Debito pubblico, UE e BCE: il presente (e il futuro) alla luce del passato – Prima parte

Gianluigi Nocella partendo dalla considerazione che gli interventi di finanza pubblica sollecitati dalla crisi COVID preludono all’accumulazione di un elevatissimo debito anche in paesi, come l’Italia, già interessati da tensioni, ragiona sul ruolo di alcuni elementi dell’assetto istituzionale europeo nel favorire l’emergere di quelle tensioni nell’ultimo decennio, su quanto esse pesino nella situazione attuale e su quanto sia essenziale e politicamente complicato superarle. Quella che segue è la prima delle due parti di cui si compone l’articolo.

Con l’emergenza COVID la politica fiscale ha prepotentemente riguadagnato il centro della scena. Il consenso sulla necessità di un intervento rapido e senza tentennamenti da parte del settore pubblico è pressoché unanime, mostrando quantomeno un approccio diverso rispetto a ciò che è successo nella Grande Recessione. Fatte le dovute (e importanti) differenze tra i due episodi, in quel caso ad uno shock perlopiù esogeno (una crisi di natura finanziaria, “importata” dagli USA) di proporzioni molto rilevanti – la contrazione cumulata del Pil reale nel 2008-09 fu del -6,2% – l’Italia rispose con manovre restrittive (o al più neutrali) dalla metà del 2008 fino all’inizio del 2014. All’epoca, infatti, il Patto di stabilità e crescita ancora non prevedeva la general escape clause attivata dalle istituzioni europee il 23 marzo scorso e tra il 2009 e il 2010 entrarono in procedura per deficit eccessivo (PDE)  ben 23 paesi dell’UE. Il risultato degli sforzi dell’Italia fu una chiusura della PDE rapida (e senza dilazioni) rispetto ad altri partner europei, ottenuta, però, al prezzo di una recessione lunga 6 anni: dopo un modesto rimbalzo nel 2010-11, il Pil si ridusse ancora per tre anni di fila e nel 2014 era inferiore dell’8,5% rispetto al 2007: un’austerità non esattamente espansiva. Il debito, di conseguenza, era salito dal 103,9% al 135,4% del Pil.

Nei 5 anni successivi il paese ha attraversato una fase di sostanziale stagnazione, accompagnata da un graduale rilassamento della politica di bilancio. Nulla di particolarmente audace (dal 2014 l’avanzo primario è rimasto più o meno costante intorno all’1,5% e, grazie ad una dinamica favorevole della spesa per interessi, il deficit complessivo si è ridotto dal 3% all’1,6% segnato nel 2019), né di particolarmente strutturato – va detto – dal punto di vista della visione complessiva nell’impiego delle risorse, in uno scenario politico piuttosto fluido. In ogni caso, a dispetto di questo mutato orientamento (tollerato dalla Commissione europea), di una crescita strutturalmente anemica e di una dinamica dei prezzi lontana dall’obiettivo della BCE (il deflatore del Pil è aumentato cumulativamente del 4,7% negli ultimi 5 anni), il 2019 si è comunque chiuso con un rapporto debito/Pil al 134,8%.

Ripercorrere il recente passato non è un vezzo, nel contesto attuale. Perché se è giusto porre l’attenzione – come fanno in molti – sul fatto che, diversamente da altri paesi, l’Italia è entrata in questa drammatica crisi già appesantita da uno stock di debito relativamente alto e da prospettive di crescita non entusiasmanti, è altrettanto importante tenere a mente quale sentiero ci abbia portato, alla fine dello scorso anno, ad avere un prodotto reale pro-capite pari a quello di 20 anni prima e un debito significativamente più alto (circa 26 punti in più). E quanto sta accadendo oggi, in risposta a questa emergenza, pone interrogativi forti a chi sostiene che, nell’affrontare la crisi del decennio scorso, “non c’era alternativa”.

Le diverse previsioni relative al 2020 indicano per l’Italia un crollo del Pil in un intorno del 10%, con un recupero solo parziale durante il prossimo anno; il Pil mondiale si ridurrebbe di circa il 3% (nel 2009 rimase sostanzialmente fermo). A larghe spanne, ciò implica che il solo “effetto denominatore” possa far crescere il nostro rapporto debito/Pil di oltre 13 punti, cui vanno aggiunti qualcosa come 5 punti di Pil di peggioramento del deficit dovuto al ciclo (stabilizzatori automatici), altri 5 punti circa di manovre (DL Cura Italia e DL Rilancio, per il momento) e il deficit già previsto dalla legge di bilancio: nel volgere di 12 mesi, il nostro debito passerebbe dal 135 al 160% del Pil (158,9% la previsione primaverile della Commissione europea).

Al 31 dicembre scorso, il Tesoro prevedeva che nei 12 mesi successivi sarebbero arrivati a scadenza titoli per 315 miliardi che, sommati ai 45 miliardi di fabbisogno previsti dalla legge di bilancio, facevano stimare in circa 360 miliardi il ricorso al mercato. Il Def di Aprile ha dovuto rivedere radicalmente questa prospettiva: il fabbisogno è cresciuto di circa 150 miliardi e le necessità dettate dall’emergenza hanno portato ad un più ampio ricorso delle emissioni a breve termine (Bot a 6 mesi e – come non succedeva dal 2013 – a 3 mesi), che andranno rinnovate nella seconda metà dell’anno (circa 45 miliardi, al 1 giugno scorso). Le emissioni complessive da fare nell’anno supererebbero dunque i 550 miliardi. Si tratta evidentemente di una cifra molto alta, soprattutto in considerazione del fatto che si colloca in un momento storico in cui la sollecitazione del risparmio è fortissima a livello globale, con un’offerta enorme di strumenti, in particolare da parte di emittenti governativi (in vari casi più appetibili dell’Italia come rating, meno come rendimenti).

Eppure, dato il contesto, per il momento si può dire che la situazione appaia più governabile oggi, rispetto alla calda estate di 9 anni fa. Con la stessa fretta con cui il governo, allora, sfornava manovre per reperire risorse (DL 98 e DL 138 del 2011 nel pieno dell’estate, per chiudere l’anno con il cosiddetto Decreto Salva Italia), oggi se ne fanno per spenderne e per cercare di farlo il più velocemente possibile. E in molti sostengono che non sia ancora abbastanza. Nei primi 5 mesi dell’anno, sono stati collocati titoli per circa 230 miliardi di euro (quasi 40 miliardi in più rispetto agli stessi mesi dello scorso anno): la domanda è stata sempre sostenuta, con picchi notevoli nelle procedure diverse dall’asta (i collocamenti tramite sindacato e la recente emissione di un nuovo Btp Italia). I rendimenti nominali sono vicini ai minimi storici in termini assoluti, benché relativamente alti rispetto agli altri paesi europei. E se durante il primo governo Conte lo spread è stato stabilmente intorno ai 250 punti base, dallo scoppio dell’epidemia è salito rispetto ai mesi precedenti, ma senza attestarsi con costanza su un livello del genere; all’inizio di giugno si è tornati sotto quota 200. A questa tendenza fanno eccezione, ovviamente, le tensioni create dalla conferenza stampa seguita al primo consiglio direttivo della BCE presieduto da Christine Lagarde, che ha tenuto a mettere in chiaro sin dall’inizio del mandato che non ritiene essere suo compito quello di “controllare gli spread”: anche mentre una pandemia miete vittime e costringe in casa centinaia di milioni di persone nel continente – quindi nessuno sta facendo “il discolo” – il principio cardine dell’architettura istituzionale europea resta quello della disciplina di mercato. Lo stesso principio che nel 2011, a fronte di una situazione strutturalmente assai meno complicata di quella odierna, lasciò correre lo spread a 600 punti.

Allora l’unica reazione da parte della BCE fu quella di indirizzare all’Italia l’ormai celebre “letterina” del 5 agosto 2011 (curioso paradosso: non risulta che, tra coloro che oggi si preoccupano per il ruolo di “autorità fiscale mascherata” della BCE, qualcuno abbia all’epoca sollevato dubbi circa una bozza di manovra scritta a Francoforte, cui il successivo Salva Italia si sarebbe “liberamente” ispirato). In questo caso, invece, una pioggia di reazioni critiche – anche molto autorevoli – ha spinto il consiglio direttivo a correre abbastanza rapidamente ai ripari, con una serie di “rettifiche” e con il lancio di un nuovo programma di acquisto di titoli (il PEPP), inizialmente quantificato in 750 miliardi complessivi fino a fine anno e incrementato per dimensione e durata con la decisione del 4 giugno scorso. Del resto, a fine maggio gli acquisti complessivi avevano già superato i 230 miliardi, di cui 187 destinati a titoli di stato (di cui il 20% italiani, in eccesso di circa 3 punti rispetto alla propria capital-key).

Si tratta di un intervento rilevante – sebbene, avvenendo sul secondario, non risolva alla radice il problema di garantire sufficiente domanda (a tassi ragionevoli) in fase di collocamento, quindi di assicurare al Tesoro, in qualsiasi momento, tutta liquidità necessaria – che si affianca ad altri e che, secondo alcuni osservatori starebbe “artificialmente sedando” i mercati. In realtà, a voler essere buoni, si può dire che la BCE stia provando semplicemente a fare quello che fanno tutte le banche centrali dei paesi avanzati, pur muovendosi all’interno di un perimetro ben più angusto, disegnato da un mandato più conservativo, dalla riproposizione all’interno dei suoi organi di vertice della dialettica nord-sud cui ci ha abituato la convivenza europea e, non ultime, dalle spinose sentenze dei giudici di Karlsruhe – che, se portate alle loro estreme conseguenze, potrebbero addirittura determinare una sostanziale riduzione degli spazi di manovra utilizzati negli ultimi anni, con effetti dirompenti dato il quadro attuale.

Stabilire in maniera definitiva se la BCE stia eccedendo o meno il proprio (rigido) mandato non è immediato, per ragioni riconducibili al “peccato originale” dei Trattati: la centralizzazione della politica monetaria a fronte di politiche fiscali che restano definite a livello nazionale, in un regime di netta separazione tra i due poteri e di profonde differenze strutturali tra i paesi membri. È un fatto che dal 2013 ad oggi l’obiettivo d’inflazione resti sistematicamente e largamente disatteso, così come è un fatto che i disallineamenti dei rendimenti governativi nei vari paesi rendano più difficoltosa una trasmissione omogenea della politica monetaria nell’area, magari senza riflettere correttamente i fondamentali economici. Su questo punto, è ovvio, non possono esserci certezze. Però, quando non si guardi solo al livello del debito pubblico, alcuni dubbi sorgono. Paesi come Spagna e Portogallo – che negli ultimi anni hanno mostrato più dinamismo dal punto di vista della crescita, ma anche significative fragilità – da più di 2 anni registrano livelli di spread inferiori di oltre l’1% rispetto all’Italia, nonostante si tratti di economie che dal 2007 al 2019 hanno avuto un deficit pubblico rispettivamente pari, in media, al 5,8 e al 4,9% del Pil (2,8% in Italia), che hanno una posizione netta sull’estero decisamente più sfavorevole (a fine 2019, -78 e -101% del Pil, rispetto al -2% dell’Italia) e una ricchezza finanziaria netta del settore privato sostanzialmente nulla, diversamente dall’Italia (-3,9% del Pil in Spagna, +0,7% in Portogallo, +113% in Italia, nel 2018).

Un altro dato di fatto è che, nonostante i limiti citati, nell’attuale assetto istituzionale dell’Eurozona la BCE è l’unica istituzione europea ad avere – almeno per il momento – strumenti di qualche efficacia di fronte a shock di una certa rilevanza. Molti osservatori di peso hanno auspicato l’introduzione di meccanismi strutturali di condivisione del rischio e di stabilizzazione del ciclo per l’area nel suo complesso, che rappresenta il tema politicamente più controverso. Non a caso, il dibattito sviluppatosi intorno alle risposte unitarie da approntare di fronte all’emergenza COVID, pur mostrando qualche passo in avanti rispetto alle posizioni emerse negli anni addietro, non è arrivato finora a proporre soluzioni all’altezza della situazione. Ad esso sarà dedicata la seconda parte di questo intervento.

 

 

* Le posizioni espresse sono dell’autore e non coinvolgono l’istituzione di appartenenza.

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