ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 189/2023

14 Marzo 2023

Che cosa è il merito?

Marco Santambrogio parte dalla considerazione che il programma meritocratico è definito — anche da John Rawls — come la somma dei due principi delle carriere aperte ai talenti e dell’uguaglianza delle opportunità, che non riguardano la virtù, i.e. il merito morale. Santambrogio sostiene che questo fa cadere le obiezioni basate sulla difficoltà di definire e valutare la virtù e che, lungi dall’incoraggiare la competizione, il programma risponde agli obiettivi del socialismo riformista.

La recente discussione sul merito e la meritocrazia sarebbe stata meno confusa se tutti i partecipanti si fossero preoccupati di chiarire che cosa intendono con quei due termini. Non sarà quindi inutile qualche precisazione su come li intendono alcuni filosofi che si sono occupati della questione come Friederik Hayek, John Rawls, Michael Sandel, e poi anche Michael Young, la Costituzione italiana e i laburisti britannici. 

Anche se differiscono sotto molti aspetti, Hayek, Rawls e Sandel sono d’accordo su un punto: l’unico tipo di merito che considerano, per negargli ogni rilievo per la giustizia sociale, è quello morale. Lo dicono esplicitamente. Per Hayek il merito consiste in “the attributes of conduct that make it deserving of praise, that is, the moral character of the action and not the value of the achievement”. Rawls: “None of the precepts of justice [of this theory] aims at rewarding virtue.… The distributive shares that result do not correlate with moral worth, since the initial endowment of natural assets and the contingencies of their growth and nurture in early life are arbitrary from a moral point of view.” Quanto a Sandel, deservingness e moral desert risultano sinonimi persino nell’indice analitico di The Tiranny of Merit.

I loro argomenti per rifiutare il merito come criterio di giustizia sono diversi. Quelli di Rawls coinvolgono ardue questioni teologiche come la libertà individuale e la controversia tra Agostino (e Lutero) e Pelagio sul merito e la grazia. Per Hayek il merito non si può accertare oggettivamente. Sandel sostiene che retribuire il merito genera arroganza e umiliazione. Probabilmente hanno tutti ragione. Il concetto di merito morale è quanto meno oscuro. David Hume li aveva del resto anticipati: “So great is the uncertainty of merit, both from its natural obscurity, and from the self-conceit of each individual, that no determinate rule of conduct would ever result from it; and the total dissolution of society must be the immediate consequence.”

Significa questo che il programma meritocratico è condannato in partenza? No, perché quello morale non è l’unico merito concepibile. Aristotele attribuiva alla giustizia distributiva il compito di assegnare ricchezza e onori secondo il merito, ma non si aspettava — credo — che la carica di navarca andasse al cittadino più virtuoso. Nel suo famoso pamphlet, Young definisce il merito come intelligenza più sforzo. Lo sforzo potrebbe aver qualcosa a che fare con la morale, ma l’intelligenza certo no. La Costituzione italiana (che è del 1948 — poco dopo che il partito laburista britannico aveva attuato il suo programma meritocratico ante litteram) è meritocratica ma non parla di meriti morali. L’articolo 97 stabilisce che si acceda agli impieghi nella pubblica amministrazione mediante concorso e la Corte Costituzionale ha chiarito che i concorsi servono ad accertare i meriti dei candidati, ma non quelli morali. Tra i titoli per meritare un posto di professore non compaiono i certificati di buona condotta e i pareri del parroco. Del resto, come non ci affidiamo alla benevolenza del birraio, del macellaio e del fornaio per la nostra cena, così non ci affidiamo ai loro meriti morali. Vogliamo però che meritino la nostra fiducia e che non ci avvelenino per incompetenza, trascuratezza o altro. Si possono meritare voti, ricompense, riparazioni, punizioni, lodi e biasimo, premi, vittorie e sconfitte, aiuti, solidarietà, compassione e molte altre cose ancora. In un articolo famoso Joel Feinberg ha mostrato che esistono molti meriti oltre a quelli morali. 

Che cosa si merita in una società meritocratica? E’ deprecabile che molti che parlano di meritocrazia, per sostenerla o avversarla, non si preoccupino di definire che cosa intendono esattamente. Naturalmente un grande filosofo come Rawls non è tra questi. Ecco come caratterizza la società meritocratica, che giudica “spietata”: “this form of social order follows the principle of careers open to talents and uses equality of opportunity as a way of releasing men’s energies in the pursuit of economic prosperity and political dominion.” 

Le carriere aperte ai talenti erano state la bandiera del liberalismo classico. Alla fine della seconda guerra mondiale i laburisti e tutti i socialisti riformisti, resisi conto che le differenze non meritate di potere economico riuscivano a vanificare quel principio, fanno appello all’uguaglianza di opportunità per stabilire che le posizioni devono essere aperte non solo in senso formale, ma tutti devono avere la stessa possibilità di ottenerle. A questi due principi la società meritocratica di Young aggiunge la distribuzione di tutte le posizioni sociali sulla base di test di intelligenza. Secondo Rawls, quella società è spietata perché i più fortunati si rifiutano di rinunciare a parte di quello che hanno a favore dei meno fortunati perché — dicono — quello che hanno se lo sono meritato moralmente. Quei due principi però sono mantenuti e incorporati nel secondo principio di giustizia dello stesso Rawls. Anche Young, che aveva stilato il manifesto dei laburisti nel 1944, nel suo pamphlet del 1958 si guarda bene dal rifiutarli: mostra solo che l’eleven plus e i test di intelligenza generalizzati portano a una società orribile. A mio modo di vedere, è questo il modo corretto di leggere Young. (Personalmente sottoscrivo tutto del suo pamphlet e sostengo al tempo stesso il programma meritocratico del socialismo riformista.) 

I due principi — senza il merito morale — definiscono la meritocrazia. Non riguardano la distribuzione della ricchezza, bensì la distribuzione delle posizioni sociali. Dove interviene il merito (non morale)? Aprire le carriere ai talenti è come dire che le posizioni vanno assegnate a chi le merita. Il motto di Napoleone, “Ogni soldato francese porta nel suo zaino il bastone di maresciallo”, che esprimeva bene il principio, non vuol dire che la posizione spetta al soldato più virtuoso bensì a quello che svolgerà meglio le funzioni di maresciallo. Lo stesso vale per ogni altra posizione: per meritarla bisogna essere, tra i candidati, quello che risponde meglio ai suoi specifici requisiti. 

 “Come definire il merito?” e “Chi definisce il merito?” si chiede Elena Granaglia sul Menabò n.174/2022. Una volta chiarito che non si tratta del merito morale, è ovvio che non c’è un’unica risposta alla prima domanda. Ogni posizione ha i propri requisiti. Le abilità cognitive servono (si spera) per un posto di professore; un presentatore televisivo avrà bisogno di social skills; un posto in una squadra di pallavolo richiede altre abilità. Chi lo stabilisce? Chi bandisce il posto, direi. Ma qui bisogna fare attenzione: se il ministero stabilisse che il posto di professore è riservato a chi ha prestato giuramento di fedeltà al partito di governo, potremmo giudicare iniqua quella qualifica solo semeritare non è lo stesso che avere titolo — cioè se il merito non è definito solo dalle condizioni del bando, cioè se il merito è pre-istituzionale. Inoltre il vincitore del concorso può dire di meritare il posto solo se i due principi delle carriere aperte ai talenti e delle pari opportunità sono soddisfatti. I posti riservati nei concorsi universitari li violano entrambi.

Si osservi: non è il mercato che definisce il merito. Sono ineccepibili gli argomenti di Hayek e Rawls che escludono che il mercato abbia qualcosa a che vedere col merito, morale o d’altro tipo. Del resto, chi mai vorrebbe sostituire i commissari dei concorsi universitari, i commissari tecnici delle squadre di calcio, i magistrati e tutti coloro che devono giudicare meriti e demeriti con indagini di mercato e votazioni online? 

 “Come misurare il merito?” si chiede ancora Elena Granaglia. Non credo che esistano ricette né algoritmi. Ho fatto parte di commissioni di concorso per posti di professore e so quanto possa essere difficile. Nepotismo e favoritismi semplificano la vita dei commissari — non quella dei candidati. Ma supponiamo — con un enorme sforzo di immaginazione — che le carriere siano aperte ai talenti e le opportunità siano finalmente uguali per tutti. Sarà il reddito di ciascuno una misura attendibile dei suoi talenti e meriti? E’ il problema cardinale del merito (nella terminologia di Andrea Boitani e Maurizio Franzini, Menabò n. 175/2022). La risposta è decisamente negativa per molte ragioni. Primo: il reddito associato a una posizione è stabilito — spesso, non sempre — dal mercato che, per gli argomenti di Hayek e Rawls, non ha competenze sul merito. In secondo luogo, i meriti sono molti e molto diversi e le retribuzioni non li rendono confrontabili. Ma soprattutto il merito non è transitivo: è possibile che (1) B sia una conseguenza (persino necessaria) di A, (2) A sia meritato, e tuttavia (3) B non sia meritato. Ad esempio, le squadre di soccorso in alta montagna corrono gravi rischi in caso di maltempo. Qualcuno che ha meritato di entrare in una squadra non merita perciò stesso di avere le dita congelate. Analogamente, qualcuno che ha meritato il posto di CEO di una multinazionale può non meritare lo stipendio milionario associato.

Quanto alle ragioni per premiare il merito, Elena ha ragione: l’efficienza è meno importante della giustizia, per i difensori della meritocrazia. Non è solo più efficiente, è giusto che ottengano i posti disponibili i più bravi tra i professori, i medici, i presentatori televisivi, i pallavolisti ecc. — soprattutto quando i posti sono scarsi. 

Pasquale Terracciano (Menabò n. 179/2022) pensa che sia paradossale che la “drastica diminuzione delle ricompense [vada] a erodere direttamente una parte decisiva della stessa definizione di merito: la legittima aspettativa di ottenere qualcosa.” Non vedo perché. Non fa parte della nozione di merito, in nessun senso, che tutti ottengano qualcosa. I finanziamenti a pioggia, che danno qualcosa a tutti, sono l’esempio più ovvio di qualcosa che non è meritato. Questo però solleva un problema più grave e più generale. 

Si dice spesso che la meritocrazia incoraggia e anzi esaspera la competizione. Non c’è niente di più sbagliato ed è proprio questo equivoco che induce l’avversione per la meritocrazia come se fosse un’ideologia di destra, mentre è il glorioso programma del socialismo riformista. Si ha competizione ogni volta che va distribuito un bene scarso — per definizione di “bene scarso”. I principi meritocratici intervengono non a creare, ma a risolvere la competizione in modo equo. Anzi, a risolverla nel modo meno doloroso: ci dispiace che in un concorso ci passi davanti un candidato più bravo di noi, ma molto di più ci spiacerebbe che vincesse chi non ha titoli ed è solo favorito da qualche commissario. 

Non posso nemmeno accennare a tutti i problemi — e fraintendimenti — che riguardano il merito. Mi limito a osservare che la Costituzione italiana è meritocratica non solo per l’articolo 97. L’articolo 34, dopo aver affermato “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, prosegue così: “La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.” Che cosa vuol dire “rendere effettivo” un diritto? In altre parole, perché lo stato deve dare agli studenti borse di studio e altro? Non per compassione verso i poveri e gli infelici ma per la stessa ragione per cui si è creato un servizio sanitario nazionale e più in generale il welfare state: perché è giusto azzerare i vantaggi non meritati della ricchezza e dare a tutti le stesse opportunità. Questa concezione dell’uguaglianza come uguaglianza delle opportunità è al cuore del progetto meritocratico e non è un pis aller(diversamente da quanto sostiene Michael Sandel). Poiché non esiste altra giustificazione per il welfare state che il progetto meritocratico, i nemici della meritocrazia farebbero bene a dire chiaramente che non vogliono le borse di studio per gli studenti privi di mezzi e preferiscono che ciascuno paghi di tasca propria le cure mediche. 

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