ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 181/2022

27 Ottobre 2022

Costi di licenziamento, regolamentazione dei contratti temporanei e domanda di lavoro qualificato e non qualificato (*)

Anna Bottasso, Massimiliano Bratti Gabriele Cardullo, Maurizio Conti e Giovanni Sulis esaminano gli effetti della Riforma Fornero del 2012 che ha ridotto i costi di licenziamento per i lavoratori a tempo indeterminato e reso più costoso l’utilizzo di quelli a termine. Gli autori trovano che la riforma ha avuto un impatto negativo sui lavoratori poco qualificati (meno assunzioni a termine e più licenziamenti tra i titolari di contratto a tempo indeterminato) mentre non emergono effetti positivi sulle assunzioni a tempo indeterminato.

Tra il 2013 e il 2019, tra i Paesi OCSE, 12 hanno cambiato le norme relative ai licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato, mentre 19 hanno introdotto riforme relative ai contratti a termine (OCSE, Employment Outlook, 2020); negli ultimi due decenni in Paesi come Italia, Francia e Spagna si è registrata la crescita ed il rafforzamento di mercati del lavoro “duali”, caratterizzati da un marcato incremento nel numero di contratti a tempo determinato. Secondo alcun contributi, la contemporanea presenza di un segmento del mercato del lavoro protetto e di uno non protetto incentiverebbe le imprese ad assumere sempre di più lavoratori con contratti a termine (P. Cahuc, O.Charlot e F. Malherbet, “Explaining the spread of temporary jobs and its impact on labor turnover”, International Economic Review, 2016; P. Cahuc, F. Malherbet, H. Benghalem e E. Limon, “Taxation of temporary jobs: Good intentions with bad outcomes?”, Economic Journal, 2020). Ad esempio, nel caso italiano, in un importante lavoro, A. Hijzen, L. Mondauto e S. Scarpetta (“The impact of employment protection on temporary employment: evidence from a regression discontinuity design”, Labour Economics, 2017) hanno mostrato come prima delle recenti riforme del mercato del lavoro le imprese immediatamente sopra i 15 dipendenti facessero un uso sistematicamente maggiore di lavoratori con contratto a tempo determinato rispetto a quelle immediatamente sotto tale soglia, al fine di controbilanciare l’incremento nei costi di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato previsto dall’ art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

In un nostro recente lavoro analizziamo gli effetti della Riforma Fornero del mercato del lavoro. Nel 2012, tale riforma cercò di affrontare il problema del dualismo del mercato del lavoro italiano prevedendo che sopra i 15 dipendenti, a fronte di un licenziamento per ingiustificato motivo, la reintegra potesse essere ottenuta dal lavoratore solo in casi particolari e ben definiti. La discrezionalità del giudice e quindi anche l’incertezza per le imprese (e i relativi costi attesi) associate alla procedura di licenziamento vennero pertanto ridotte. Inoltre, la riforma diminuì anche l’ammontare della compensazione monetaria in caso di licenziamento ingiustificato. Poiché la legislazione relativa alle imprese sotto i 15 dipendenti rimase inalterata, i costi di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato scesero unicamente per le imprese sopra soglia. Inoltre, la stessa legge cambiò le norme sui contratti a termine, indipendentemente dalla dimensione di impresa. I cambiamenti riguardarono, tra l’altro, l’aumento dei contributi sociali pagati dall’impresa sui lavoratori a tempo determinato e l’incremento della durata dell’intervallo tra diversi contratti temporanei: queste innovazioni potevano scoraggiare l’impiego di contratti a termine, sebbene altre previsioni normative della Legge Fornero potessero andare nella direzione opposta, rendendo potenzialmente ambiguo l’effetto sulla convenienza di tali contratti. Il fatto che le imprese con più di 15 dipendenti tendessero ad utilizzare in modo più accentuato lavoratori con contratto a tempo determinato rendeva queste ultime maggiormente esposte agli effetti sia della riduzione nei costi di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato sia delle norme più restrittive relative all’utilizzo di lavoratori a termine, con effetti pertanto ambigui sulla domanda di lavoro.

Utilizzando una serie di dataset messi a disposizione dal programma VISITINPS abbiamo analizzato l’impatto della riforma sui flussi di lavoratori (assunzioni, separazioni, licenziamenti), distinguendo per tipo di contratto (tempo determinato vs indeterminato) e per livello di istruzione (o qualifica) dei lavoratori, un aspetto quest’ultimo trascurato dalla letteratura economica. 

L’impatto della riforma è stato stimato con la metodologia del Difference-in-Differences (DID). L’esistenza di una differenza tra l’andamento nella variabile di interesse (la domanda di lavoro) prima e dopo l’approvazione della Riforma Fornero tra un gruppo soggetto alla riforma ed un gruppo di controllo non soggetto alla stessa identifica l’eventuale effetto della riforma. Le imprese sopra la soglia di 15 dipendenti hanno costituito il “gruppo di trattamento” e quelle sotto i 15 il “gruppo di controllo”. In particolare, abbiamo considerato un panel bilanciato di imprese (osservate nel periodo 2010-2014) e misurato la dimensione aziendale all’inizio del periodo (2010) in modo da renderla predeterminata (cioè non influenzata dalla riforma stessa). L’analisi è stata condotta sul campione di imprese che, nel 2010, avevano un numero di dipendenti compreso tra 10 e 20, al fine di rendere il gruppo di trattamento e di controllo il più simili possibile, ma anche per ovviare a quella parte della riforma che aveva modificato alcune regole relative all’impiego di apprendisti per le imprese sotto i 10 dipendenti. 

Figura 1. Effetti della Riforma Fornero su assunzioni e separazioni di lavoratori per livello di istruzione

Nota. La figura mostra gli effetti stimati da un event-study Difference-in-Differences. L’anno di riferimento è il 2011 (l’anno prima dell’implementazione delle Riforma Fornero).

Limitando la discussione ai risultati più robusti tra le diverse specificazioni da noi stimate, emerge un aumento statisticamente significativo nelle separazioni (volontarie o dovute a licenziamento) dei lavoratori a tempo indeterminato, largamente trainate dai licenziamenti, così come previsto dalla teoria economica standard che prevede un aumento dei licenziamenti a fronte di un minor costo di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato In particolare, le imprese sopra la soglia sembrano aver incrementato unicamente i licenziamenti di lavoratori a tempo indeterminato con basse qualifiche, che probabilmente erano in quegli anni in eccesso rispetto ad un livello giudicato ottimale: i licenziamenti sono aumentati in media dell’11% rispetto al dato medio pre-riforma che caratterizzava il gruppo di trattamento. Invece, le nostre stime suggeriscono una riduzione di circa il 10% nelle assunzioni di lavoratori con basse qualifiche, di fatto integralmente riconducibile ad una riduzione nelle assunzioni con contratti a termine, ed un effetto pari a zero per le altre categorie. La Figura 1 mostra la validità dell’ipotesi cruciale per l’applicazione del metodo DID: le stime prima della riforma sono allineate sullo zero, come si dovrebbe osservare in presenza di un “parallel trend”, mentre quelle post-riforma mostrano effetti negativi sulle assunzioni di lavoratori con bassa istruzione, soprattutto se temporanei. I licenziamenti sono aumentati per i lavoratori permanenti meno istruiti soprattutto nel 2014.

Abbiamo infine esplorato la possibilità che i risultati potessero essere eterogenei rispetto alla potenziale intensità del trattamento, in particolare al livello di impiego di contratti temporanei pre-riforma, e all’efficienza dei tribunali nelle varie aree del Paese. In particolare, l’analisi ha mostrato come la riduzione nelle assunzioni di lavoratori a termine con basse qualifiche abbia riguardato prevalentemente le imprese sopra i 15 dipendenti che, prima della riforma, impiegavano più lavoratori con tale tipo di contratti, ed erano quindi più esposte alla parte della riforma che aveva accresciuto i costi ed i vincoli all’utilizzo di contratti a termine. Inoltre, i risultati suggeriscono che l’aumento dei licenziamenti sia stato più marcato nelle aree del Paese con tribunali inefficienti (e quindi da costi attesi dei licenziamenti maggiori) e che, in quelle stesse aree, la riduzione nelle assunzioni di lavoratori a termine con basse qualifiche sia stata decisamente più marcata. 

Complessivamente, la modifica dell’art. 18 sembra aver avuto un effetto asimmetrico, non essendo stata in grado di accrescere, almeno nel breve periodo, le assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato, ma avendo invece consentito alle imprese di accrescere i licenziamenti di lavoratori potenzialmente meno produttivi (ovvero con bassa istruzione). Per contro, la riduzione nelle assunzioni di lavoratori a termine con basse qualifiche sembra essere attribuibile ai maggiori vincoli imposti all’utilizzo di tali lavoratori. Analizzati congiuntamente, i nostri risultati sembrano pertanto suggerire che la riduzione della protezione reale in caso di licenziamento sui contratti a tempo indeterminato non sia stata tale da compensare l’effetto negativo dell’aumento dei costi nell’utilizzo dei contratti a termine introdotto dalla riforma, riducendo di fatto i margini di flessibilità nelle assunzioni a disposizione delle imprese. 


(*) L’articolo è pubblicato in contemporanea su lavoce.info (www.lavoce.info)

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