ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 175/2022

4 Luglio 2022

Dall’illusione meritocratica alla “limitata immeritocrazia”

Le riflessioni di Andrea Boitani e Maurizio Franzini in tema di merito e meritocrazia. Muovendosi in un dibattito spesso confuso i due autori spiegano perché a loro avviso la meritocrazia è un’ illusione da sostituire con l’obiettivo di realizzare una società ‘limitatamente immeritocratica’.

Elena Granaglia sullo scorso numero del Menabò ha individuato 6 domande alle quali occorrerebbe dare una convincente risposta per porre su solide basi l’ideale meritocratico. Tutte le domande sono rilevanti, così come gli argomenti che Granaglia avanza in relazione a ciascuna di esse. La lettura dell’articolo ci ha sollecitato alcune riflessioni, che possono essere viste come integrazioni o estensioni dei punti principali in esso sostenuti e che proviamo qui a presentare.

  1. Qualunque cosa sia il merito, sembra necessario distinguere due problemi: il primo (di carattere normativo) riguarda i criteri che consentono di riconoscerlo e, quindi, ‘premiarlo’ nelle varie circostanze; il secondo (di carattere positivo) la valutazione se esistano o possano esistere istituzioni in grado di dare attuazione a quei criteri, e quindi premiare adeguatamente il merito come definito in base ai criteri prescelti. Le questioni che pone Granaglia ricadono in entrambi gli ambiti e aiutano a fare chiarezza, cioè a collocare le varie questioni nell’ambito pertinente.

È anche importante tenere distinti due ambiti di applicazione del merito. Il primo potremmo chiamarlo di assegnazione di una posizione (questo sarebbe il premio) e richiede di individuare chi con più merito di altri può ricoprirla. In questo caso il merito ha una dimensione puramente ordinale, ciò vuol dire che occorre individuare chi ne ha di più senza preoccuparsi di determinare quanto ne abbia più di altri (come, invece, sarebbe richiesto da una logica cardinale). Il secondo caso richiede, al contrario, che il merito sia misurabile cardinalmente perché le differenze di merito sono rilevanti e da esse dipendono le differenze tra i premi. È, questo, il caso delle remunerazioni delle prestazioni in base al merito che, evidentemente, è assai più complesso del precedente.

  1. Partiamo dal problema di assegnazione e dai criteri ‘normativi’ da prendere a riferimento. Come emerge anche dall’articolo di Granaglia il criterio dovrebbe essere quello delle competenze, cioè della capacità di svolgere al meglio i compiti specifici previsti da quella assegnazione.

Ciò non risolve, però, la questione del merito, che richiede di guardare al modo in cui sono state acquisite le competenze. Il minimo che si può dire è che se non è assicurata una sorta di eguaglianza delle opportunità è ben probabile che chi ha più competenze non abbia anche più merito.

Un banale esempio: supponiamo che i generali siano tutti figli dei generali; è diverso se lo sono per discendenza familiare o per competenze acquisite grazie al vantaggio di avere un padre generale. È diverso per l’efficienza nello svolgimento dei compiti ma non lo è per il merito, se i figli dei generali godono di opportunità per acquisire le competenze che ad altri sono precluse. Dunque, ‘deve’ vincere chi ha le competenze o abilità.

In una logica di competenze, non avrebbe molto senso scegliere una persona meno competente anche se la causa della minor competenza è il suo svantaggiato background familiare. D’altro canto, non può dirsi che è meritocratico premiare competenze acquisite grazie a migliori opportunità. In breve: perché merito e competenze siano sovrapponibili è indispensabile assicurare l’eguaglianza delle opportunità nell’acquisizione delle competenze. E forse, a rigore, non basta. Perché le competenze, anche in un contesto di pari opportunità, dipendono dal talento e dallo sforzo. Il primo, come sosteneva Rawls, è dono genetico o divino; quindi, non è merito di chi ne è portatore, e può anche contribuire a moltiplicare gli effetti dello sforzo individuale nell’acquisizione di competenze (Granaglia, domanda 6). Col che talento e sforzo non sono separabili e diviene difficile sovrapporre merito (morale) e competenze, anche in condizioni di pari opportunità. Si può anche aggiungere che vi sono casi in cui potrebbe essere giustificato non rispettare il criterio delle competenze, in particolare quando il più competente è anche molto opportunista, ammesso che tale opportunismo sia noto.

Sotto il profilo positivo, per realizzare tutto questo dovremmo disporre di istituzioni che: a) valutino ordinalmente le competenze appropriate per ogni “posto”, il che richiede, peraltro, di definire il “telos” di quel posto, difficile da disporre in una scala unidimensionale (essere una buona infermiera richiede empatia e umana pietas, in aggiunta a capacità “tecniche” di cura); b) assicurino continuativamente l’eguaglianza delle opportunità, ovvero la ricreino tutte le volte che le disuguaglianze emerse tra i genitori nel corso della loro vita possono tradursi in disuguali opportunità per i figli. È evidente che realizzare queste due condizioni è tutt’altro che semplice. In genere si pensa, rispetto alle opportunità, che sia un problema di istruzione ma spesso si finisce per invocare il merito (non meglio definito in questo caso) per decidere chi debba accedere alle Università migliori. Il che appare in contraddizione con il principio delle pari opportunità nell’acquisizione delle competenze. Inoltre, se le competenze consistono anche nelle cosiddette soft skills (e per alcune mansioni è certamente così) diventa difficile immaginare come si possa creare l’eguaglianza delle opportunità rispetto ad esse.

Sintetizzando: se non si può fare a meno di scegliere in base alle competenze ma non c’è almeno eguaglianza di opportunità, occorre evitare che il vincitore sia considerato, e si senta, moralmente superiore, ovvero sia affetto da hubris meritocratica. Come dice Michael Sandel (The Tyranny of Merit, 2020, p. 25), “il principio che il sistema premia il talento e il duro lavoro incoraggia i vincitori a considerare il proprio successo quale frutto delle proprie azioni, una misura della propria virtù e a guardare dall’alto in basso chi è meno fortunato di loro. L’arroganza meritocratica riflette la tendenza dei vincitori a inebriarsi troppo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e la buona sorte che li ha aiutati sul cammino”.

  1. Il lato oscuro della meritocrazia evidenziato da Sandel si presenta, amplificato, anche quando si considerano problemi che richiedono di concepire il merito come grandezza cardinale. Si tratta, chiaramente, dei problemi relativi alla distribuzione dei redditi e delle ricchezze. Molti difensori della meritocrazia risolvono la questione della cardinalità del merito attraverso la misurazione monetaria dello stesso, grazie all’assunto che redditi e ricchezze riflettano il merito, ne siano “segno visibile”. Non potendo misurare il “merito” (anche nella forma più corretta di competenze) in unità di “merits” (come alcuni utilitaristi dell’Ottocento pensavano di misurare l’utilità cardinale in “utils”) o qualcosa di simile, si ricorre all’assioma che il mercato remunera il merito. A quel punto è facile dire che, se una persona guadagna 3 volte un’altra, il merito della prima è 3 volte quello di un’altra. Per mezzo di questa scorciatoia logica diverrebbe possibile costruire un’unica grande scala e un’unica grande gara della vita, che coinvolge tutti gli appartenenti a una società, per le più elevate posizioni sociali, ovvero per le più alte remunerazioni (J. Feinberg, Doing and Deserving. Essays in the Theory of Responsibility, 1970). Il che consentirebbe di raggiungere due risultati. Il primo (per ipotesi) è che qualsiasi differenza retributiva riflette le differenze di merito; il secondo è che diviene possibile confrontare i meriti relativi del medico e dell’ingegnere, dell’infermiera e della manager, confrontando i loro redditi e/o le loro ricchezze.

Naturalmente, ciò significa lasciare che sia il mercato a definire i multipli di competenza, con tutte le rendite che ci possono essere e che, inevitabilmente, creano un gap tra remunerazioni e merito. Alcuni, come Jean Tirole nella sua lezione inaugurale al Festival Internazionale dell’Economia di Torino, argomentano che remunerazioni basate sul merito sono l’unico modo di incentivare al massimo lo sforzo e la produttività dei talentuosi. Eppure, proprio Tirole nei passati decenni ci ha insegnato che gli incentivi sono necessari in un mondo di informazione imperfetta e di non osservabilità dello sforzo e che l’incentivo deve contenere, per essere efficace, il riconoscimento di una rendita a chi gode dei vantaggi informativi. Ma dunque, nel mondo reale le remunerazioni incentivanti, che premiano anche una rendita informativa, divergono necessariamente da quelle che premierebbero esclusivamente il merito.

  1. Se riconosciamo che le competenze sono specifiche e intrinsecamente non confrontabili, ne segue che non siamo in grado di costruire un ranking universale e, non potendo fare confronti cardinali, non è possibile costruire una relazione biunivoca tra merito e retribuzioni e, quindi, dire se le disuguaglianze di reddito e di ricchezza siano meritate o siano solo il frutto del contingente apprezzamento di un mercato che può essere molto imperfetto. Infatti, il mercato, soprattutto se non è concorrenziale, può remunerare altro dalle competenze richieste per lo svolgimento dei vari compiti. Per esempio, il cosiddetto capitale relazionale, cioè le relazioni nelle quali si è inseriti, che hanno ‘valore economico’ e che dipendono largamente dal background familiare (M.Franzini, F.Patriarca, M.Raitano, “Market competition and parental background wage premium: the role of human and relational capital”, Journal of Economic Inequality, 2020). Remunerazioni e merito, in questo caso, si divaricano radicalmente. E anche per questo non sorprende che alcuni ritengano che il merito non c’entri nulla con le remunerazioni ma solo con l’assegnazione dei posti e degli onori (per esempio, M. Santambrogio, Il complotto contro il merito, 2021))

Quindi: poiché, in un modo o nell’altro, non possiamo dire che i premi o le remunerazioni sono meritate, cade anche la conseguenza, spesso adombrata, che le disuguaglianze retributive create dal mercato siano giustificate. Vale forse la pena di ricordare che sovente si sostiene che il merito si misura con la capacità di farsi pagare di più, quale ne sia il motivo. Così inteso, il merito – ed è il minimo che si possa dire – perde ogni collegamento con il valore morale e la giustizia sociale.

  1. In conclusione, tirando le fila di queste riflessioni emergono questi punti rilevanti:
  • non può esservi merito senza eguaglianza delle opportunità, ma definire con precisione quest’ultima e, soprattutto, realizzarla è assai difficile e quindi il meglio che si possa immaginare è non una società meritocratica ma una società che utilizzi comunque le competenze per assegnare posti e onori, una società che, in mancanza di una migliore definizione potremmo chiamare “limitatamente immeritocratica”;
  • non si possono misurare le ‘differenze di merito’ e quindi non è da queste che possono farsi discendere le differenze nelle retribuzioni. Men che mai si possono assumere le differenze retributive decretate dai mercati come indicatori di differenze di merito (moralmente inteso). Se le disuguaglianze di mercato siano meritate o, più in generale, accettabili va valutato volta per volta ed eventualmente vanno individuati e, se possibile, adottati i correttivi diretti a ridurre le disuguaglianze non meritevoli e inaccettabili;
  • da tutto ciò discende che l’atteggiamento di superiorità morale di chi ce l’ha fatta additato da Sandel (e che, come minimo, peggiora la coesione sociale) è insostenibile e ingiustificato. Una cosa è farcela perché hai talento e hai acquistato (in qualsiasi modo e godendo di migliori opportunità) competenze specifiche, apprezzate dalla società e dal mercato, altro è dire che ti sei meritato di farcela, mentre chi non ce l’ha fatta non ha merito e, quindi, ha minore dignità o statura morale;

infine, conoscere le complessità da superare per costruire una società meritocratica ed essere consapevoli della sostanziale inadeguatezza delle istituzioni (a iniziare dal mercato) a garantire l’uguaglianza di opportunità è essenziale per cercare di limitare i danni che possono derivare dall’ignorare tutto questo. La società non può in alcun modo garantire la parità dei talenti (e nessuno lo vorrebbe) ma dovrebbe almeno minimizzare la disuguaglianza di opportunità nell’acquisizione di competenze e assegnare posizioni e onori in base a queste. Aperto rimane il discorso sui differenziali retributivi. Se, in ogni specifico ambito d’azione, il ranking delle competenze può spiegare il ranking delle retribuzioni, esso non giustifica le differenze cardinali. Tutto ciò non dovrebbe indurre a smettere di impegnarsi per permettere che ‘vincano’ le competenze ‘buone’, in un contesto di limitata disuguaglianza di opportunità. Forse sarebbe meglio lasciar cadere l’illusione di una improbabile meritocrazia e perseguire una ‘limitata immeritocrazia’.

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