Da quando, nel lontano 1995, il sistema previdenziale italiano ha iniziato ad abbandonare, con estrema gradualità, lo schema retributivo – in cui la pensione era legata al numero di anni di attività e alle retribuzioni di fine carriera – per sostituirlo con quello contributivo – in cui la prestazione dipende dai contributi versati nell’intera carriera – i più giovani hanno iniziato a temere per il proprio futuro da pensionati e non è infrequente sentirli dire: “saremo costretti a passare una vecchiaia in povertà, perché le nostre pensioni saranno da fame”.
In questo “Contrappunto” intendo ragionare, da una parte, su quanto sia effettivamente fondato questo timore e, dall’altra, su come si potrebbe intervenire per migliorare le prospettive dei futuri pensionati; quest’ultimo tema, peraltro, è recentemente entrato nel dibattito seguito all’avvio della cosiddetta “Fase 2” del piano d’azione del Governo in ambito previdenziale che era stato delineato nell’accordo siglato fra Governo e sindacati a Settembre 2016.
Nel sistema contributivo l’importo delle prestazioni dipende dal montante accumulato dagli individui “virtualmente” (non essendo i contributi, nel sistema a ripartizione, effettivamente accumulati) – cioè dai contributi versati e dal rendimento conseguito su questi (legato al tasso di crescita del PIL) – e dai cosiddetti coefficienti di trasformazione. Questi ultimi, in base alla vita media all’età di pensionamento, convertono il montante in una rendita e fanno sì che chi si ritira più tardi riceva una prestazione più elevata, poiché ne beneficerà, in media, per un minor numero di anni.
A parità di crescita del PIL e invecchiamento demografico, la prestazione di ogni individuo è il riflesso della sua esperienza lavorativa; l’importo della pensione dipende, infatti, dall’interazione, nel corso dell’intera carriera, di aliquote di contribuzione (ed è sfavorito chi, come in passato i co.co.co. o attualmente i “voucheristi”, versa un’aliquota minore), periodi lavorati (o con contribuzione figurativa) e retribuzioni (su cui incidono, negativamente, anche i lavori part-time). Vite lavorative meno fortunate – cioè con frequenti periodi di non lavoro, bassi salari e aliquote ridotte – si riflettono, dunque, in una pensione di importo proporzionalmente minore. In aggiunta, al di là dell’assegno sociale, che viene concesso a tutti gli anziani privi di altri mezzi (anche a chi non ha mai lavorato), nel contributivo non esiste l’integrazione al minimo, che, nel precedente sistema, costituiva un pavimento per le prestazioni pensionistiche.
Il cospicuo aumento dell’età pensionabile – le prime coorti che andranno in pensione interamente col contributivo non dovrebbero uscire (intorno al 2040) prima dei 69 anni d’età o con meno di 44-45 anni di contribuzione – dovrebbe, tuttavia, consentire di accrescere l’importo della pensione per effetto dei più elevati coefficienti di trasformazione da applicare e dell’eventuale maggiore durata della vita lavorativa, che comporterebbe una più elevata accumulazione contributiva.
A questo proposito, alcune simulazioni rilevano che con carriere “piene” e lunghe (circa 40 anni di contributi) il rapporto fra pensione e ultima retribuzione sarebbe del tutto simile (attorno all’80% netto), se non superiore, a quello dello schema retributivo, dove però prestazioni di simile importo erano pagate a età anagrafiche ben inferiori (cfr. Conti e Raitano, “L’adeguatezza delle future pensioni contributive”, in Rapporto sullo Stato Sociale 2015, a cura di F.R. Pizzuti). Chi dovesse trascorrere una vita lavorativa stabile e remunerata decentemente riceverebbe, dunque, una prestazione del tutto adeguata al tenore di vita precedente al pensionamento. Va dunque smentito il luogo comune del “tutti avremo pensioni da fame”.
Quindi nessun problema? Tutt’altro. Il problema esiste, e grave, per chi dovesse avere una carriera svantaggiata, rischiando di ritrovarsi con un montante esiguo anche dopo decenni di attività. Non sappiamo, ovviamente, quanti saranno in queste condizioni ma, in base alle prime evidenze empiriche relative alle carriere dei attuali 40-45enni una quota estremamente ampia di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 ha effettuato versamenti limitati nella prima fase della carriera.
In un lavoro di prossima pubblicazione, facendo uso di un campione di lavoratori italiani registrati negli archivi dell’INPS, ho calcolato quanti, fra coloro che hanno iniziato a lavorare fra il 1996 e il 2001 (quindi, ben prima della crisi), hanno accumulato nei primi 10 anni di carriera meno del 60% di quanto avrebbe accumulato, nello stesso periodo, un individuo che avesse lavorato continuativamente da dipendente con una retribuzione lorda annua (costante in termini reali) di 20.000 euro. Così come si fa nell’analisi della povertà relativa, ho, dunque, individuato una sorta di “lavoratore mediano” e ho misurato la quota di lavoratori poveri in termine di montante accumulato nella prima fase di carriera.
I risultati di questo esercizio sono molto preoccupanti: nei primi 10 anni di carriera, infatti, il 49% dei neo-entrati nel 1996-2001 ha accumulato meno del 60% dell’accumulazione potenziale del “dipendente mediano” e, dunque, se la carriera non dovesse evolvere in meglio successivamente, rischierebbe di ritrovarsi da anziano con una prestazione contributiva di importo davvero limitato.
Dopo i primi 10 anni la carriera lavorativa potrebbe, ovviamente, migliorare, anche sensibilmente. Ma il rischio, per molti, di vivere la vecchiaia in povertà esiste e un intervento di tutela contro questo rischio va pensato all’interno del sistema pubblico, dal momento che appare del tutto implausibile che un lavoratore povero possa risparmiare per garantirsi un maggior consumo da anziano ricorrendo alla previdenza privata.
Il Governo, pur senza prevedere interventi da inserire nella prossima Legge di Stabilità, ha iniziato a ragionare sulla possibilità di introdurre una pensione di garanzia per i lavoratori con pensione interamente contributiva, in linea con quanto delineato nell’accordo fra Governo e sindacati siglato a Settembre 2016.
L’idea circolata nelle ultime settimane, non specificata nei dettagli, prevede di ampliare la cumulabilità fra pensione e assegno sociale (prestazione di natura assistenziale soggetta a test dei mezzi; attualmente solo 1/3 del valore della pensione è cumulabile con l’assegno sociale), in modo che nessun futuro pensionato con almeno 20 anni di contribuzione riceva una pensione di importo mensile inferiore a circa 660 euro. Diversamente da alcune idee circolate in precedenza nel Partito Democratico che prevedevano di tarare l’importo della prestazione garantita alla durata della carriera, si tratterebbe, dunque, di una integrazione di natura assistenziale, di importo slegato da età di ritiro e anzianità contributiva e soggetta a prova dei mezzi.
In realtà, quando il Governo a fine 2016 aveva iniziato a parlare di pensione di garanzia, con l’allora Sottosegretario Nannicini, aveva pensato a uno strumento, di natura ben diversa da quanto attualmente in discussione, ispirato all’idea di “pensione contributiva di garanzia” suggerita diversi anni or sono dal sottoscritto.
La mia proposta nasceva proprio dalla constatazione che, diversamente dallo schema retributivo, nel contributivo pensioni di importo limitato possono aversi anche se la vita lavorativa non è stata breve. Per questo motivo la risposta dovrebbe essere di carattere previdenziale, basata cioè su una ridefinizione della formula di calcolo della pensione, anziché di tipo assistenziale come sarebbe una misura means tested di mero sostegno contro la povertà.
In questa prospettiva, si dovrebbe inserire nello schema contributivo – che andrebbe senz’altro mantenuto come cornice, perché incentiva a contribuire e stabilizza il bilancio previdenziale – un importo garantito, non uguale per tutti, ma legato agli anni di contribuzione (effettiva e figurativa o riconosciuta tale dai servizi per l’impiego, ad esempio anche per i periodi di cura) e all’età di ritiro, in modo da rendere l’importo coerente con la logica del sistema stesso, che mira a premiare chi lavora o è disposto a farlo di più (e quindi col principio del “making contribution pay”).
La garanzia potrebbe, ad esempio, essere pari a 14.000 euro annui lordi in caso di ritiro a 66 anni e 40 di anzianità, da ridurre o aumentare proporzionalmente in caso di carriere meno o più lunghe, tenendo conto degli anni di contribuzione e dei coefficienti di trasformazione alle diverse età di ritiro, ad esempio a 11.000 euro a 63+35 o 15.250 euro a 69+39. Ogni qualvolta, per una data combinazione di età e anzianità, la pensione contributiva a cui si ha diritto in base ai propri contributi fosse inferiore alla prestazione garantita, essa verrebbe integrata nella misura della differenza fra queste due grandezze.
Il finanziamento dell’integrazione sarebbe posto a carico della fiscalità generale (ma si potrebbe pensare anche a forme di finanziamento specifico) e comporterebbe un aggravio per il bilancio pubblico unicamente negli anni di corresponsione della prestazione integrata (quindi, trattandosi di un’integrazione da applicarsi nel solo schema contributivo, all’incirca dal 2040 in poi, quando la “gobba” della spesa pensionistica italiana dovrebbe attenuarsi sensibilmente). La maggior spesa dipenderebbe dal livello di fissazione della soglia garantita e dall’evoluzione delle dinamiche di carriera individuale, che condizionano la probabilità per i lavoratori di ricevere prestazioni contributive inferiori ad essa. Tale maggior spesa sarebbe in parte compensata dai minori esborsi per prestazioni assistenziali, che verrebbero altrimenti erogate ai pensionati poveri e, inoltre, sarebbe significativamente attenuata laddove si procedesse contestualmente ad estendere ulteriormente gli ammortizzatori sociali (che, offrendo contribuzioni figurative, aumentano il montante contributivo) e a rendere più efficaci le politiche del lavoro e il controllo delle forme di lavoro sottopagate o falsamente autonome.
Dal punto di vista della target efficiency (raggiungere l’obiettivo desiderato al minimo costo), l’introduzione di una simile misura appare auspicabile dato che – diversamente da una pensione di base o da un intervento di natura assistenziale, che forniscono una prestazione di uguale importo per tutti, indipendentemente dalla precedente storia individuale – consente di realizzare un “fine tuning” dell’intervento rispetto alle caratteristiche individuali: si andrebbe infatti a tutelare (ex post) esclusivamente chi abbia avuto una carriera lavorativa lunga, ma fragile. Al contempo, si minimizzerebbero i disincentivi alla prosecuzione dell’attività da parte dei lavoratori (crescendo sia la pensione contributiva che la prestazione garantita con l’allungamento della carriera individuale) e lo stesso impatto sul bilancio pubblico (si noti, invece, che un sistema privo di garanzia incentiverebbe l’evasione contributiva da parte di chi pensasse di non raggiungere una pensione di molto superiore all’assegno sociale).
Ad ogni modo, è importante che nel dibattito si stia sgombrando il campo da un serio equivoco sulla natura normativa dello schema contributivo e che deriva dall’utilizzo del termine “equità attuariale” con riferimento alle tecnicalità di tale schema. Il contributivo è, infatti, da alcuni ritenuto “equo”, perché prevede lo stesso tasso di rendimento per tutti gli appartenenti a una determinata coorte e in quanto è attuarialmente neutrale rispetto alle scelte individuali. Tuttavia, l’equità attuariale non va confusa con la giustizia distributiva: chi ritiene che la previdenza debba basarsi unicamente su un rigido meccanismo attuariale di controprestazione sta implicitamente accettando come “giusta” e immodificabile qualsiasi situazione che si crea nel mercato del lavoro. In realtà, i tratti del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da molteplici diseguaglianze salariali e contrattuali – oltre che nelle stesse condizioni di salute – inducono a ritenere che molte delle differenze nelle storie lavorative non siano il risultato di un “giusto” processo di mercato che vada quindi cristallizzato negli importi pensionistici. Una buona politica dovrebbe cercare di modificare i processi ingiusti e, in attesa di ciò, dovrebbe quantomeno evitare che gli esiti ingiusti di mercato condizionino anche i trasferimenti pensionistici pubblici.