ALL'INTERNO DEL

Menabò n.174/2022

14 Giugno 2022

Che impatto macroeconomico può avere il PNRR nel Mezzogiorno?

Michele Capriati, Matteo Deleidi e Gianfranco Viesti mostrano che i moltiplicatori degli investimenti pubblici sono minori al Sud rispetto al Centro-nord, perché parte dello stimolo fiscale si disperde in importazioni da altre regioni. Per questo motivo gli autori sostengono che l’obiettivo di ridurre i divari territoriali destinando al Mezzogiorno almeno il 40% delle risorse del PNRR potrebbe essere mancato e suggeriscono di accrescere tale quota e di potenziare la capacità di offerta del Mezzogiorno con politiche industriali.

In questa nota si sostiene che, dati i minori moltiplicatori degli investimenti pubblici al Sud (rispetto al Centro-nord), a causa delle sua strutturale, maggiore, propensione ad importare beni e servizi dal resto del paese, destinare il 40% del totale del PNRR al Mezzogiorno potrebbe non essere sufficiente per iniziare a ridurre i divari di sviluppo; ma che, più che sull’ammontare totale delle risorse, sia necessario interrogarsi sull’effettivo sforzo che con il PNRR si fa per potenziare l’apparato produttivo del Sud, proprio per ridurre la propensione ad importare. Tale sforzo appare però decisamente modesto.

Per ragionare sugli effetti che il PNRR potrà avere sul Mezzogiorno, è utile chiedersi quale potrebbe essere l’impatto di un incremento di investimenti pubblici sulla sua economia e quindi cercare di stimare il relativo moltiplicatore. Questo è quanto ha fatto recentemente uno degli autori di questa nota, impiegando modelli strutturali (Panel SVAR) e utilizzando i dati regionali Istat per il periodo 1995-2017.

In particolare, si sono stimati i moltiplicatori fiscali cumulati, che rappresentano la risposta del PIL ad un incremento di un euro della spesa pubblica totale e, separatamente, di quella per consumi finali e per investimenti. Le stime per Centro-nord e Sud sono riportate nella Tabella 1 (In grassetto sono indicati i moltiplicatori significativi, con bande di confidenza del 95%. Il moltiplicatore d’impatto è al primo anno; 10A è il moltiplicatore all’anno 10; il Picco rappresenta il moltiplicatore massimo; Medio è la stima del moltiplicatore medio nel periodo).

I principali risultati ottenuti mostrano che: (i) gli aumenti della spesa pubblica conducono ad effetti positivi sul PIL, anche a distanza di 10 anni dallo stimolo fiscale, confermando così la presenza di un’elevata persistenza dello stimolo fiscale; (ii) in linea con la maggior parte della letteratura che stima i moltiplicatori fiscali, gli investimenti pubblici hanno un impatto sul PIL maggiore rispetto ai consumi pubblici; questo accade sia nel Centro-nord che nel Sud ; (iii) tutti i moltiplicatori sono maggiori nelle regioni del Centro-nord rispetto a quelle meridionali.

Questi risultati appaiono in netto contrasto con quanto previsto dalla teoria marginalista secondo cui i moltiplicatori dovrebbero risultare maggiori al Sud, in quanto le sue regioni sperimenterebbero una produttività marginale del capitale più alta a causa del minore stock di capitale. Ne conseguirebbe che ogni euro aggiuntivo di spesa pubblica in investimenti, dovrebbe generare un effetto maggiore sul PIL e quindi un moltiplicatore più elevato al Sud.

Una spiegazione alternativa, a nostro avviso ormai ben consolidata, e conforme con i risultati riportati nella Tabella 1, fa riferimento al fatto che parte della spesa pubblica realizzata nelle regioni del Sud è destinata all’acquisto di beni e servizi dal Centro-nord, area caratterizzata da un settore produttivo più ampio e sviluppato, o dall’estero. In sostanza, i moltiplicatori fiscali sono minori nel Sud in quanto le regioni meridionali disperdono una parte maggiore dello stimolo importando beni e servizi.

Tabella 1: Moltiplicatori Fiscali Cumulati

Se è possibile misurare, pur con non poche cautele, le importazioni dall’estero (i dati di import regionali non sempre rispecchiano la regione di effettivo utilizzo), è più difficile – per evidenti motivi – misurare l’import dal Centro-nord. Nell’assenza di dati ufficiali, sono tuttavia da tempo disponibili stime (realizzate da Svimez, Irpet, Prometeia, tra gli altri) degli scambi interregionali ottenute regionalizzando la matrice input/output nazionale e ottenendo per questa via una versione del conto delle risorse e degli impieghi che include informazioni su esportazioni e importazioni sia internazionali che interregionali.

In particolare, in un importante rapporto realizzato da Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (SRM) e Prometeia nel 2014 veniva stimato che per 100 euro di investimenti fissi realizzati al Sud, solo 54 venivano soddisfatti dalla produzione interna, mentre 38 attivavano produzione del Centro-nord (il resto dall’estero). Al contrario, al Centro-nord 100 euro di investimenti venivano soddisfatti da 87 euro di produzione interna, e solo per il 4% attivavano import del Sud (il resto dall’estero).

Quest’ultimo dato mostra chiaramente come la diffusa ipotesi “della locomotiva” appare priva di riscontri. Un forte sviluppo delle regioni maggiormente sviluppate del paese non “traina” spontaneamente quello delle regioni più deboli, e quindi lo sviluppo economico non “percola” (trickle-down) geograficamente dai luoghi più sviluppati a quelli meno sviluppati, appare priva di riscontri: proprio perché le aree più forti sono anche più in grado di soddisfare la propria domanda e attivano minori importazioni interregionali. Le regioni che si avvantaggiano in misura maggiore della domanda meridionale sono Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto.

Queste semplici evidenze stimolano qualche riflessione in termini di impatto regionale del PNRR, alla luce di un possibile moltiplicatore medio degli investimenti pubblici significativamente più alto per le regioni del Centro-nord.

Il Piano destina, in teoria, il 40% delle sue risorse al Mezzogiorno, ma non è garantito che tale quota verrà effettivamente raggiunta come emerge anche dal primo Monitoraggio realizzato dal Dipartimento per le politiche di coesione della Presidenza del Consiglio.

Immaginando che tale quota sia rispettata, nel testo ufficiale del PNRR si sostiene che “lungo tutta la durata del Piano, il Mezzogiorno contribuisce a circa un terzo dei 15 punti percentuali di PIL nazionale aggiuntivo. Poiché la quota del Mezzogiorno nel 2019 era pari al 22 per cento del PIL nazionale, questo indica che il Piano ridurrà sensibilmente il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. Infatti, la quota del Mezzogiorno sul PIL nazionale salirebbe al 23,4 per cento nel 2026”, ricordando che tale dato si riferisce solo all’ “impatto immediato” del Piano, ovvero “agli effetti che si verificheranno durante il periodo di attuazione….attraverso l’impulso all’accumulazione di capitale nel settore privato, continueranno a sospingere la crescita del PIL del Mezzogiorno anche su un arco di tempo più lungo”.

Tuttavia, recenti previsioni della Svimez (“Le previsioni Centro-nord e Mezzogiorno e l’impatto del PNRR”, autunno 2021), precedenti, però, i rivolgimenti dello scenario internazionale, costruite sull’ipotesi che nel 2023-24 vengano realizzati circa 90 miliardi di investimenti, mostrano che il loro impatto è certamente più forte al Sud: ad essi sarebbe riconducibile quasi il 60% della crescita cumulata, il dato corrispondente nel  del Centro-nord è il 45%. Nota la Svimez che gli investimenti pubblici nel Sud “non hanno la forza di sostituirsi completamente a consumi ed export nel sostenere la congiuntura”, per cui malgrado il PNRR “l’area cresce un po’ meno rispetto al resto del Paese”.

Un cospicuo flusso di investimenti pubblici, specie in confronto con il forte calo registrato per tutti gli anni Dieci, quindi porterà certamente beneficio al Sud, ma potrebbe non essere in grado di impedire un ulteriore, seppur lieve, ampliamento dello scarto con il resto del paese.

A riguardo si potrebbe riflettere sulla circostanza che, per contribuire a ridurre i divari, il PNRR avrebbe dovuto destinare al Mezzogiorno una quota significativamente superiore al 40%. Ma tale riflessione appare di relativa importanza, sia perché il PNRR è ormai definito, sia perché la mole di spesa prevista entro il 2026 creerà comunque problemi di “assorbimento”, dovuti alla limitata capacità di concreta realizzazione.

Invece, la riflessione che pare più opportuna è che il Piano dovrebbe contribuire a ridurre la dispersione dell’impatto della spesa al Sud, rafforzando la sua autonoma capacità di produzione di beni e servizi. Tale effetto pare però dubbio.

Le componenti del Piano maggiormente orientate ad interventi definibili di “politica industriale” sono infatti particolarmente centrate sull’erogazione di crediti di imposta destinati alla trasformazione digitale (Transizione 4.0). Per propria natura, come già avvenuto per gli interventi di Impresa 4.0 e come sottolineato anche nella relazione DipCoe, questa misura (per la quale non vale il criterio del 40%) tende a rafforzare la localizzazione delle attività produttive laddove esse sono già maggiormente presenti (in particolare in Lombardia, Veneto, Emilia).

In questo quadro almeno le altre misure di “politica industriale” del PNRR, volte alla creazione di nuova capacità produttiva, dovrebbero essere destinate prioritariamente al Sud. Al contrario, il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) si è limitato ad applicare il criterio del 40% ad ogni intervento. Nemmeno la necessità di potenziare fortemente la produzione di energie rinnovabili (per motivi climatici, prevalentemente al Sud) ha spinto il Governo ad immaginare un piano di strutturale potenziamento di tecnologie, apparati e servizi per le rinnovabili nel Mezzogiorno. Il DipCoe stima che solo 1/5 del totale delle misure del PNRR di competenza del MISE potrebbe complessivamente essere allocata al Sud.

Ma senza uno strutturale potenziamento della sua capacità di offerta, tutti gli sforzi di policy (anche quelli di notevole dimensione come nel caso del PNRR) rischiano di avere un impatto relativamente modesto sul PIL del Mezzogiorno.

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