Negli ultimi mesi, a partire dalla pubblicazione dei dati INPS sulle dimissioni volontarie dei lavoratori, si è aperto un dibattito su quanto sta accadendo nel mercato del lavoro italiano. Nonostante le ampie differenze strutturali e congiunturali che caratterizzano Italia e Stati Uniti, molti hanno assimilato le dinamiche in corso nel nostro paese al fenomeno americano della “Great resignation” – ovvero la crescita inattesa di dimissioni volontarie. In questo contributo si esplorano i principali dati messi a disposizione dalla statistica ufficiale in Italia alla ricerca di indizi che permettano di fare un po’ di chiarezza sull’argomento.
I dati sulle Cessazioni per dimissioni per il II trimestre del 2022 riportano un numero di dimissioni prossimo alle 568 mila unità, un valore decisamente superiore a quanto registrato nei trimestri precedenti, caratterizzati dalle condizioni particolari generate dalla pandemia, ma anche superiore di circa 135mila unità a quello registrato nel IV trimestre 2019. Di tali cessazioni oltre la metà (55,3%) riguardano contratti a tempo indeterminato e quasi un quarto (23,8%) contratti a tempo determinato. Le cessazioni per dimissioni di contratti in somministrazione e apprendistato si aggirano intorno al 15% equamente distribuito, così come è equamente distribuito tra stagionali e contratto intermittente il restante 7%. I settori dove il tasso di dimissioni (calcolato come dimissioni su mille occupati dipendenti) ha raggiunto i livelli più alti sono: servizi per le imprese (che includono le professioni tecniche e scientifiche e le attività immobiliari), costruzioni, commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di autoveicoli e motocicli, trasporto e magazzinaggio e servizi di alloggio e di ristorazione.
Analizzando l’intera serie storica, disponibile a partire dal 2014 (Figura 1), si osserva che la dinamica di crescita del tasso di dimissioni sembra essere iniziata, al netto delle oscillazioni stagionali, a partire dal II trimestre 2016. Questa evidenza sembrerebbe far propendere per l’ipotesi che il recente forte aumento delle dimissioni sia legato alla maggiore fluidità di un mercato del lavoro in ripresa piuttosto che agli effetti dell’esperienza pandemica sulle preferenze individuali, come invece si suppone sia accaduto nella cosiddetta Great resignation americana.
Figura 1: Rapporto tra dimissioni e occupati dipendenti (quit rate)- Gennaio 2014 – Giugno 2022 (valori per 1000 occupati, barre blu, asse sx, e variazioni sul mese precedente, linea rossa, – asse dx)
Fonte: Elaborazione su dati Inps, Osservatorio sul precariato e Istat, Rilevazione Forze di Lavoro
D’altro canto, la ripresa del mercato del lavoro dopo la crisi economica generata dalla pandemia manifesta i suoi effetti anche attraverso la crescita del tasso di posti vacanti, ovvero l’aumento dei posti di lavoro retribuiti per i quali le imprese sono attivamente alla ricerca di personale. Anche la crescita delle ‘vacancies’ appare in atto almeno dal I trimestre 2016 (Figura 2). Il tasso per l’economia nel suo complesso ha superato nel secondo trimestre 2022 il 2%, con un incremento di 0,7 punti percentuali (pp) sul IV trimestre 2019. È il settore delle costruzioni a registrare la dinamica più spinta, che ha portato il tasso di posti vacanti a raggiungere il 3,2% (+1,1 sul IV trimestre 2019), seguito dai servizi, il cui tasso supera la soglia del 2% (+0,7 pp sul IV trimestre 2019), mentre l’industria, escluse le costruzioni, si ferma all’1,7% (+0,6 pp sul IV trimestre 2019).
All’interno dei servizi di mercato le branche in cui l’indicatore ha raggiunto nel II trimestre 2022 i livelli più alti sono: servizi di alloggio e ristorazione (3,5%), attività professionali scientifiche e tecniche e servizi di informazione e telecomunicazione (entrambe al 2,7%), attività artistiche, sportive e di intrattenimento (2,6%).
Figura 2: Tasso di posti vacanti per divisione – T1:2016-T2:2022 (valori percentuali)
Fonte: Istat
Un altro indicatore utile a monitorare la difficoltà delle imprese a reperire manodopera si riferisce alle imprese che dichiarano di incontrare ostacoli nella produzione a causa delle scarsità di manodopera (Figura 3). Nel settore manifatturiero queste sono passate dall’1% del I trimestre 2016 al 5,6% nel III trimestre 2022, raggiungendo un picco del 7% nel II trimestre di quest’anno. Nello stesso arco di tempo fra le imprese che operano nel settore dei servizi quella quota è passata dal 6% al 16% (con un picco pari addirittura al 22% nel II trimestre di quest’anno). All’interno del settore alcuni comparti hanno registrato valori a volte anche ben al di sopra della media e dell’ordine del 50%; in particolare si tratta di servizi di produzione di software, consulenza informatica e attività connesse, servizi di vigilanza e investigazione, servizi per edifici e paesaggio e le attività di ricerca, selezione e fornitura di personale. Dunque, in genere, sono imprese di servizi che fanno uso di manodopera con alti livelli di capitale umano. I dati, solo mensili, sul settore delle costruzioni descrivono una dinamica altrettanto drammatica con la quota di imprese che dichiarano di avere incontrato ostacoli alla produzione salite dall’1,5% del febbraio 2019 al 17,5% di ottobre 2022.
Figura 3: mprese che dichiarano ostacoli alla produzione a causa della mancanza di manodopera – T1:2016-T3:2022
(valori percentuali sul totale delle imprese che dichiarano ostacoli alla manodopera)
Fonte: Istat; Climi di fiducia delle imprese
Per spiegare le tendenze in atto, si potrebbe ipotizzare che la ricomposizione demografica e sociale della forza lavoro abbia fatto mancare offerta di lavoro in determinati settori; ma, non essendo disoccupazione e livelli di attività valutabili per ciascun settore produttivo, questa tesi appare difficilmente dimostrabile. Tuttavia, qualcosa a riguardo si può dire esaminando i dati sulla forza lavoro e la sua composizione per classe di età e genere (Figura 4). Innanzitutto, i livelli pre-pandemici dell’offerta di lavoro complessiva (occupati più disoccupati) non sono stati recuperati (si contano circa 400 mila unità in meno su più 25 milioni). Questo è vero in particolare per alcune categorie di lavoratori. Fatto 100 il valore del IV trimestre 2019 hanno rapidamente recuperato i livelli di partecipazione al mercato del lavoro pre-pandemici i maschi e le femmine over-50, che comunque, tutelati da contratti migliori, avevano registrato la flessione più lieve. La caduta più intensa è stata subita dai giovani, in particolare le donne di età 15-34, ma sia i maschi che le femmine di questa fascia di età hanno quasi recuperato i livelli pre-crisi. I lavoratori di età compresa tra i 35 e i 50 anni hanno sperimentato un calo intermedio e un recupero più lento e sono, per ambo i generi, quelli più lontani dai livelli dei IV trimestre 2019.
Figura 4: Forze di lavoro per sesso e classe di età – T1:2016-T2:2022 (valori assoluti – asse destra – e valori percentuali T4:2019=100)
Fonte: Elaborazioni su dati Istat, Forze di lavoro
Un’ulteriore evidenza che emerge da una lettura, seppur puramente descrittiva, dei dati a disposizione è che i settori nei quali le imprese più faticano a trovare manodopera coincidono, almeno in parte, con quelli in cui le dimissioni sono risultate più alte e sono anche quelli che hanno avuto una dinamica di crescita più spinta negli ultimi anni, soprattutto negli ultimi trimestri (Figura 5).
Figura 5: Valore aggiunto valori concatenati (2015) prezzi base per branca di attività – T1:2016-T2:2022 (variazione percentuale)
Fonte: Istat, Conti nazionali
La curva per l’Italia segnala, in effetti, un cambiamento strutturale avvenuto nel nostro mercato del lavoro (così come in molti altri paesi Europei) in seguito alla doppia crisi finanziaria e dei debiti sovrani che ha portato ad un peggioramento dei livelli di disoccupazione frizionale (Figura 6). La curva si sarebbe spostata verso nord est, regione nella quale agli stessi valori dei posti vacanti corrisponde una più alta disoccupazione, fatto questo che segnala appunto un inasprirsi delle già note difficoltà del nostro sistema a mettere insieme domanda e offerta di lavoro, con peggioramento dell’operatività delle imprese, da un lato, e delle condizioni della forza lavoro, dall’altro.
Figura 6: Curva di Beveridge (in ascissa il tasso di disoccupazione in ordinata il tasso di posti vacanti) – T1:2006-T2:2022 (valori percentuali – medie mobili sul trimestre)
Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat
Questo rapido excursus delle principali fonti statistiche sul mercato del lavoro ci mostra che la dinamica di crescita delle dimissioni volontarie, da cui siamo partiti, è una dinamica di medio periodo associata alla ripresa del mercato del lavoro dopo la crisi del 2011. Anche guardando al breve periodo si nota una coincidenza tra i settori in cui le dimissioni sono cresciute e quelli che negli ultimi trimestri sono stati caratterizzati da una maggiore vivacità economica: in primis le costruzioni ma anche molti servizi ad alta intensità di capitale umano e i servizi di alloggio e ristorazione. La rinnovata dinamica economica genera naturalmente maggiori opportunità lavorative, e questo induce le persone, in particolare quelle dotate di alti livelli di capitale umano, ad avere una certa fiducia nella possibilità di trovare un nuovo lavoro a condizioni migliori. Allo stesso tempo le attività economiche di questi stessi settori sono quelle che fanno più fatica a recuperare la manodopera necessaria a stare al passo con il ciclo economico favorevole. Questa scarsità di manodopera può essere forse in parte ricondotta ad un assottigliarsi della forza lavoro che non ha recuperato i livelli pre-pandemia. Mancano all’appello 400 mila unità e questo può essere riconducibile o a pensionamenti non rimpiazzati a causa delle note dinamiche demografiche in atto nel Paese o alla fuoriuscita di persone che non sono ancora state in grado di ricollocarsi utilmente sul mercato. Tuttavia, queste suggestioni rimangono tali vista la mancanza di informazioni quantitative adeguate e immediatamente disponibili utili a dare risposte in merito. Quello che invece i dati sembrano confermare, attraverso la lettura della curva di Beveridge, è il progressivo irrigidimento dei meccanismi di incontro tra la domanda e offerta di lavoro che le politiche introdotte negli ultimi anni non sembrano riuscite minimante a scalfire.