Dall’adattamento alla mutazione. Una nuova strategia riformatrice

Roberto Tamborini prende spunto da un recente articolo di Michele Salvati che indica a modello i paesi in grado di adattare l'economia al nuovo capitalismo, coltivando settori avanzati di successo e assicurando una crescita del reddito in grado di sostenere il Welfare State. Tamborini critica questa visione "distopica" e sostiene che è invece necessario mutare direttamente le forze di mercato, ricostruendo un capitalismo socialmente equo, progressivo, sostenibile, come fu fatto dopo la seconda Guerra mondiale.

Gli sciami d’innovazioni delle tecnologie dell’informazione e telecomunicazione che hanno preso vita nell’ultimo quarto del secolo scorso continuano a trasformare non solo la nostra vita quotidiana, ma l’intero assetto dell’economia e della società in un intreccio apparentemente inestricabile di progresso e minacce. In un recente articolo (Corriere della Sera, 13 marzo), Michele Salvati ci propone un’illuminante analogia: se Karl Polanyi chiamò la Grande Trasformazione del mondo moderno quella innescata dalla rivoluzione industriale nel corso del XIX secolo, noi stiamo vivendo la seconda Grande Trasformazione. Guardando alla sua entità e profondità, le sue ramificazioni umane, sociali e politiche, l’analogia è certamente fondata.

La travagliata, e in certi momenti drammatica storia della prima Grande Trasformazione è stata a lieto fine per i paesi che l’hanno partorita: l’espansione della democrazia, dei diritti e del benessere senza precedenti che abbiamo conosciuto dopo la seconda Guerra mondiale. Oggi Salvati vede alcuni paesi (“pochi”) che si trovano nella virtuosa condizione di giovarsi del “successo di settori avanzati, una sufficiente crescita del reddito e la possibilità di alimentare in modo adeguato le istituzioni dello Stato di benessere”. Questi happy few “hanno sinora prodotto maggioranze politiche che sostengono lo sforzo dei governi di adattarsi alle condizioni della seconda Grande Trasformazione”. Altri paesi, tra cui l’Italia, non rientrano in questo club perché “il faticoso impegno di adattare l’economia e le istituzioni alla seconda Grande Trasformazione (…) è trascurato (…): la ricerca di una maggioranza usando appelli populistici esclude un consenso fondato su programmi realistici e le misure promesse – e purtroppo in parte attuate – non fanno che aggravare la situazione” (corsivi miei).

Qui il lettore però inciampa in una perplessità. Se l’Italia è certamente tra i perdenti della seconda Grande Trasformazione (una sindrome iniziata, non uno, ma trent’anni fa), quali sono e dove sono gli happy few? La storia narrata da Salvati è distopica. Edward Luce (Il declino del liberalismo occidentale, Einaudi), Colin Crouch (How can neo-liberalism be saved from itself?, Social Europe), Ian Bremmer sulle stesse pagine del Corriere (14 marzo), e molti altri, descrivono e spiegano come il mondo che ha dato vita alla seconda Grande Trasformazione sia entrato in un crisi profonda, gravida di minacce per la democrazia liberale, non certo limitata ai soli paesi perdenti e disadattati. Nella mole di dati disponibili si fatica a trovare quale famiglia politica che ha governato nei paesi occidentali negli ultimi trent’anni abbia attuato in maniera ampia e programmatica la redistribuzione di risorse dai settori avanzati di successo all’offerta di beni pubblici e servizi sociali che descrive Salvati, semmai c’è abbondante evidenza del contrario.

La parola chiave della narrazione distopica, ma forse è meglio dire utopica, di Salvati è quella che vedete evidenziata in corsivo: adattare. E’ altresì la chiave dell’errore strategico compiuto dalla sinistra che ha governato durante l’avvento della seconda Grande Trasformazione, ora ai minimi storici ovunque, e che sarebbe diabolico ripetere per il futuro, condannandosi a definitiva scomparsa per cessata ragione sociale. Come ha scritto il noto editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau – che amo citare e quindi mi perdonerà chi l’ha già letto – una volta fare le riforme significava fare in modo che il capitalismo fosse socialmente equo e sostenibile, oggi significa adattare la società alle esigenze del capitalismo globale.

La mia contro-narrazione sarà imperniata su tre temi, che sono al centro della ricerca economica e dell’elaborazione politica a livello internazionale, mentre le forze politiche italiane, di destra e di sinistra rimangono sorde e mute: l’avvento del capitalismo insostenibile, l’impotenza delle politiche convenzionali, le sfide per la mutazione del sistema economico

L’avvento del capitalismo insostenibile. Il capitalismo insostenibile è il lato oscuro della seconda Grande Trasformazione sprigionatosi dall’effetto combinato di globalizzazione e innovazioni tecnologiche (O. J. Blanchard, in Micromega, 2019, n. 2 ).    E’ ormai acquisito da tempo che la globalizzazione ha prodotto una riduzione delle disuguaglianze di reddito tra paesi avanzati ed emergenti, ma un aumento delle disuguaglianze all’interno dei paesi avanzati fino al punto di destrutturarne il tessuto sociale e politico. I motivi sono stati molteplici, ma vanno ricordati i) l’aumento della domanda di lavoro specializzato e i salari relativi, rispetto ai livelli inferiori, per via di scomposizione e distribuzione spaziale di mansioni e processi consentite dalla globalizzazione; ii) l’aumento della domanda relativa di lavoro agli estremi (polarizzazione) spiegata da routinizzazione e commerciabilità delle competenze.

Si è prodotta la disconnessione tra meccanismi di pura accumulazione di capitale finanziario e ricchezza e la capacità di creazione di posti di lavoro e benessere diffuso. Nel 1990 le tre società più grandi del settore manifatturiero (General Motors, Ford, Chrysler) raggiungevano un totale di 250 miliardi di dollari di ricavi, una valore di borsa di 36 miliardi e 1,2 milioni di occupati. Nel 2014 le prime tre società del settore informatico facevano all’incirca lo stesso ammontare di ricavi, ma un valore di borsa 1000 miliardi per 137.000 occupati. Vale a dire, la seconda Grande Trasformazione in venticinque anni ha aumentato il valore (di borsa) per addetto di circa 140 volte al netto dell’inflazione. La distribuzione della ricchezza e del reddito, e la curva delle imposte, sono tornati ai livelli del capitalismo precedente alla seconda Guerra mondiale, l’argomento centrale del best seller di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo (Saggiatore). Due domande.

Da dove vengono profitti e ricchezza? C’è ampia evidenza, anche nei settori più intensamente tecnologici, della presenza di posizioni di potere, di controllo e di rendita, di pura e semplice trasmissione ereditaria di vantaggi acquisiti, oltre alla intrinseca difficoltà di riuscire a scindere ciò che dipende solo dal singolo individuo da ciò che ciascuno deve al resto della società. ” (A. Atkinson, Inequality. What can be done?, Harvard U.P., p. 4). Nel suo ultimo libro, Il valore di tutto (Laterza), Mariana Mazzucato spiega dettagliatamente la differenza tra creazione di valore ed estrazione di valore.

Dove sono finiti profitti e ricchezza? Diversi studiosi, impegnati nella ricerca sulla cosiddetta stagnazione secolare, hanno messo in luce il puzzle che si osserva nella principali economie avanzate: lo spostamento della distribuzione del reddito dal lavoro al capitale, la caduta tendenziale del rapporto tra investimenti e prodotto nazionale, il rallentamento della crescita della produttività. Pare che la seconda Grande Trasformazione abbia spento uno dei motori dello sviluppo post-bellico: la moderazione salariale e l’aumento dei margini di profitto in cambio d’investimenti e innovazioni tecnologiche che aumentano la produttività a beneficio di tutti. Come ha osservato il decano degli economisti americani Robert Solow, le nuove tecnologie le vediamo dappertutto tranne che nelle statistiche della produttività; e in quelle della crescita dei salari. Secondo Larry Summers, profitti e ricchezza finiscono in bolle finanziarie, che ci danno brevi illusioni di progresso economico.

La preoccupazione più comune è che si crei un’enorme “disoccupazione tecnologica”. E’ vero che nella storia finora il saldo tra creazione e distruzione di posti di lavoro alla lunga è sempre stato positivo, ma per la prima volta gli “ottimisti tecnologici” sono in minoranza.            Secondo studi dell’OCSE, nei paesi industrializzati i posti di lavoro a rischio di automazione variano tra il 10% e il 15%, ma quelli a rischio di “significativi mutamenti” arrivano tra il 30% e il 45%.

Ma se anche stavolta il saldo fosse positivo, occorre chiedersi quale sarà la capacità di assorbimento di élite lavorative ai vertici del sistema. Qui il problema non è tanto la creazione o distruzione netta di posti di lavoro, quanto la loro polarizzazione in una struttura a piramide con una cuspide sempre più piccola e una base sempre più larga e depauperata.

L’impotenza delle politiche convenzionali. Il ruolo assegnato alla mano pubblica nell’età della seconda Grande Trasformazione è a lato dell’arena del mercato, limitandosi ad offrire: tutela della concorrenza e del consumatore, redistribuzione del reddito (moderata), pari opportunità e livellamento dei punti di partenza (uguali alla partenza della gara, non all’arrivo), sistemi di assicurazione e previdenza (nei limiti consentiti dalla consensus taxation, il livello di tassazione che non fa perdere le elezioni). Le differenze tra liberisti e sinistra adattiva sono state nelle sfumature, non nel quadro d’insieme.

Le politiche convenzionali sono state efficaci, lo saranno in futuro o sono self-defeating, cioè producono esse stesse il proprio fallimento? Due problemi.

Primo, come già detto, oggi non è in gioco solo la creazione o distruzione netta di posti di lavoro, quanto la loro polarizzazione. Viene messo in discussione uno dei capisaldi delle politiche convenzionali: “Education, Education, Education” (T. Blair). Secondo Robert Gordon, uno dei maggiori studiosi in questo campo, negli Stati Uniti già si registra il fenomeno della overqualification di massa, ossia un gran numero di giovani che trovano lavoro (se lo trovano) con mansioni molto inferiori alla loro qualificazione. Secondo un rapporto ISTAT appena pubblicato un terzo dei giovani italiani con un lavoro svolge una mansione inferiore al proprio titolo di studio. Secondo J. Lanier, uno dei guru dell’informatica, “le persone comuni saranno svalutate, mentre le più vicine ai computer più importanti saranno preziosissime. Quale sarà il destino delle “persone comuni”?

Secondo, quanta disuguaglianza dobbiamo/possiamo accettare? Uguaglianza dei punti di partenza, ma non dei punti di arrivo, è un’idea che ha un suo fondamento morale, ed è stata anche molto popolare. Il problema, esattamente come nello sport, è se la gara si svolge in maniera equa e onesta, e in che misura il risultato di ciascuno dipende solo da sé stesso. Ad ogni modo, né la storia, né la (buona) teoria autorizzano a credere che il libero mercato sia un sistema in grado spontaneamente di limitare le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Ogni società presenta una propria attitudine alla disuguaglianza economica e istituzioni atte a gestirla. Ma non è solo questione ideologica o culturale: stiamo toccando con mano che oltrepassare la soglia di tolleranza produce importanti effetti collaterali: squilibri macroeconomici tra capacità produttiva ed espansione della domanda (effetti di composizione delle propensioni al consumo e al risparmio), squilibri finanziari (aumento dell’indebitamento delle classi medio-basse), squilibri fiscali (tensione sul sistema di welfare; aumento del debito pubblico o aumento della pressione fiscale), tensioni socio-politiche.

Le ricette convenzionali promosse sino ad ora raccomandano modelli di “crescita inclusiva”, ma i risultati non sono stati all’altezza della sfida. E qui, secondo la maggior parte degli studiosi, siamo al cuore della crisi delle democrazie liberali nei principali paesi occidentali.

Per una mutazione del sistema economico. La capacità di adattamento che Salvati auspica per vincere la seconda Grande Trasformazione evoca un’analogia biologica. Ma l’evoluzione biologica di successo non opera solo per adattamento, bensì anche per mutazioni. Il lieto fine della prima Grande Trasformazione non fu l’esito di adattamento, ma come ricorda Munchau, di una mutazione del sistema, prodotta non dalla Natura, ma dall’intelligenza e volontà umana organizzata in forme politiche e sociali, di cui la sinistra riformatrice dell’epoca fu protagonista. Poi venne il riformismo adattivo; quale ne sia il giudizio storico, il punto è che non ha più chance evolutive. Intervenire (moderatamente) a valle degli esiti prodotti dalle forze di mercato, quando disuguaglianze e insicurezze a monte peggiorano fortemente, diventa un Fatica di Sisifo insostenibile. Soprattutto se si vuol mantenere l’equilibrio finanziario del sistema. Occorre invece un cambio di codice genetico, aprendosi alle elaborazioni di politiche in grado di agire, governare, e mutare direttamente le forze di mercato, ricostruendo un capitalismo socialmente equo, progressivo, sostenibile, così come fu fatto dai nostri progenitori.

L’agenda di oggi è molto diversa da quella di allora, e spazia dalla regolazione dei sistemi finanziari in funzione dei loro rapporti con l’industria e i risparmiatori, al ribilanciamento della mobilità internazionale dei fattori produttivi, dal tema dei confini della potestà legislativa e impositiva rispetto alle grandi entità economico-finanziarie transnazionali, alla revisione dei trattati commerciali in chiave di equità economica e sociale, dalle nuove forme di controllo e di governo delle imprese e delle relazioni industriali in chiave di responsabilità sociale e ambientale, alla ridefinizione dei diritti di proprietà (intellettuale) e partecipazione rispetto ai processi d’innovazione tecnologica. Le idee non mancano; manca la capacità e la volontà politica di ascoltarle, organizzarle e tradurle in azione.

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