Buio in sala: chiusure e transizioni dei cinema di Roma

Stefano Scanu racconta le chiusure, le trasformazioni e, talvolta, le riaperture delle sale cinematografiche romane con lo sguardo di chi ritiene che esse aiutino a comprendere la trasformazione della città, perché i cinema raccontano noi e le nostre città. Scanu riflette anche sul ruolo di Netflix nel determinare le tendenze in atto e ipotizza, richiamando anche due recenti episodi, che possa trattarsi di un ruolo non soltanto negativo per le sale ma anche di stimolo a recuperarle come luoghi che simboleggiano l’appartenenza a una comunità.

Negli anni ho provato a mappare i cinema e le sale romane, l’ho fatto attraverso degli articoli ma soprattutto scrivendo un libro in cui tentavo di mettere ordine alla caotica idea che di questa città mi sono fatto nel corso del tempo. Si trattava di fissare i presidi, ciò che in una metropoli è giusto sia segnalato e ben visibile, direi anche per un senso di sicurezza, proprio come si fa con le strutture fondamentali del tessuto urbano. È sempre bene sapere dove si trova l’ospedale, la caserma o la pompa di benzina più vicina a te, è una questione di sopravvivenza. Lo stesso vale per i cinema.

Negli ultimi dieci anni però sono fallite oltre trenta sale senza considerare la provincia e questo catalogo che ho stilato assomiglia sempre di più a un bollettino di guerra.

Ultimamente tale sorte è toccata a due cinema di Trastevere: l’Alcazar e il Filmstudio in cui Nanni Moretti mosse i suoi primi passi. Ha chiuso anche il Kino di via Perugia, nel quartiere Pigneto. Un cinema-bistrot di appena 37 posti, 17 in meno di quelli che servivano per mettere a sedere simultaneamente tutti i suoi soci fondatori. Sarà forse per questa mancanza di spazio che il Kino era diventato l’unica sala diffusa della capitale. La si trovava nell’arena delle terme di Caracalla, in una chiatta sul Tevere, nelle stanze abbandonate dell’ex Palazzo della Zecca e perfino a Berlino, nel quartiere Kreuzberg. Ancora prima ha cessato le sue attività il Fiamma, uno degli impianti storici romani, a due passi da via Veneto da cui assorbì tutto il glamour del tempo; non è un caso che nel 1960 ospitò la prima del film simbolo di quell’epoca, La dolce vita.

Penso alla Sala Trevi, l’ultima in ordine di tempo ad abbassare le luci. Era un cinemino dietro la più famosa fontana del mondo, aveva una parete trasparente attraverso cui si indovinavano i resti dell’Acquedotto Vergine ma soprattutto dal 2003 era la sede della Cineteca Nazionale. Da quando ha chiuso il suo infinito patrimonio filmico non ha ancora trovato una sistemazione definitiva.

A queste chiusure però fanno da contraltare gli ultimi dati nazionali dell’Anica che dal 2018 al 2019 segnalano una crescita degli incassi e dell’affluenza intorno 14%. Evidentemente bisogna separare la percezione sentimentale dalla realtà dei fatti, intanto ogni volta che registro la chiusura di un cinema, devo depennare dalla mappa e dalla mia testa un altro nome, dopodiché vado a vedere di persona quella che può già considerarsi una rovina del quartiere e rimango a leggere per un po’ le locandine dei film e gli avvisi ancora affissi, come quegli anziani che si fermano a guardare i necrologi per strada. La prima cosa che noto è che la zona ha già cambiato il suo aspetto perché i cinema non sono strutture comuni, caratterizzano il luogo in cui sorgono sia socialmente che architettonicamente e trovo che raccontare Roma con le sue borgate attraverso le proprie sale sia un modo efficace per capirne le trasformazioni.

I cinema sono edifici aggreganti che definiscono la vita di un quartiere, un po’ come avviene con le chiese. A pensarci bene hanno molto in comune, a partire da una straordinaria predisposizione allo storytelling: che sia su una panca di legno o su una poltrona di velluto, in entrambi i casi si sta seduti in silenzio ad ascoltare una storia. Hanno i loro codici, la loro ritualità che trova nella celebrazione domenicale la massima espressione di condivisione. Per entrambi il Natale rappresenta in un certo senso l’alta stagione. Scommetto che la maggior parte delle persone che entra in processione nella chiesa del mio quartiere per la messa della vigilia, è la stessa che il giorno di Santo Stefano fa la fila fuori dai cinema. E inoltre, sia la parola cinema, che la parola chiesa, definiscono l’edificio così come l’attività che vi si svolge. Non è un caso che molte sale ancora oggi in attività siano nate nell’oratorio di una basilica.

La città cambia aspetto, cambiano i suoi edifici e i nomi dai cui è composta: al posto dell’Arlecchino, dell’Alcazar, del Cine Holiday o del Cinema Impero, troviamo ormai la scritta Multiplex con a seguire il nome del centro commerciale in cui sono stati ricavati. Dei non-luoghi dentro altrettanti non-luoghi, praticamente delle matrioske effimere. Nulla a che vedere con i primi, anche solo per quella onomastica che denunciava un’identità e un progetto culturale. Dentro quei nomi e in quelle architetture c’era chiaramente la volontà di apparire esotici, divertenti, lussuosi, impegnati o disimpegnati. C’erano ancora tracce della storia recente e della passata dittatura.

I cinema raccontano le nostre città e noi. Riconvertiti in bingo o supermercati, abbandonati a se stessi perché troppo grandi e complicati da riempire, che si associano e si dissociano, che resistono, si consorziano, danno scandalo, che passano dalle prime alle seconde visioni, a quelle a luci rosse, che vengono occupati, picchettati, sgomberati e mistificati. In ogni modo ci descrivono come individui e cittadini, esattamente come è successo circa un anno fa attraverso un cortocircuito sociale in cui fruizione individuale ed esperienza pubblica si sono fuse indistricabilmente.

Quando nel 2018 uscì Sulla mia pelle, il film distribuito da Netflix che ripercorreva gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi attraverso una via crucis che partì dalla caserma romana dei carabinieri di Appio-Claudio e finì all’ospedale Sandro Pertini, passando per il carcere di Regina Coeli, i normali riti e le regole secondo cui un film nasce, vive e muore nei modi e nei luoghi a cui siamo abituati, saltarono.

Era già successo che il colosso californiano producesse o distribuisse dei film in modo esclusivo ma tutto rimaneva sempre nell’ermetico ambito del web. Poi a poca distanza l’uno dall’altro nel menù aggiunti di recente di Netflix, tra l’ultima stagione di Narcos e quella di Stranger Things, ci vengono suggeriti Roma e il film su Cucchi.

Il modo in cui queste due storie si propongono all’esterno non assomiglia per nulla a ciò a cui eravamo abituati. L’opera di Cuarón, ad esempio, in principio si presenta al Festival di Cannes per poi decidere di autoescludersi. Partecipando alla rassegna infatti avrebbe dovuto adeguarsi alla legge francese secondo cui un film deve uscire prima nelle sale, poi in dvd e solo dopo tre anni in streaming. Neanche a parlarne. Roma non solo diventa il primo film prodotto da una piattaforma d’intrattenimento a ricevere l’oscar, ma è anche un perfetto esempio di spettacolo in cui preferire la sala cinematografica alla visione casalinga diventa un atto volontario e autodeterminante. Ricordo quando per soli tre giorni del dicembre di quell’anno il film venne proiettato nei cinema italiani, esattamente una settimana prima di essere caricato su Netflix. Migliaia di persone riempirono inaspettatamente le sale per consumare un filmone messicano in un bianco e nero secco e polveroso come i suoi dialoghi, senza pensare che contemporaneamente stavano mettendo in scena una grande manifestazione pubblica contrapposta a quella privata, partecipazione contro isolamento. Ognuno di quegli spettatori aveva scelto consapevolmente quando, come, con chi e dove vedere Roma.

Se è vero che il film di Cuarón ha liberato il campo da una certa idea di spettatore passivo, Sulla mia pelle ha dato una ulteriore spallata sfuggendo ad ogni controllo e regola.

Il 29 agosto del 2018 il film su Cucchi viene presentato alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, gli atti del processo che riguardano questa vicenda non sono mai stati più caldi. Neanche due mesi prima infatti il vice-brigadiere Tedesco, uno dei carabinieri imputati, denuncia ufficialmente la scomparsa dell’annotazione di servizio che scrisse la notte del pestaggio, frantumando per la prima volta la cortina di omertà che asfissiava l’intera vicenda. Il film di Cremonini alimenta intrinsecamente il caso Cucchi e viceversa. La distanza temporale tra il fatto accaduto e la sua rappresentazione artistica non corrisponde a quella emotiva, sembra che Stefano Cucchi sia morto da pochissimo e la somiglianza, oltre che l’interpretazione, di Alessandro Borghi fanno il resto. A questo punto decidere come diffondere il film diventa una questione delicata e controversa.

A settembre del 2018, poco dopo la proiezione veneziana, Sulla mia pelle viene distribuito sia nelle sale che su Netflix eludendo così il periodo di garanzia che separa l’uscita al cinema da tutte le altre. Questo avviene perché la Lucky Red (distributore e produttore del film) e la piattaforma americana pensano e funzionano in due modi completamente diversi e il film su Cucchi non ha fatto altro che mettere in crisi i loro mondi, facendoli scontrare su un terreno impraticabile per entrambi.

Se si fosse trattato di qualsiasi altra opera forse si sarebbe trovata una soluzione più diplomatica, esattamente come è successo per Roma, ma la storia di Stefano Cucchi ha troppe implicazioni politiche ed emotive per poter essere derubricata pacificamente. Quindi scoppia la polemica e gli effetti sono che Andrea Occhipinti (presidente Anica) rassegna le sue dimissioni mentre le sale fanno blocco decidendo di boicottare il film. A questo punto su Facebook iniziano a diffondersi eventi di proiezione pubblica e gratuita del film, la città si adatta, i centri sociali e i circoli lo proiettano senza sosta, nascono cinema clandestini e antagonisti, arene e terrazze, basta collegare il pc a un proiettore e il gioco è fatto, con buona pace della piattaforma streaming che per un po’ prova a denunciare il fatto ma senza troppa convinzione. Il caso più significativo è quello che ha riguardato l’Università La Sapienza che nonostante la cancellazione dell’evento su tutti i social e il veto di entrambi i distributori e non solo, ha fatto sedere oltre duemila persone sul proprio pratone, tutti insieme a guardare lo stesso film.

Netflix uccide i cinema o li alimenta provocandoli e stimolandoli sul proprio ruolo e la propria funzione?

Se è vero che ogni anno le sale italiane devono fare salti mortali per conservare o incrementare i propri spettatori, i siti di intrattenimento invece crescono in modo esponenziale. Secondo il co-fondatore di Netflix, Reed Hastings, gli abbonati italiani alla piattaforma avrebbe raggiunto quota 2 milioni in appena una manciata di anni. Bisognerebbe pensare a questo blocco di utenti-cittadini come a uno sciame liquido e migratorio, in grado di spostarsi da un ambito all’altro senza alcuna rigidità. Dopotutto ciò che rimane è il bisogno di storie. Quindi se Netflix è il nemico ed è impossibile sconfiggerlo (ammesso che lo si voglia), tanto vale farselo amico e sfruttare il suo pubblico e la sua spinta. Oltre la sua vocazione antica, oggi la sala continua a funzionare in modo costruttivo solo quando diventa un luogo simbolico che ci contiene e determina come una comunità, qualcosa di cui è importante far parte, proprio come è successo in questo caso. Non so se dopo tale vicenda la centralità della sala si sia indebolita, rimane però il fatto che quando vedere un film esprime un atto civile, una volontà d’opinione o in altre parole un’urgenza, allora rimanere a casa a guardarlo o uscire per andare al cinema diventa una scelta non da poco.

Questo eterno trasformarsi delle sale cinematografiche, il loro aprire e chiudersi come fossero un mantice, è sintomatico del proprio modo di esistere: quando sembra che uno di questi cinema si stia spegnendo, in realtà ci accorgiamo che sta solo riprendendo fiato, magari, in un supermercato, nel silenzio di una chiesa o sul prato di un’università. E se questi saranno i nuovi cinema, bisognerà aspettare il momento in cui si fermano per riuscire a mapparli e riprendere a raccontare Roma.

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