ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 186/2023

29 Gennaio 2023

Democrazia e futuro del lavoro*

Christophe Sente sostiene che la risposta alla crisi della democrazia rappresentativa debba essere la cittadinanza economica che, nella sua accezione, si ricollega alla democrazia economica come forma di governance delle imprese. Sente illustra le caratteristiche, le modalità di realizzazione e le molteplici positive conseguenze della cittadinanza economica che assegna ai lavoratori un ruolo più incisivo di quello garantito dalla rappresentanza sindacale e ritiene che di essa si discuta più negli Stati Uniti che non in Europa.

Le elezioni in Europa e negli Stati Uniti portano a ripetere il ritornello dolorosamente familiare della crisi della democrazia rappresentativa. Nella ricerca di un rimedio a questo malessere collettivo è tempo di guardare oltre la “crisi della democrazia rappresentativa”. 

Infatti, la disaffezione verso la democrazia rappresentativa è radicata, più che nella contestazione delle procedure elettorali o della loro presunta corruzione, nella convinzione che i sistemi politici nazionali, immersi nella globalizzazione, non possano più garantire il controllo sulle risorse economiche necessarie per la vita di tutti i giorni. 

Per rispondere a queste tendenze inquietanti è necessario un ethos positivo di cittadinanza, complementare al “patriottismo costituzionale”, di fedeltà civica alle istituzioni democratiche, sostenuto da Jürgen Habermas e Jan-Werner Müller, che dovrebbe essere esteso dall’ambito politico al luogo di lavoro, attraverso un riferimento specifico e articolato alla democrazia economica. Per la dipendente che diventasse azionista dell’azienda che la impiega, il termine “cittadina” assumerebbe un significato più ampio, non limitato all’arena politica del voto o del pagamento delle imposte. 

La democrazia economica contesta l’idea che i dipendenti siano esseri umani presi in affitto e assunti per eseguire ordini in cambio di un salario. I dipendenti dovrebbero invece avere diritto di voto e una quota del valore dell’azienda; in un’impresa democratica, essi diventerebbero “cittadini economici”.

Nozione vaga. Questa visione storicamente è stata condivisa da un ampio spettro di soggetti: dai libertari radicali di sinistra ai cattolici conservatori e ai dirigenti d’azienda. Oggi è probabilmente più viva e bipartisan negli Stati Uniti che in Europa, anche se non è dominante nei due principali partiti americani.

In Europa, la cittadinanza economica è diventata una nozione vaga, trascurata per quasi mezzo secolo. I partiti di sinistra e i sindacati dei lavoratori si sono allontanati dalla riforma radicale prevista dal programma di “autogestione” della federazione sindacale francese CFDT alla fine degli anni ’70 e dagli sforzi dei riformatori jugoslavi alla fine degli anni ’60 per allontanarsi dal “socialismo” di stampo sovietico. 

Il pensiero che ha dominato a sinistra a partire dagli anni ’70, dipinge il lavoro come qualcosa da evitare anziché da riformare. La priorità assegnata al diritto di andare in pensione il più presto possibile e alla riduzione dell’orario di lavoro illustrano un atteggiamento di sconfitta piuttosto che di determinazione a democratizzare. La concezione del lavoro come luogo in cui la vita democratica può fiorire – anche se il lavoro è a distanza – è stata, se non del tutto abbandonata, lasciata a piccole imprese utopiche ai margini della società, paradisi in un mondo senza cuore. Di fronte alla formidabile macchina finanziaria dell’economia mainstream e priva di una visione positiva da mettere in campo, la sinistra è costretta alla difensiva: la politica si riduce alla parola no.

Limitato ed elitario. In Europa occidentale, l’idea di cittadinanza economica, quando è emersa, lo ha fatto in una versione limitata ed elitaria. Se le leggi lo prevedono i sindacati rappresentano gli interessi dei lavoratori negli organismi pubblici e privati in cui è riconosciuta la contrattazione collettiva e nei sistemi di welfare, tenendo conto delle specificità nazionali. 

La Mitbestimmung (codeterminazione) tedesca è considerata la versione più avanzata della contrattazione collettiva ma le ambizioni del sistema introdotto nel 1951 sono più modeste di quanto il termine possa far pensare. In Svezia, il modello Rehn-Meidner è la forma più avanzata e diffusa di contrattazione collettiva che è progredita stabilendo anche una complementarità tra politiche industriali e occupazionali; esso è, tuttavia, rimasto confinato alle élite economiche svedesi.

Aver privilegiato i sindacati rispetto alla comunità sovrana dei lavoratori e dei manager dell’impresa, ha indotto i critici a parlare di una presa di potere da parte del movimento sindacale piuttosto che di un passo verso una vera democrazia economica.

Sviluppi promettenti. Negli Stati Uniti, intellettuali progressisti come Gar Alperovitz, David Ellerman e Christopher Mackin ricordano da tempo che la cittadinanza economica è una componente della necessaria riforma della funzione imprenditoriale. Alperovitz sottolinea che la maggior parte dei lavoratori americani sono dipendenti in un rapporto di subordinazione che non ha equivalenti nella sfera politica e sociale ma non invoca una rivoluzione socialista. Egli sposa la classica tesi liberale della compatibilità tra libertà d’impresa e interesse del maggior numero di persone, aggiungendo una condizione: la libertà dell’impresa deve nascere dalla cittadinanza economica, garantita dalla riforma del diritto societario e dai finanziamenti necessari.

Queste posizioni critiche non sono esclusive della sinistra, a cui appartengono Alperovitz e Noam Chomsky. Le rivendica anche chi, come Ellerman, si rifà a una scuola di pensiero emergente, democratica, classico-liberale o “neo-repubblicana”. Il liberalismo democratico classico, definito anche repubblicanesimo del lavoro, si concentra sull’illegittimità dello schema datore di lavoro-lavoratore. Esso giustifica la democrazia economica a livello di impresa con i diritti inalienabili di responsabilità umana, attualmente violati, che dovrebbero essere realizzati nell’impresa creando strutture democratiche di lavoro non subordinato. 

Capacità umane. Questi approcci americani contribuiscono a sottrarre l’idea di sovranità economica a una visione ristretta e ‘nativista’ e promuovono una concezione costruttivista e “pro-produttore” del lavoro, inteso come dimensione della vita da coltivare per sviluppare le capacità umane. Entrambi i principali partiti americani possono sostenere questi approcci. I repubblicani, perché queste idee incoraggiano l’autonomia individuale e l’accumulazione di ricchezza, senza ricorso all’aiuto dello Stato; i democratici, perché la proprietà condivisa può evitare la dipendenza dei lavoratori dai salari e permettere loro di iniziare a condividere la ricchezza del capitalismo.

Nelle imprese statunitensi, i metodi per l’inclusione sono diversi. Ci sono i Piani di azionariato dei dipendenti, che danno incentivi fiscali alle imprese per assegnare consistenti quantitativi di azioni a trust legali, a beneficio dei manager e di tutti i lavoratori che non devono rischiare il capitale che eventualmente possiedono. Queste imprese, con le loro migliori performance, mostrano i vantaggi di una cultura imprenditoriale in cui gli interessi dei proprietari e dei dipendenti sono comuni. C’è poi il settore cooperativo tradizionale che gode di un sostegno bipartisan al Congresso. Diversamente dall’Europa, negli Stati Uniti esiste un numero impressionante di associazioni no-profit, fondazioni cooperative e mutue che sostengono queste idee.

Una delle principali studiose europee di questo tema, Isabelle Ferreras – ricollegandosi a Andrè Gorz e all’autogestione in Francia degli anni ’70 – ha riportato la democrazia economica all’ordine del giorno. Il suo lavoro mette in luce le contraddizioni tra lo status di sottomissione tipico del salariato e le costituzioni europee che esprimono ideali di libertà.

Finora Ferreras si è occupata meno della ristrutturazione della proprietà dell’impresa ed ha, invece, richiamato l’attenzione – insieme a Dominique Meda – sui meccanismi della ‘voice’, della protesta, e ha proposto – ispirandosi al bicameralismo parlamentare – il rafforzamento della rappresentanza dei lavoratori nel processo decisionale delle imprese. 

Nel Belgio degli anni Trenta Henri de Man, il padre della pianificazione socialdemocratica, tentò di riservare la camera alta del Parlamento alla rappresentanza socio-economica, ma l’idea fu rapidamente abbandonata dal partito socialista. In Francia, l’idea di un parlamento economico nazionale trovò una realizzazione molto parziale nel Conseil économique et social.

A differenza del modello americano, la democratizzazione dell’impresa in Europa si è basata su una serie di organi consultivi che possono favorire la ‘voice’ e non sulla trasformazione dell’impresa in un’entità democratica, posseduta e controllata dai lavoratori e dai manager. Di conseguenza, i modelli europei non permettono di recuperare sovranità economica nazionale e sovranazionale facendo leva sulla cittadinanza dei produttori come condizione per una politica industriale dinamica.

Gli alleati sono i benvenuti. Come ci insegnano l’esperienza e la letteratura americana la politica non dovrebbe erigere semplicistici steccati morali intorno a idee inclusive e democratiche che iniziano a circolare e che possono avere un forte appeal politico. La cittadinanza economica non dovrebbe essere confinata tra le utopie comuniste o nel vocabolario performativo delle “economie sociali e solidali” che dominano queste discussioni in Europa.

Gli alleati dovrebbero essere ben accolti, a prescindere dalle mode ideologiche, e possono provenire da luoghi inaspettati, incluso il mondo degli affari e della finanza. Concretamente, l’esercizio della cittadinanza economica nell’impresa presuppone due condizioni: il possesso di quote di capitale e l’esercizio dei diritti ad esse associati. La prima permette a ogni lavoratore di essere al tempo stesso proprietario e produttore. La seconda consente di partecipare alla gestione di un’impresa comune. Quest’ultima condizione costituisce un passo avanti nella responsabilizzazione dei cittadini, sottraendoli a un modello di vita per lo più passivo, come spettatori che si limitano, in quanto dipendenti, a fare richieste e, in quanto consumatori, a rispondere alla pubblicità e ai segnali di prezzo.

Inoltre, la cittadinanza economica non dovrebbe essere limitata al ristretto ambito dei lavoratori che sono anche investitori. Associati nelle imprese e attivi nei luoghi di lavoro come cittadini pensanti, i lavoratori acquistano consapevolezza della natura del loro contributo all’esercizio della sovranità economica a livello dell’impresa. Questo li coinvolge come partecipanti alle decisioni collettive relative al tipo, alla qualità e alla quantità di beni o servizi da produrre.

Da tempo in voga nel discorso manageriale, la “responsabilità sociale di impresa” può trovare un senso solo se estesa a lavoratori e dirigenti e acquisisce una dimensione politica autenticamente democratica solo se i rappresentanti delle imprese assumono il ruolo di soci e proprietari legali in grado di assicurare il coordinamento e di organizzare la sovranità economica nella programmazione industriale necessaria alle imprese per orientarsi in un’economia di mercato su larga scala.

La sovranità economica basata sulla democratizzazione delle imprese non richiede, quindi, la nazionalizzazione o l’esproprio. Non deve essere ridotta a narrazioni semplicistiche che incoraggiano il conflitto perpetuo tra lavoratori virtuosi e padroni malvagi. L’intervento delle autorità pubbliche e il trasferimento dei diritti di proprietà possono avvenire in relativa tranquillità grazie all’educazione e a adeguati incentivi fiscali. Lo Stato svolge un ruolo catalizzatore di sostegno, pur conservando i tradizionali poteri normativi – fortemente negativi (cioè di limitazione delle libertà, NdT), per proteggere l’interesse pubblico. Il potere positivo dovrebbe risiedere a livello di impresa democratica.

Procedure di conversione. Le due principali procedure a disposizione degli attori economici per avviare la conversione possono essere messe in atto dalla società civile. Come dimostra l’esperienza americana, la prima consiste nel sostenere le nuove imprese raccogliendo capitali in fondi di investimento che consentano ai lavoratori e ai manager di acquisire le aziende dagli attuali proprietari a prezzi di mercato. Questo approccio può essere rafforzato con prestiti garantiti dallo stato, utilizzando le reti bancarie private esistenti.

La seconda procedura consiste nell’incoraggiare l’assegnazione di quote di capitale ai lavoratori, da acquistare o da ricevere come parte della loro retribuzione annuale. Duverger ha sottolineato che, a questo scopo, si può ricorrere a “fondi di conversione” che non devono essere necessariamente finanziati soltanto dallo Stato. Le conversioni possono essere graduali, in quanto le azioni dei dipendenti crescono nel tempo, o pienamente effettive e transazionali, quando i dipendenti e i manager lanciano offerte per acquisire il controllo delle imprese attraverso negoziazioni, come avviene abitualmente nel mercato delle fusioni e acquisizioni.

La democrazia economica non deve necessariamente nascere solo da piccoli semi, come nel caso della maggior parte delle imprese cooperative. Può anche avvenire in modo efficiente e su ampia scala riconvertendo imprese consolidate e acquisite grazie a incentivi fiscali e garanzie governative.

Vantaggi pratici. La democratizzazione dell’impresa comporta tre vantaggi pratici. Il primo, già menzionato, è l’aggregazione del capitale necessario per preservare la costituzione democratica dell’impresa. Una volta democratizzata, l’impresa non è più proprietà di una minoranza, ma rimane orientata – essendo anche meglio capitalizzata – verso la ricerca del successo economico nel contesto di un’economia di mercato.Il secondo vantaggio della democratizzazione economica è la risposta al “silver tsunami” cioè l’invecchiamento dei proprietari delle piccole e medie imprese. Circa il 20% dei dirigenti delle PMI in Francia ha più di 60 anni, e la situazione non è diversa nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. Pianificando l’acquisizione efficiente di un’impresa da parte dei suoi dipendenti, si può evitare una vendita strategica in una logica puramente finanziaria, che incide sui posti di lavoro e sul reddito delle comunità locali.

Il terzo vantaggio è il contributo alla diversificazione delle forme di impresa in un’economia di mercato, il cui dinamismo dipende anche dalla varietà dei modelli di governance. Ricerche condotte negli Stati Uniti mostrano che man mano che il processo di partecipazione e coinvolgimento viene affinato attraverso la sperimentazione e l’educazione, le imprese a proprietà e governo inclusivo vinceranno la competizione con modelli convenzionali di impresa.

La riforma delle imprese nella direzione della democrazia economica è la soluzione a tutti i mali di un’epoca caratterizzata dall’indebolimento della pace civile all’interno degli Stati e da rinnovate tensioni economiche e militari tra le nazioni? Solo un imbroglione o un ingenuo potrebbe affermarlo. La democratizzazione dell’impresa non è né un gadget elettorale né una pozione magica. D’altra parte, non va sottovalutata la sua capacità di rispondere al malessere politico del nuovo millennio e all’assenza di regia per la “mano invisibile”.

Incoraggiare la fiducia sociale. L’opportunità più importante che offre è senza dubbio la promessa di restituire ai cittadini, in un contesto che tende nuovamente alla piena occupazione, i mezzi per influenzare non solo l’evoluzione del proprio reddito e del tempo di lavoro, ma anche l’orientamento della società. Corey Rosen, fondatore del National Center for Employee Ownership, sostiene che la proprietà condivisa dell’impresa favorisce l’emergere della fiducia sociale al di là dei confini di classe e culturali. Questa affermazione è rivolta alla politica polarizzata che ha recentemente contagiato la cultura americana.

L’esperienza di fiducia sociale resa possibile dal coinvolgimento dei dipendenti a livello aziendale favorisce abitudini democratiche che accompagnano i lavoratori anche nella sfera civica. L’etica della responsabilità appresa sul lavoro può applicarsi anche ai lavoratori come cittadini. In questo modo, il futuro dell’ambiente cessa di essere un’astrazione e diventa, secondo la frase di Ernst Renan sull’identità nazionale, una questione di “plebiscito quotidiano”.


* Una versione più ampia di questo articolo è stata pubblicata su Social Europe, il 4 gennaio scorso. https://www.socialeurope.eu/democracy-and-the-future-of-work

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