Dal vaso di Pandora del Jobs Act escono i primi decreti legislativi: non è tutto oro quel che luccica

Ugo Trivellato osserva che, per come si viene configurando, il Jobs Act contiene, accanto a innovazioni condivisibili, disposizioni che sollevano perplessità o tout court contrarietà. Le riserve di Trivellato riguardano soprattutto alcuni aspetti della disciplina dei licenziamenti, il permanere di tutele non uniformi e la persistenza dell’impianto categoriale nelle misure di sostegno al reddito dei poveri

È opinione condivisa, suffragata da solide evidenze empiriche, che i problemi cruciali dell’economia italiana, rivelatisi pienamente nell’attuale lunga recessione – ma già presenti nella seconda metà degli anni ’90 – siano dal lato della domanda di lavoro e risiedano nella scarsa dinamica della produttività, nella limitata innovazione, nella progressiva perdita di competitività del sistema produttivo.

Perché, allora, concentrare ancora una volta l’attenzione sull’offerta e varare una nuova, complessiva riforma del mercato del lavoro – questo infatti è, o meglio potrebbe essere, il Jobs Act –, senza preoccuparsi di imparare dall’esperienza delle innovazioni introdotte al più tre anni prima (dalla “Riforma Fornero” e dai vari interventi legislativi successivi)?

Sia come sia, il Jobs Act, una legge delega (n. 184/2014), c’è. Esso interviene su vasti ambiti del diritto del lavoro: ammortizzatori sociali politiche attive; semplificazione delle procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro; riordino delle forme contrattuali; tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Inoltre, fatte salve poche indicazioni circostanziate (la previsione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, l’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione, la possibilità di “demansionamenti”), delinea princìpi e criteri direttivi generali, potenzialmente di grande portata. In tema di ammortizzatori sociali afferma che lo scopo è «assicurare un sistema di garanzia universale, per tutti i lavoratori, con tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori». E per tutte le deleghe i verbi più ricorrenti sono «razionalizzare … semplificare … uniformare».

Il Jobs Act fa intravedere, dunque, la propensione, o comunque la possibilità, di approdare a un quadro profondamente rinnovato, ad un tempo lungimirante ed equilibrato, della normativa sul lavoro.

Per muovere, già dai primi passi, verso una disciplina organica, la logica avrebbe richiesto di seguire una sequenza ragionata nella predisposizione dei decreti legislativi: partendo dal riordino delle forme contrattuali, incluso il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti; affrontando quindi il tema dei servizi per il lavoro e delle politiche attive; e via dicendo. Si sarebbe così potuto tenere adeguatamente conto delle interrelazioni fra le forme contrattuali e delle loro implicazioni sulla disciplina delle altre materie specificate nel Jobs Act.

La strada scelta dal Governo è stata, invece, diversa. Prima, il 24 dicembre scorso, ha emanato due schemi di decreto, uno «per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali» e l’altro «in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti», (ma, come chiarirò nel seguito, il titolo è almeno in parte fuorviante), approdati a decreti legislativi (rispettivamente n. 22 e 23, il 4 marzo 2015). Il 20 febbraio ha poi approvato altri due schemi di decreto, sul «testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni», e sulla «tutela e conciliazione delle esigenze di cura, vita e di lavoro».

Affermare che il Governo ha preso il cane per la coda – pratica notoriamente poco raccomandabile – è forse eccessivo. Gli inconvenienti di tale modo di procedere sono, però, tutt’altro che trascurabili.

Le disposizioni persuasive dei decreti legislativi (e degli schemi di decreto ora all’esame del Parlamento per i pareri) così come quelle che sollevano, invece, perplessità o tout court contrarietà dipendono soprattutto dalle scelte di merito operate. Ma il modo di procedere per segmenti, seguendo pedissequamente – o quasi – l’elenco delle deleghe e non un naturale ordine logico dal generale al particolare, induce carenza di coordinamento e concorre ad accrescere le debolezze della nuova normativa. Infatti, gli obiettivi di «razionalizzare … semplificare … uniformare» il quadro normativo e di «assicurare un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori» in parte si parcellizzano. Nel seguito mi fermo su alcuni casi di rilievo.

Per quanto riguarda la ridefinizione delle forme contrattuali e della disciplina dei licenziamenti, leggendo il D.Lgs n 23/2015, emerge una prima sorpresa: neppure una riga del provvedimento è dedicata specificamente al contratto a tutele crescenti. Il testo si snoda in 12 articoli, volti a definire la nuova regolamentazione dei licenziamenti, riferiti all’insieme dei lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (si noti, a meno dei dirigenti). Come interpretare questa apparente anomalia? Conviene guardare anche allo schema di decreto sulle tipologie contrattuali. L’art. 1 recita: «Il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro». E nell’intero schema di decreto il lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti non appare mai. La sola lettura possibile è che, nei fatti, il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato è soltanto a tutele crescenti. E le tutele crescenti sono date soltanto dal fatto che, nel caso di licenziamenti economici o disciplinari (giustificati, questi ultimi, dalla «sussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore») il risarcimento economico a carico del datore di lavoro cresca in funzione dell’anzianità di servizio del lavoratore, essendo fissato pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio e comunque entro l’intervallo fra 4 e 24 mensilità.

A mio avviso, i punti critici del decreto sono cinque.

Innanzitutto, se queste – e nient’altro! – sono le «tutele crescenti», esse sono a dir poco grame.

Il secondo punto critico attiene al basso tetto dell’indennità risarcitoria, incongruo rispetto al criterio di due mensilità per anno di servizio enunciato giusto una riga prima. Infatti, 24 mesi corrispondono a 12 anni di anzianità. Per il lavoratore che abbia una storia lavorativa lunga in una stessa impresa ciò si traduce in una forte penalizzazione.

Dubbi suscita poi la norma sulla risoluzione di controversie in merito al licenziamento per motivi disciplinari. In tal caso, il lavoratore otterrà il reintegro quando «sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». L’ultima affermazione lascia disorientati, perché in contrasto con un principio generale: la proporzionalità della sanzione alla violazione.

Inoltre, il decreto estende in toto la nuova disciplina ai «licenziamenti collettivi». Il problema principale riguarda la discrezionalità dei datori di lavoro. Affinché il licenziamento collettivo (quello di un’impresa con più di 15 dipendenti che licenzi almeno 5 lavoratori nell’arco di 120 giorni, nell’ambito della stessa provincia) sia giustificato, esso deve riferirsi a un singolo processo di riduzione o trasformazione dell’attività. Il decreto richiama sì la procedura di consultazione e i criteri ai quali attenersi nella scelta dei lavoratori da licenziare («anzianità di servizio, carichi di famiglia, esigenze tecnico-produttive»), ma solo per negare loro qualsiasi rilievo. Vi è qui una torsione della normativa, che dilata in misura ingiustificata la discrezionalità dei datori di lavoro.

Infine, nonostante l’enunciazione di «uniformare» il quadro normativo e «assicurare un sistema di garanzia universale per tutti i lavoratori», presente nel Jobs Act, il D.Lgs. sul contratto a tutele crescenti mantiene poi distinta la disciplina per i lavoratori licenziati da imprese con più o meno di 15 dipendenti. L’asimmetria forse non arriva ai due pesi e alle due misure, ma è profondamente segnata da questo criterio categoriale. Le indennità risarcitorie per i lavoratori licenziati per motivi economici o disciplinari da piccole imprese sono dimezzate, e con un tetto di 6 mensilità – dunque pari a un quarto –, rispetto a quelle dei lavoratori licenziati dalle imprese più grandi. Qui, per un lavoratore con una lunga anzianità aziendale la denominazione del contratto «a tutele crescenti» sfiora l’irrisione.

Su un altro piano, v’è da considerare che la nuova disciplina sui licenziamenti non vale soltanto per i nuovi contratti a tempo indeterminato, anzi in tempi abbastanza brevi sarà dominante. Infatti, essa si estende (i) alle nuove conversioni di contratti a tempo determinato o di apprendistato in contratti a tempo indeterminato, nonché (ii) a tutti i lavoratori assunti precedentemente all’entrata in vigore del decreto nel caso in cui, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato, l’impresa superi la soglia dei 15 addetti. E “per la contradizion che nol consente” ritengo che la nuova disciplina si applichi anche ai nuovi contratti a tempo determinato che (non numerosi, immagino) si concludessero anzitempo con un licenziamento.

Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali, la nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI) è un sostanziale avanzamento verso una tutela universale dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente l’occupazione. C’è un forte allentamento dei requisiti di ammissibilità e la durata massima è fissata pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi 4 anni, dunque a 2 anni. È apprezzabile, poi, che alla componente “passiva” – l’indennità erogata – si affianchino disposizioni in tema di condizionalità. Inoltre, per i lavoratori co.co.co. che abbiano perduto involontariamente l’occupazione è introdotta in via sperimentale, per il 2015, un’indennità di disoccupazione mensile, denominata DIS-COLL, disciplinata da criteri analoghi a quelli della NASpI, con una durata massima di 6 mesi.

Il quadro presenta, tuttavia, almeno tre non lievi ombre. La prima dipende proprio dal non aver seguito una sequenza ragionata nella predisposizione dei decreti legislativi. Se il decreto «recante il testo organico delle tipologie contrattuali» fosse stato il primo, ciò avrebbe consentito di definire tempestivamente la riconduzione al lavoro subordinato delle forme di apparente lavoro autonomo, cioè di larga parte dei collaboratori coordinati e continuativi anche a progetto e delle persone titolari di partita IVA (artt. 47 e 48 dell’attuale schema di decreto). Conseguentemente, sarebbe stato possibile definire la DIS-COLL per una platea appropriata, decisamente più ampia dell’attuale.

In secondo luogo, l’esperienza internazionale insegna che la condizionalità funziona soltanto in un contesto di “obblighi reciproci”: dell’amministrazione pubblica di fornire servizi di orientamento, formazione e placement; dei lavoratori disoccupati di parteciparvi, cercare attivamente lavoro e accettare prontamente un’offerta di lavoro. È irrealistico pensare che i Centri per l’Impiego, oggi molto fragili, possano far valere stringenti condizionalità se non sono legittimati dalla fornitura di adeguate politiche attive. Non essere intervenuti tempestivamente con la costituzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione e con un altrettanto tempestivo, adeguato potenziamento dei Centri per l’impiego – temi sui quali non è ancora disponibile una bozza di schema di decreto – può avere serie, indesiderabili conseguenze. Il rischio è che l’allungamento della durata massima della NASpI si traduca in buona parte in allungamento della durata effettiva della disoccupazione con indennità, con esiti negativi sulle finanze pubbliche e, forse, sulla propensione dei disoccupati a cercare lavoro, almeno finché non siano prossimi all’esaurimento del diritto all’indennità.

Infine, sempre il decreto sugli ammortizzatori sociali introduce in via sperimentale, all’art. 16, un’importante novità: l’Assegno di disoccupazione (ASDI), destinato «ai lavoratori beneficiari della NASpI […] che abbiano fruito di questa per l’intera sua durata entro il 31 dicembre 2015, siano privi di occupazione e si trovino in una condizione economica di bisogno».

Ora, in una condizione economica di bisogno si trovano molte persone che non sono lavoratori, o che se sono tali non hanno potuto godere della NASpI. Il riemergere di una logica categoriale, che smentisce il principio universalistico enunciato nel Jobs Act, è palese. Sulla questione è intervenuta Chiara Saraceno su La Voce con un lucido intervento, mentre sulle incongruenze della disciplina dell’ASDI, che raggiungono il paradossale di due disposizioni contraddittorie per l’individuazione dei beneficiari in presenza di razionamento, ho scritto in altra sede.

Si tratta di carenze e incongruenze vistose E resta poi un punto basilare: la miope, ma tenace persistenza dell’impianto lavoristico-categoriale che ancora tende a informare il nostro sistema di welfare.

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