ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 193/2023

14 Maggio 2023

Dal Reddito di Cittadinanza all’Assegno di Inclusione. Che succede all’equità orizzontale?

Maurizio Franzini e Michele Raitano confrontano il Reddito di Cittadinanza con gli istituti destinati a sostituirlo, l’Assegno di Inclusione e il Supporto per la Formazione e il Lavoro illustrando innanzitutto le loro differenze rispetto a eleggibilità, requisiti di accesso, scale di equivalenza e importi. Franzini e Raitano valutano poi i nuovi istituti dal punto di vista dell’equità orizzontale, cioè della parità di trattamento a parità di condizioni, e forniscono alcuni esempi del perché l’equità orizzontale è destinata a peggiorare.

Dopo settimane di indiscrezioni di stampa e bozze di decreti circolati e puntualmente spariti, il 4 maggio è stato finalmente pubblicato il decreto legge n. 48 (cosiddetto “Decreto Lavoro”) che, fra le altre cose, si occupa di cancellare il Reddito di Cittadinanza (RdC) per sostituirlo con due misure: l’Assegno di Inclusione (ADI), un reddito minimo a tutela di alcune tipologie di famiglie, e il Supporto per la Formazione e Lavoro (SFL), un trasferimento a carattere temporaneo destinato a chi partecipa a progetti di formazione e politiche attive del lavoro. 

Inasprendo ulteriormente i contenuti delle prime bozze circolate a marzo, il Decreto rende categoriale l’accesso alla misura di reddito minimo dal momento che – in aggiunta ai requisiti monetari, patrimoniali e di residenza e alle norme relative alla condizionalità al lavoro – riserva l’ADI solo ai nuclei in cui almeno un componente sia minore, disabile o abbia compiuto 60 anni (cioè quelli che erano definiti come nuclei “non occupabili” nelle prime bozze di riforma). Dal canto suo, il SFL non può essere in alcun modo considerato una misura di reddito minimo dato che, nonostante l’accesso sia basato su requisiti monetari ancora più stringenti di quelli dell’ADI, è condizionato alla frequenza di un corso di formazione e se ne può beneficiare solo per il periodo di frequenza del corso (con un massimo di 12 mesi, non rinnovabile). 

Il Decreto riporta quindi indietro l’Italia a prima del luglio 2018 (ovvero, prima dell’estensione del REI), quando, unico nell’Unione Europea, il nostro paese non disponeva di una misura di reddito minimo basata sul principio dell’universalismo selettivo, ovvero accessibile a tutti coloro che soddisfano i requisiti monetari (e di residenza), indipendentemente dalla “categoria” di appartenenza. Sebbene nella versione finale del Decreto sia scomparso il termine “occupabili”, in precedenza utilizzato per distinguere la platea dei potenziali beneficiari, il Governo ha, dunque, implicitamente continuato a selezionare i potenziali eleggibili alla misura di reddito minimo sulla base degli eventuali carichi familiari, senza tenere in alcun conto le effettive chances occupazionali dei componenti dei nuclei familiari (tema su cui si concentra il contributo di Baronio, Chiozza, Mattei e Torchia in questo numero del Menabò).

Qui ci concentriamo sulle norme relative al trasferimento monetario e ci chiediamo se, e in quale direzione, la riforma sia intervenuta per correggere i principali limiti del RDC che erano stati messi in luce dalla gran parte dei commentatori (fra i quali il Comitato Scientifico per la Valutazione del Reddito di Cittadinanza, presieduto da Chiara Saraceno, e l’Alleanza contro la povertà). Non ci occupiamo, quindi, delle politiche attive per il lavoro e dei servizi sociali destinate ai beneficiari, mentre una stima degli effetti della riforma sul numero di beneficiari e sugli importi mediamente ricevuti viene presentata da Aprea, Gallo e Raitano in questo numero del Menabò. La Tabella 1 sintetizza le principali differenze su eleggibilità, requisiti, scale di equivalenza e importi tra quanto è previsto dal ‘Decreto lavoro’ e il ‘vecchio’ RdC.

Tabella 1: Differenze nei requisiti di accesso e negli importi fra RdC, ADI e SFL

I principali limiti del RdC “dal lato monetario”, erano, secondo molti, i seguenti:

  1. Requisiti di residenza in Italia troppo elevati (10 anni di cui gli ultimi due continuativi), che escludevano, in particolare, molte famiglie di cittadini extra-UE in condizioni di bisogno.
  2. L’applicazione, per il requisito reddituale e il calcolo dell’importo della prestazione, di una scala di equivalenza molto peculiare che penalizzava in termini relativi i nuclei numerosi sia nell’accesso che nell’importo, anche quelli con minori (che dal 2022 beneficiano dell’Assegno Unico a fronte di una riduzione dell’importo del RdC). 
  3. La mancata considerazione della dimensione del nucleo familiare nel calcolo delle componenti affitto e mutuo della prestazione.
  4. La presenza di un numero molto elevato di requisiti monetari, relativi a reddito, patrimonio e ISEE, il cui disegno sembrava peccare di una visione organica dato che poteva comportare ampie differenze nell’accesso e nell’importo fra nuclei in condizioni economiche sostanzialmente simili.
  5. Il disincentivo all’attività lavorativa legato al fatto che, da una parte, il reddito da lavoro veniva interamente considerato nella prova dei mezzi e, dall’altra, solo il 20% dell’eventuale reddito aggiuntivo da lavoro dei beneficiari non veniva considerato (e solo temporaneamente) nel calcolo delle condizioni di accesso e dell’importo della prestazione (con la conseguenza che l’aliquota marginale effettiva sul nuovo reddito da lavoro dei beneficiari era compresa fra l’80 e il 100%).
  6. L’assenza di qualsiasi forma di indicizzazione delle prestazioni e delle soglie reddituali e patrimoniali, con la conseguenza di una riduzione reale della generosità dello schema, tanto più grave in un periodo ad alta inflazione, come quello che stiamo vivendo. Si noti, a tale proposito, che gli unici paesi dell’UE che non prevedono un’indicizzazione automatica degli schemi di reddito minimo sono Grecia, Estonia, Croazia, Ungheria e Irlanda.

La riforma sicuramente attenua – ma non fa scomparire – il primo dei difetti elencati dal momento che si riduce la durata della residenza in Italia necessaria per poter presentare la domanda per ADI o SFL. Senz’altro positiva è anche la norma che introduce nel calcolo dei requisiti – per chi è già beneficiario ADI – di una franchigia pari a 3.000 euro nel caso di reddito aggiuntivo da lavoro dipendente che attenua, rispetto al RdC l’aliquota marginale effettiva su quel reddito. Tale miglioramento va però valutato contestualmente al forte inasprimento delle norme relative alla condizionalità per i percettori ADI (sulla generale accettabilità della quale interviene criticamente Granaglia in questo numero del Menabò) che stabiliscono l’obbligo di accettare qualsiasi lavoro a tempo indeterminato (anche part-time) nell’intero territorio nazionale e, più in generale, qualsiasi lavoro a tempo determinato, indipendentemente dalla sua durata, entro 80 km dal luogo di residenza (nel caso di contratti di durata da 1 a 6 mesi l’ADI viene temporaneamente sospesa). La riforma non interviene, invece, sul tema dell’indicizzazione di importi e soglie, con la duplice conseguenza che sarà più difficile soddisfare i requisiti e che si ridurrà l’importo reale delle prestazioni all’aumentare del livello dei prezzi.

Le altre criticità del RdC con il passaggio all’ADI paiono aggravarsi. In particolare i problemi riguardano il rischio di non includere nuclei in condizioni di bisogno e di generare iniquità orizzontali, ovvero trattamenti fortemente differenziati di nuclei in condizioni simili.

Rispetto alla capacità di tutelare i più bisognosi la riforma ha ridotto il requisito reddituale di accesso per i nuclei che vivono in affitto (da 9.360 a 6.000 euro equivalenti) – così rendendo più difficile per gli affittuari il soddisfacimento dei requisiti di accesso all’ADI –, ha cancellato l’integrazione monetaria per chi ha da pagare un mutuo e non è intervenuta per accrescere l’importo della componente affitto per i nuclei più numerosi.

Al contempo, sono sostanzialmente rimasti invariati i requisiti monetari previsti per il RdC, senza correggere alcune chiare iniquità orizzontali legate alla loro sovrapposizione talvolta non troppo razionale. In particolare, l’applicazione di requisiti patrimoniali che non impattano sull’importo della prestazione ma escludono chi superi anche di un solo euro la soglia prevista porta a effetti paradossali che richiedevano una soluzione. Ad esempio, una famiglia con reddito nullo e patrimonio mobiliare di 10.000 euro con 2 adulti e 1 minore di 3 anni riceverebbe l’importo massimo di ADI (così come di RdC), ma non riceverebbe nulla laddove il patrimonio crescesse di un solo euro.

Gravi criticità continuano a risiedere nel disegno della scala di equivalenza dell’ADI che, se possibile, è diventata, rispetto a quella prevista per il RdC, ancora più cervellotica e lontana da ogni riferimento teorico al costo aggiuntivo derivante dall’aumento del numero di componenti. Al di là di un meritorio incremento del valore della scala attribuita ai componenti disabili, si stabilisce, infatti, che i componenti di età 18-59, a parte il primo, rientrino nella scala di equivalenza soltanto se hanno almeno 3 figli minorenni o se hanno responsabilità di cura di un disabile o di un minore di meno di 3 anni. Una scala di equivalenza ha lo scopo di permettere la copertura dell’impatto che un ulteriore componente ha sul bilancio familiare allo scopo di eguagliare il benessere economico di famiglie con diversa numerosità. Appare piuttosto bizzarro far dipendere quell’impatto dalle caratteristiche non del componente ulteriore ma degli altri componenti. Più in generale, la formula adottata dal governo crea numerosi paradossi e iniquità orizzontali nell’accesso e nell’importo delle prestazioni. 

Ad esempio, una famiglia composta da 2 genitori e 1 minori e con un reddito annuo di 7.000 euro perde il diritto a ricevere l’ADI quando il figlio compie 3 anni e il coefficiente da utilizzare per valutare le esigenze economiche della famiglia in base alla scala di equivalenza scende da 1,55 a 1,15. O, ancora, una famiglia di 5 componenti – 2 genitori e 3 figli – con 10.200 euro di reddito perde il diritto all’ADI quando il primo figlio diviene maggiorenne (e la scala scende da 1,8 a 1,7). Per le famiglie con minori la totale cumulabilità fra ADI e assegno sociale può senz’altro comportare un aumento della prestazione, ma il verificarsi di tale eventualità va comparato con la riduzione della prestazione (e della possibilità di accesso) legata alla mancata considerazione del valore di 0,4 nella scala di equivalenza dei componenti adulti oltre il primo laddove a questi non venga riconosciuto il carico di cura (di disabili, di minori di 3 anni o di almeno 3 figli minorenni). 

Similmente, i nuclei beneficiari di ADI potrebbero ricevere temporaneamente anche il SFL nel caso di componenti adulti senza carichi di cura (dunque, esclusi dal computo della scala di equivalenza). Ma una valutazione del SFL richiede di conoscere come questo sarà effettivamente associato all’offerta di politiche attive, rischiandosi altrimenti di generare un trasferimento di brevissima durata o, comunque, del tutto inefficace.

Le modifiche ai requisiti di accesso e alla scala di equivalenza generano quindi, presumibilmente, vincenti (famiglie con neonati e disabili) e perdenti (nuclei con minori e in affitto), come messo in luce nel contributo di Aprea, Gallo e Raitano. Il problema è che, in molti casi, non emerge una chiara ragione che giustifichi il miglioramento o il peggioramento della condizione rispetto a quanto garantito dal RdC.

La principale iniquità orizzontale della riforma consiste però, come detto, nell’aver reso l’ADI categoriale in base alla composizione del nucleo familiare, un unicum tra i paesi dell’UE. Un esempio aiuta a illustrare quanto paradossale sia questa scelta: un figlio adulto che vive con un genitore di 60 anni può ricevere l’ADI finché il reddito è pari a 8.400 euro, mentre una coppia di licenziati di 55 anni con reddito nullo non riceve alcun sostegno monetario a parte, temporaneamente, il SFL. Se ne deduce che se un limite del RdC poteva essere riscontrato nell’incentivo che dava a dividere opportunisticamente i nuclei familiari per massimizzare la probabilità di accesso e l’importo, l’ADI potrebbe paradossalmente indurre ricomposizioni familiari con parenti di almeno 60 anni.

Alla radice di scelte che sollevano, almeno in noi, tante perplessità e preoccupazioni c’è probabilmente la congiunzione di due elementi, tra loro molto diversi. Da un lato l’esigenza di contenere l’impegno finanziario, dall’altro – e forse soprattutto – una concezione dello stato di povertà e di indigenza come di uno stato di cui si è individualmente responsabili, per le proprie scelte e per la propria riluttanza a cogliere tutte le (belle?) opportunità che il sistema economico offre. L’esito è una dose crescente di iniquità orizzontali. 

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