Il lavoro autonomo, o indipendente, ha subito negli anni recenti profonde trasformazioni nelle economie più avanzate, il suo peso si è ridotto nel settore agricolo ed è aumentato nei servizi e, in alcuni paesi, finanche nel settore pubblico. La platea degli indipendenti è arrivata a comprendere, oltre alle tradizionali categorie dei professionisti, dei commercianti e degli artigiani, molti soggetti caratterizzati da un rapporto di lavoro sostanzialmente di tipo subordinato, malgrado siano reclutati attraverso contratti individuali, che offrono minore protezione degli accordi collettivi. Queste forme di occupazione, molto diffuse nella cosiddetta “gig economy”, rappresentano ormai in alcuni paesi la via di accesso al mercato del lavoro più frequente per i giovani e per le categorie svantaggiate. Una valutazione accurata dei redditi dei lavoratori indipendenti è dunque cruciale per comprendere la dinamica della distribuzione del reddito tra i fattori produttivi e tra settori, nonché della redditività e competitività delle imprese.
Nell’Unione Europea nel 2017, tra i lavoratori indipendenti, l’8% poteva essere catalogato tra i dipendenti “nascosti” e il 17% era caratterizzato da particolare vulnerabilità. Complessivamente, si tratta del 4% circa della forza lavoro totale, con una distribuzione molto differenziata tra i paesi (per le informazioni sull’UE, cfr. il rapporto Eurofound, Exploring self-employment in the European Union, 2017). I lavoratori indipendenti sono stati particolarmente colpiti dalla crisi, sia per la maggiore concorrenza in alcune professioni, in concomitanza con gli effetti delle nuove tecnologie e dell’allargamento del mercato a competitori globali, sia perché le trasformazioni strutturali nei sistemi di produzione e le difficoltà cicliche del mercato del lavoro sono state scaricate soprattutto sulla parte più debole, e quindi più flessibile, dell’offerta di lavoro, ovvero i soggetti caratterizzati da rapporti contrattuali più precari.
Il metodo standard per la stima dei redditi degli autonomi consiste nell’attribuire loro la stessa retribuzione unitaria dei dipendenti che svolgono mansioni analoghe. Tuttavia questa ipotesi si rivela troppo ottimistica in una economia in cui gli indipendenti rappresentano sempre più il segmento più debole del mercato del lavoro. Se si valuta correttamente il contributo delle attività indipendenti, il reddito da lavoro complessivo presenta una maggiore volatilità – anche a causa di una maggiore variabilità delle ore lavorate – e, in molti paesi, emerge una flessione della quota del lavoro sul prodotto (labour share), suscettibile di generare una maggiore diseguaglianza. Eppure tale questione è rimasta sinora relativamente poco approfondita, anche perché le stime tradizionali della quota del lavoro sul prodotto tengono conto soltanto della dinamica dei salari dei dipendenti.
Nella contabilità nazionale il reddito dei lavoratori indipendenti non è indicato come una specifica forma di reddito, diverso da quello dei lavoratori dipendenti e dai profitti, ma è incluso nel cosiddetto “reddito misto” (da capitale e da lavoro) e in alcune altre specifiche voci. Utilizzando i conti settoriali raccolti dall’OCSE è possibile calcolare almeno cinque stime alternative del reddito dei lavoratori indipendenti:
- STD (standard), in cui il numero di lavoratori indipendenti (o le ore lavorate dagli stessi) viene moltiplicato per la retribuzione media unitaria dei dipendenti (eventualmente tenendo conto della composizione settoriale). In questo modo si trascurano le informazioni sul reddito misto e si adotta un’ipotesi – medesima retribuzione per dipendenti e indipendenti – poco plausibile. In molti casi, la stima STD supera addirittura l’intero ammontare del reddito misto, di cui dovrebbe rappresentare solo una parte, creando una palese incongruenza con le stime del Pil. Tale metodo è tuttavia quello più utilizzato a livello internazionale.
- ALL, in cui viene attribuita agli autonomi l’intero ammontare del reddito misto. In tal modo si ignorano le possibili variazioni nel tempo e tra i paesi del rapporto tra reddito misto da lavoro e quello da capitale, nonché il ruolo delle piccole imprese.
- ATK (Atkinson, 1983), nel quale si ipotizza che il reddito misto abbia la stessa proporzione di lavoro e profitti del resto dell’economia, ossia (salari)/(valore aggiunto – reddito misto)= (remunerazione dei lavoratori indipendenti)/(reddito misto).
- NET, in cui si assume che le piccole imprese incluse nel settore delle famiglie realizzino lo stesso mark-up sui costi delle società non finanziarie. Il reddito da lavoro indipendente si ottiene per per differenza tra il risultato lordo di gestione e la stima del ricarico. Dal calcolo si escludono i fitti imputati delle abitazioni di proprietà. Così si tiene conto delle variazioni nel tempo e tra paesi della profittabilità; tuttavia, poiché questa è probabilmente più elevata per le società rispetto alle piccole attività, la stima rappresenta un limite inferiore per il reddito da lavoro autonomo.
- AVG è la media semplice delle tre stime alternative ALL, NET e ATK.
La labour share. La Figura 1 mostra la dinamica della quota del lavoro in 8 paesi OCSE dal 1995. Come ci si attendeva (cfr. IMF, 2017, World Economic Outlook, Gaining Momentum?, April 2017), questa tendenzialmente diminuisce (Stati Uniti, Giappone, Germania, Paesi Bassi, Spagna) oppure oscilla (Francia, Italia), tranne che nel Regno Unito dove è crescente.
La differenza tra le diverse stime adoperate è più marcata per alcuni paesi, ad esempio la Spagna, principalmente a causa della dinamica negli anni in cui è scoppiata la Grande Recessione (Tavola 1). Come sopra accennato, è probabile che il reddito nominale di professionisti, commercianti e artigiani sia stato colpito dalla crisi più di quello dei lavoratori dipendenti mentre la fascia dei precari è quella che più facilmente ha perso il lavoro o ha subito un ridimensionamento delle ore lavorate e della remunerazione. In Francia, Paesi Bassi e Italia l’effetto è stato minore e meno concentrato negli anni della crisi. Si è avuto un calo della quota STD del lavoro, seguito da una risalita, conclusasi tra il 2010 e il 2015 e dovuta ad un aumento della quota dei redditi da lavoro dipendente sul valore aggiunto al costo dei fattori. Le stime alternative ALL e NET invece mostrano anche in questo periodo un andamento piatto o decrescente (Figura 1).
Fig 1- Quota del lavoro sul valore aggiunto al costo dei fattori
Fig.2 – Il CLUP (numeri indici, base 2000)
Anche allargando il numero di paesi (Fig. 3), il Giappone resta l’unico con una diminuzione del CLUP dopo il 2000. Nella maggior parte dei casi, la crescita media annua del CLUP appare inferiore se calcolata con il metodo AVG rispetto a quello STD. Per Spagna, Paesi Bassi, Estonia, Grecia, Italia e Slovenia la differenza annua è di almeno 0,3 punti percentuali. Invece in Austria, Svezia, Stati Uniti, Portogallo, Svizzera, Repubblica Slovacca e Polonia l’aumento calcolato con AVG è maggiore.
Fig. 3 – Crescita media annua del CLUP dopo il 2000
In un paper di prossima pubblicazione si dimostra empiricamente che le stime non standard consentono di prevedere meglio il livello e la dinamica di alcune variabili di riferimento come la disuguaglianza (indice di Gini), l’inflazione e la quota di esportazioni sul Pil, come mostrano alcuni test di encompassing condotti su modelli molto tradizionali (i cui risultati sono riportati in un paper in via di pubblicazione). Ciò farebbe pensare che l’uso di indicatori non-standard migliorerebbe sensibilmente l’accuratezza delle analisi sui differenziali tra i diversi paesi in termini di disuguaglianze, inflazione e di competitività.
Queste evidenze dovrebbero incoraggiare gli uffici di statistica a fornire stime migliori del reddito dei lavoratori autonomi e gli economisti a tenerne conto nelle comparazioni internazionali e nella spiegazione dei fenomeni macroeconomici. Si tratta di un aspetto cruciale in una economia sempre più caratterizzata dal ridimensionamento delle forme di lavoro dipendente tradizionale e, di conseguenza, del ruolo dei salari nella composizione del Pil, nella determinazione delle condizioni di vita delle famiglie e nella valutazione comparativa dei costi e dei profitti delle imprese nei diversi settori.
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