ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 193/2023

14 Maggio 2023

Fabrizio Patriarca, Veronica Verzulli,

Costruire la civiltà del lavoro: il diritto soggettivo alla formazione

Fabrizio Patriarca e Veronica Verzulli affrontano il tema del diritto soggettivo alla formazione lungo tutto l’arco della vita lavorativa toccando molte questioni, inclusa quella relativa alla scelta tra formazione specifica e generica. Patriarca e Verzulli spiegano perché una riforma che vada nel senso di affermare il diritto soggettivo alla formazione può contribuire a risolvere i problemi di fondo del mercato del lavoro e indicano come calarla nel contesto del sistema italiano.

Questa rivista ha ospitato numerosi e puntuali approfondimenti sulle tendenze problematiche del mercato del lavoro in Italia e non solo, incluse le tendenze al ribasso dei salari reali, la precarizzazione dei percorsi lavorativi, l’aumento consistente del lavoro povero. Bisogna riconoscere alla politica, non solo a sinistra, di aver guardato a questi problemi con crescente attenzione. Si pensi ad esempio al gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa promosso ai tempi del Governo Draghi. Ciò che però sembra accomunare le soluzioni principali in discussione è un approccio prevalentemente “riparatorio” al problema. Ridurre le componenti tributarie del costo lavoro, imporre minimi salariali, ricondurre alla subordinazione stabile le nuove forme di lavoro atipico e autonomo, affiancare pilastri assistenziali integrativi delle politiche previdenziali, sono tutte politiche che tentano di risolvere a valle un problema che sta a monte, in breve, la perdita di potere contrattuale del lavoro. Non si vuole qui discutere l’efficacia di tali strumenti, o i possibili effetti indiretti che tali le politiche possono generare. Si vuole invece contribuire al dibattito in una direzione proattiva. 

Buona parte della letteratura economica sul progresso tecnologico degli ultimi 30 anni converge nel riconoscere nel capitale umano, cioè nell’insieme di competenze, abilità e capacità, un fattore determinante attraverso cui un lavoratore può collocarsi sul lato vincente dei processi di trasformazione in atto (si vedano ad esempio i lavori da Reich a Author). “Portare il lavoro a divenire sempre più conoscenza” era anche la sfida assegnata al movimento operaio da colui che in Italia ne è stato probabilmente l’intellettuale più importante dopo Gramsci, Bruno Trentin. Fare i conti con questo tema significa quindi riconoscere all’apprendimento continuo il ruolo fondamentale nelle politiche per il lavoro. 

In coerenza col dettame Costituzionale secondo cui il lavoro, inteso come attività con cui il cittadino concorre al progresso della società, vada svolto “secondo le proprie possibilità e la propria scelta” occorre concentrarsi su come rendere effettivo il diritto del lavoratore alla formazione continua, inteso come diritto soggettivo. 

Da questo punto di vista, se si guarda alla realtà del mercato del lavoro italiano, il quadro risulta particolarmente problematico. Le problematicità possono essere sostanzialmente ricondotte a due questioni di base: una concezione tipicamente di protezione sociale delle politiche in materia, e la sostanziale caratterizzazione contrattuale e non soggettiva del diritto.

La prima caratteristica, che coincide con l’utilizzo della formazione politica come strumento di contrasto alla disoccupazione o di sostegno ai processi di riconversione industriale, è facilmente riscontrabile se si guarda alla platea dei beneficiari dei fondi pubblici per la formazione continua: soggetti disoccupati in cerca di occupazione, percettori di indennità di mobilità o di cassa integrazione. Basti pensare, da ultimo, allo sforzo di coinvolgere gli “occupabili” nei percorsi formativi tra le disposizioni più dibattute del recentissimo Decreto Lavoro. Anche nell’approccio del GOL, il piano per le politiche attive del lavoro legato al PNRR, sebbene gli interventi copiosi e ben finanziati si estendano anche a lavoratori non ricompresi in queste categorie, permane questa stessa concezione di fondo in quanto i nuovi soggetti inclusi sono coloro che, seppur occupati, sono a rischio di ricadere nelle condizioni precedenti. 

Quest’approccio neutralizza ogni effetto strutturale degli interventi in quanto non risolve il problema della creazione di una cultura della formazione continua che pervada il lavoro favorendo un cambiamento dell’approccio di lavoratori e imprese alla formazione, modificando tempi e metodi di organizzazione dei processi produttivi in coerenza con una necessità continua di potenziare, rinnovare e valorizzare competenze, capacità e abilità dei lavoratori. Allo stesso tempo, il concentrarsi del grosso delle risorse sui soggetti vulnerabili nel mercato del lavoro ha favorito una eccessiva proceduralizzazione degli interventi. Infatti, anche con le ingenti risorse del GOL, il ruolo dell’attivazione degli interventi formativi avviene attraverso la previa presa in carico da parte di quello che dovrebbe essere, come definito nel Jobs Act, il quasi mercato della rete dei servizi pubblici dell’impiego che, salvo eccezioni degne di nota, risulta piuttosto un sistema burocratico parastatale e polverizzato, in cui frequentemente la spesa è stata sbilanciata più a favore della creazione o della ristrutturazione dei soggetti eroganti che dei destinatari.

La seconda caratteristica, la contrattualizzazione del diritto, finisce per rendere la formazione continua uno strumento che guarda prima di tutto alle esigenze delle imprese. È infatti alle imprese che la contrattazione collettiva delega l’attivazione dei canali di finanziamento regolandone tempi e finalità sulla base dei propri interessi. Il principale ruolo dei lavoratori interviene indirettamente nell’esercizio del potere monopolistico nell’erogazione del servizio da parte degli enti bilaterali. Contesto di monopolio cui corrispondono necessariamente i noti problemi di efficienza di qualsivoglia potere di mercato. 

Questa configurazione incentrata sul ruolo dell’impresa porta con sé un problema di efficienza sul piano macro. Una delle questioni problematiche degli investimenti in capitale umano riguarda infatti la scelta tra formazione specifica e generica. I datori di lavoro tendono naturalmente a privilegiare gli investimenti in formazione specifica per due motivi: il primo è che la formazione specifica è quella che più aumenta la produttività del lavoratore nelle mansioni nelle quali è impiegato presso l’impresa, la seconda è che siccome la formazione ha un costo per l’impresa, perlomeno in termini di ore di prestazione di lavoro perdute, investire in formazione generica significa rendere più occupabile il lavoratore presso altre imprese e quindi realizzare un investimento i cui benefici potrebbero poi ricadere su altre imprese concorrenti. 

Tuttavia, in termini di esternalità complessive, ovvero di effetti sulla competitività sistemica di un paese, che è uno degli elementi che giustifica il ruolo pubblico nel finanziamento della formazione, l’investimento in capitale generico è molto più importante di quello in capitale specifico, sia in quanto meno sottoposto ai problemi di obsolescenza del ciclo produttivo o di variazioni delle condizioni di mercato cui si associa la specificità delle competenze, sia perché il capitale generico si presta meglio ad adattarsi a nuovi contesti specifici. Si tratta di due elementi decisivi per ciò che determina la competitività di un sistema sostenibile: la capacità di adattamento. Sul piano micro, invece, lo sbilanciamento verso la formazione specifica riduce gli effetti sull’occupabilità complessiva del lavoratore riducendo gli effetti sui due elementi chiave dell’emancipazione del lavoratore: libertà di scelta e potere contrattuale. 

Il permanere di queste caratteristiche della formazione continua italiana ha neutralizzato anche il tentativo della riforma Fornero che, sulla carta, ha sancito la natura individuale del diritto all’apprendimento permanente. Al contempo, le intenzioni dichiarate dai decisori pubblici e dalle parti sociali sembrano aver cambiato nuovamente la rotta per puntare verso un modello diverso, quello della formazione duale tedesca. Si tratta tuttavia di un modello non esportabile, perché basato su un sistema di relazioni industriali radicato nella storia istituzionale tedesca. 

Sarebbe meglio guardare sull’altra sponda del Reno, in Francia, dove ci si è mossi esattamente nella direzione di riempire di contenuto il diritto individuale all’apprendimento e, per dare al lavoratore “la liberté de choisir son avenir professionne”, si è creato il sistema dei CPF – Compte Personnel de Formation. Si tratta di conti su cui nell’arco della vita attiva sul mercato del lavoro il lavoratore accumula ore di “diritto alla formazione”. L’esperienza francese ha attirato l’attenzione anche delle istituzioni europee, che alla fine l’hanno promossa. Nella Raccomandazione 2022/C 243/03 il Consiglio UE ha invitato gli Stati membri a creare un conto individuale di apprendimento, ad integrazione delle misure nazionali già in vigore, a beneficio di tutti “gli adulti in età lavorativa […], indipendentemente dal loro livello d’istruzione e dalla loro attuale situazione lavorativa o condizione professionale”. Il Consiglio raccomanda di introdurre un congedo di formazione retribuito ovvero un reddito sostitutivo, considerando anche la possibilità di sostenere le imprese nei momenti in cui il lavoratore si assenta per formarsi. 

Alcuni hanno considerato, con riferimento al nostro paese, un passo nella stessa direzione il riconoscimento del diritto alla formazione professionale di 24 ore lungo un triennio presente nel CCNL dei metalmeccanici. Tuttavia, il diritto rimane subordinato all’attivazione dei corsi da parte dell’impresa e il lavoratore ha solo una possibilità residuale di decisione ma secondo modalità e orari definiti dalla contrattazione. 

Un modo semplice di evitare i limiti dell’approccio negoziale e adottare meccanismi simili a quelli proposti dal Consiglio nell’ordinamento italiano sarebbe di adottare la stessa logica utilizzata per il diritto allo studio e per i congedi formativi ex l. n. 53/2000. Non si tratterebbe affatto, quindi, di riconoscere un obbligo formativo in capo al datore di lavoro o il potere datoriale di disporre del diritto all’apprendimento del lavoratore, ma di imporre un “obbligo di concessione dei permessi” e quindi un “obbligo di sospensione del rapporto di lavoro” che già discende dal diritto allo studio dei lavoratori. In questo orizzonte, l’apprendimento permanente non sarebbe un diritto di fonte contrattuale, in cui inevitabilmente entrerebbero in gioco anche gli interessi dell’impresa, ma un diritto potestativo esigibile in modo unilaterale dal lavoratoreper il soddisfacimento del quale è richiesto un sacrificio al datore di lavoro, prevalentemente in termini di tempo lavorato, entro i limiti previsti dalla legge.

Si noti che mettere al centro della scelta il lavoratore non significa abbandonarlo alle proprie decisioni ma costruire un sistema in cui i formatori competano tra loro anche nell’orientamento del lavoratore e per convincerlo ad investire in meglio su sé stesso esattamente come oggi si compete sul mercato dei piccoli investimenti finanziari. Allo stesso tempo, questo non significherebbe neanche escludere anche un ruolo dell’impresa. Si potrebbe invece immaginare di costruire attraverso la contrattazione collettiva gli strumenti per dare all’impresa la possibilità di integrare le ore maturate con ulteriori ore oppure di organizzare percorsi formativi concordati con il lavoratore in modo da rendere compatibili gli obiettivi di entrambe le parti. 

Un tale meccanismo richiederebbe un reddito sostitutivo per le ore non lavorate. A tal fine si potrebbe usare lo stesso meccanismo che si sta già sperimentando con il Fondo Nuove Competenze. Per questa via si riuscirebbe a coprire anche tutto quel mondo del lavoro atipico e delle nuove forme di lavoro autonomo che oggi sono sostanzialmente escluse dagli strumenti di promozione per la formazione continua, rendendone così universale la portata soggettiva del diritto. Si tratterebbe di risorse pubbliche, in parte da riorientare e in parte nuove. Ma sarebbe un meccanismo molto meno proceduralizzato, forse anche una soluzione per spendere in fretta, prima di perderle, le risorse del PNNR. Il consistente sostegno pubblico sarebbe giustificato dagli effetti sistemici di un mercato del lavoro con più qualità dell’offerta e inoltre, e soprattutto, dal riconoscere il diritto all’apprendimento lungo l’arco della vita non solo come diritto sociale condizionato dallo status occupazionale, qualsiasi esso sia, ma come diritto di cittadinanza.

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