongiurare l’elezione di Lula nel 2018 e ad eliminare il suo partito, il PT, dalla scena politica. Viene rafforzato il sospetto che l’assegnazione a Moro del ministero della Giustizia nel governo Bolsonaro, sia stata una ricompensa per il lavoro svolto.

Questi recentissimi eventi accrescono l’interesse per l’analisi del più complessivo processo che ha portato dalle presidenze Lula a quella di Bolsonaro passando per la presidenza di Dilma Roussef estromessa dalla carica, nel corso del suo secondo mandato in seguito all’impeachment per violazione delle regole fiscali, conclusosi nell’agosto del 2016. Proseguiamo, allora, in queste note l’analisi di quel processo iniziata sullo scorso numero del Menabò.

Nell’ottobre del 2014, contro le aspettative, Dilma vinse per la seconda volta le elezioni presidenziali ma con uno scarto molto ristretto di voti nei confronti del candidato del PSDB ( 51,65% contro 48,36%). Dalle elezioni emerse, però, un congresso prevalentemente di destra, con una forte presenza di deputati direttamente o indirettamente legati a chiese e sette evangeliche. La sconfitta di misura e la composizione del parlamento fecero maturare nell’opposizione la convinzione che fosse possibile conquistare il governo per altre vie, dopo la quarta sconfitta consecutiva nelle urne. La situazione economica favorì in qualche modo questo progetto.

Durante i governi Lula la crescita economica e i programmi sociali inclusivi (‘Fome Zero’, ‘Bolsa Familha’ e ‘Minha casa Minha vida’ sono i più noti) avevano sostenuto la domanda ed avevano permesso a 31 milioni di brasiliani di entrare a far parte della classe media e ad altri 20 milioni di sollevarsi dalla condizione di povertà assoluta, senza violente reazioni sociali. La conciliazione di classe e il ‘riformismo dolce’ caratterizzarono i governi del PT.

Il salario minimo fu elevato, trascinando tutti i salari, inclusi quelli del settore informale. La crescita dell’occupazione era stata imponente; il tasso di disoccupazione era sceso a un livello senza precedenti in Brasile, 4,5%, e vi era rimasto sino alla crisi del 2015. E’ probabile che questa situazione di quasi piena occupazione abbia prodotto nella classe imprenditoriale una reazione avversa simile a quella che Kalecki aveva previsto nel suo articolo del 1943 (M. Kalecki, Political Aspects of Full Employment). D’altro canto, il rallentamento della crescita che iniziò a manifestarsi nel corso del primo mandato della Rousseff, e la recessione poi, di cui si è detto nel precedente articolo, incrinarono il clima di conciliazione sociale, provocando la rottura del blocco sociale che aveva sostenuto i governi del PT. Il voto evidenziò anche una spaccatura territoriale. Il paese appariva diviso tra le regioni più ricche del Sud e del Sud-Ovest (largamente a favore del candidato dell’ opposizione), da un lato, e il Nordeste e le altre regioni povere (più fedeli al PT), dall’altro. Questa situazione finì col rinforzare il disegno dei fautori dell’impeachment.

Per comprendere meglio gli eventi di quel periodo è opportuno ricordare un aspetto del sistema politico brasiliano: il “presidenzialismo di coalizione”. Il presidente è direttamente eletto dal popolo, ma deve cercare in parlamento le alleanze necessarie per governare. La frammentazione delle rappresentanze parlamentari (nel 2014 i partiti presenti in parlamento erano 28) ben poche portatrici di interessi generali; la grande maggioranza rappresentava gli interessi di caciques locali. Da qui il forte rischio di clientelismo e corruzione cui è esposto il sistema brasiliano.

Dilma riuscì comunque a formare il governo con il PMDB (Partito do Movimento Democratico Brasiliano) già alleato nel primo mandato; il clima era estremamente difficile.

Appena dopo aver vinto le elezioni, smentendo gli impegni presi in campagna elettorale di non ricorrere a politiche di austerità fiscale e proseguire con i programmi di inclusione sociale, Dilma annunciò un programma di aggiustamento fiscale e nominò ministro un economista, formatosi alla scuola di Chicago, membro del consiglio direttivo di una delle principali banche private del paese. Queste mosse avevano quasi certamente lo scopo di rassicurare quei settori della società, specialmente le oligarchie finanziarie ed economiche, che avevano già manifestato la loro decisa opposizione e che minacciavano il suo impeachment per violazione della legge di ‘resposanbilità fiscale’.  Il tentativo non riuscì ma favorì, invece, l’allontanamento di quella parte di società, i più poveri, che aveva alimentato il “lulismo” e favorito il successo elettorale. Dilma si ritrovò sola contro il congresso.

La svolta del PMDB divenne aperta allorché Dilma si rifiutò di appoggiare la candidatura alla presidenza della camera di un notabile del partito alleato, Eduardo Cunha, un evangelico di Rio de Janeiro, che era indagato per corruzione e che aveva già mostrato di essere un alleato inaffidabile. Cunha divenne ugualmente presidente della Camera, agli inizi del 2015, e mise subito nell’agenda dei lavori dell’assemblea l’impeachment di Dilma, richiesto dal partito sconfitto alle presidenziali, il PSDB. A quel punto il fronte dell’impeachment si allargò al PMDB, sebbene alleato di governo, perché i suoi maggiori esponenti erano sempre più preoccupati per le inchieste anti-corruzione; anche se orientate principalmente contro il PT, esse rischiavano di coinvolgere tutti.

L’intento era allontanare la presidente per poi intervenire e tentare di “fermare l’emorragia” (secondo l’espressione di un esponente di spicco di quel partito, poi divenuto ministro del governo ‘usurpatore’) con un “patto” che coinvolgesse tutti, parlamento, giudiziario e corte suprema. Ovviamente questo non poteva essere l’obiettivo dichiarato, così l’enfasi fu posta sulla politica economica.

Il vice-presidente Temer e altri notabili del PMDB, si schierarono contro il governo perché contrari alla sua politica economica e favorevoli a una linea decisamente neo-liberale espressa nel documento “Uma ponte para o futuro”. Lo stesso Temer, divenuto presidente dopo l’estromissione di Dilma, confermò tale tesi in uno speech del 2017 presso l’ American Society/Council of the Americas (AS/COA): “And many months ago, while I was still vice president, we released a document named ‘A Bridge to the Future’ because we knew it would be impossible for the government to continue on that course. We suggested that the government should adopt the theses presented in that document called ‘A Bridge to the Future.’ But, as that did not work out, the plan wasn’t adopted and a process was established which culminated with me being installed as president of the republic.”

La procedura di impeachment venne avviata alla Camera nel dicembre 2015 e si concluse al Senato il 31 agosto del 2016, con 61 voti favorevoli e 20 contrari. Ciò, nonostante l’accusa di irresponsabilità fiscale fosse ritenuta priva di fondamento. Come hanno sostenuto autorevoli costituzionalisti le maglie della legge attuale sono troppo larghe. Il giudizio è di tipo politico prima che giuridico e pertanto deputati e senatori hanno ampio margine di decisione e diventa decisivo il sostegno di cui gode il governo nel parlamento.

Il sen. Serra, un notabile del PSDB, divenuto ministro degli esteri nel successivo governo Temer e molto impegnato nell’impeachment, ha significativamente affermato in un’intervista: “ Non ho mai ritenuto che la presidente Dilma potesse perdere il mandato a causa della crisi economica: quel che succede nel nostro paese è che il sistema politico impedisce un cambiamento non traumatico del governo. Storicamente i presidenti sono cambiati per suicidio, rinuncia, deposizione o impeachment. Il sistema presidenzialista non permette altro. Pertanto l’impeachment è uno strumento politico che ha conseguenze legali”. (Serra si riferisce al suicidio di Getulio Vargas del 1954; alla rinuncia di Janio Quadros nel 1961 a favore del suo vice Joao Goulart, poi deposto dal golpe militare nel 1964; alla sostituzione, nel 1992 , di Collor de Melo con il suo vice Itamar Franco, a seguito dell’impeachment intentato contro di lui dal parlamento).

Secondo i sostenitori dell’inpeachment, una volta estromessa Dilma, la crisi che aveva causato la forte contrazione del Pil negli anni 2014-15, si sarebbe risolta. Un severo aggiustamento fiscale e le previste riforme di segno neoliberale avrebbero favorito il miglioramento delle aspettative, il rilancio degli investimenti e la ripresa dell’economia; ciò avrebbe in qualche modo dato legittimità al “golpeachment” e posto le condizioni per il successo alle successive presidenziali dell’ottobre 2018.

Questo progetto è però fallito. La ripresa è stata molto debole e la disoccupazione non si è ridotta. I candidati dei partiti che avevano dato vita al ‘golpeachment’ sono pressoché spariti dalla scena. Geraldo Alckmin, governatore dello stato di São Paulo, lo stato più ricco del Brasile ed uno dei leader più noti del PSDB, ha ottenuto al primo turno il 4,76% dei voti, mentre Henrique Meirelles, ministro dell’economia del governo uscente, e candidato per il partito del Presidente Temer non è andato oltre il 2%.

Perché la crescita non si è realizzata nella misura attesa? Da un punto di vista strettamente economico le aspettative avrebbero dovuto riguardare il rapporto tra profitti attesi dall’investimento e i suoi costi. Ma nonostante il potenziale storico di crescita dell’economia brasiliana, la cosiddetta ‘razionalità’ degli agenti non si è manifestata. Perché si è avuto quello che è stato definito un vero e proprio boicottaggio degli investitori?

L’intrecciarsi quasi perverso dell’elemento politico con la crisi economica ci porta verso una spiegazione che le rivelazioni di The Intercept sembrano ampiamente confermare.

Dal 1985 – dopo 21 anni di regime militare e a 30 anni dall’adozione della nuova Costituzione del 1988- il Brasile non si era mai trovato in una crisi così profonda. Crisi che è insieme economica, politica e istituzionale e la cui drammaticità ha indotto a parlare di fine del ciclo politico iniziato proprio con il ritorno alla democrazia. Da un lato si è assistito alla fine apparente dei partiti tradizionali che nelle sei elezioni presidenziali precedenti hanno catturato i consensi di borghesia urbana di centro destra, come il PSDB, consensi che ora rischiano di prendere direzioni ben più pericolose. Dall’altro desta preoccupazione l’incapacità delle istituzioni della “Nuova Repubblica” di rispondere alle aspettative di giustizia sociale sancite dalla Costituzione Federale del 1988 e dal patto sociale in essa contenuto. Ecco perché questa crisi costituisce una minaccia per lo stesso futuro del paese.

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