Disuguaglianza, Democrazia e Globalizzazione

Michele Alacevich e Anna Soci, riprendendo i temi trattati nel loro libro, Breve storia della disuguaglianza, si concentrano su due tra i vari problemi connessi alla disuguaglianza: la sfida alla democrazia e gli squilibri globali messi in atto dalla disuguaglianza economica. I due autori sostengono che la riflessione sulla democrazia è fondamentale per capire le dinamiche della disuguaglianza interna alle nazioni, così come l’analisi degli squilibri globali è cruciale per comprendere le forme della disuguaglianza internazionale.

Breve storia della disuguaglianza, ora riproposto dalla stessa casa editrice Laterza che lo pubblicò in prima uscita in Italia nell’Aprile del 2019, è la traduzione della versione americana Inequality – A Short History, pubblicata nel 2018 dalla Brookings Institution Press.

Quando iniziammo a scrivere, il tema della disuguaglianza stava letteralmente esplodendo, in termini di analisi, visibilità pubblica e fonti. Che la disuguaglianza interna, soprattutto negli Stati Uniti, fosse in aumento fin dagli anni Settanta era noto. Ma la visibilità pubblica del tema esplose anche in seguito alla crisi del 2007-08, le proteste di Occupy Wall Street, e la pubblicazione di volumi di enorme e inaspettato successo come Capital in the XXI Century di Thomas Piketty. Da alcuni anni, inoltre, nuovi data-set basati su dati sempre più disaggregati permettevano analisi prima impossibili. I nostri interessi – di economista e di storico economico – trovarono convergenza sul bisogno di capire perché la disuguaglianza fosse stata sostanzialmente assente dal panorama della teoria economica – impedendo così una valutazione del suo impatto non solo economico, ma anche politico e sociale – e come si snodasse la complessa dinamica che connette i due aspetti della disuguaglianza – quello “between” e quello “within countries” – al fenomeno della globalizzazione.

Il libro non tratta – non potrebbe per ragioni spazio e, soprattutto, di competenze degli autori – gli aspetti filosofici, sia di filosofia morale sia di filosofia del diritto, collegati al concetto di uguaglianza rispetto al quale è unicamente definito quello di disuguaglianza. Né tratta di specifiche disuguaglianze sociali, quali quella di genere, ad esempio. Oggetto del libro è la sola disuguaglianza economica, nuovamente per motivi ricollegabili alle professionalità degli autori, ma anche per la sua indubbia rilevanza, poiché, a nostro avviso, la si può ben ritenere come “la madre di tutte le disuguaglianze”. Particolarmente drammatici, infatti, sono alcuni suoi effetti sociali quali la minore mobilità intergenerazionale che essa provoca, o la progressiva erosione dei diritti collegati alla salute e all’istruzione, mentre non meno lievi sono i suoi effetti economici in senso stretto, quale un ridotto motore della crescita. E drammatica pare una conseguenza di tutto ciò, di cui le società occidentali iniziano ad avere sentore, ovvero il rischio del progressivo distacco da un sentimento di cittadinanza attiva, e dalle istituzioni da cui ci si sente abbandonati. Né va dimenticato che la congiunzione tra disuguaglianza e globalizzazione ha prodotto conseguenze molto diverse nei diversi paesi, spesso con risultati diametralmente opposti su gruppi apparentemente simili. Pensiamo, per tutti, alla crisi della classe media nelle economie avanzate, visibile a livello nazionale, e alla contemporanea ascesa di una nuova classe media globale, primariamente formata da gruppi in ascesa nei paesi emergenti, come la famosa “curva dell’elefante” di Lakner e Milanovic ci ricorda (Lakner e Milanovic, Global Income Distribution: From the Fall of the Berlin Wall to the Great Recession, 2013, World Bank Policy Research Working Paper No. 6719). Con questa premesse, la nostra scelta è stata quella di selezionare, dall’ampio ventaglio dei problemi connessi alla disuguaglianza, due soli aspetti: la sfida alla democrazia e gli squilibri globali messi in atto dalla disuguaglianza economica, quali esempi per eccellenza di disuguaglianza interna alle nazioni, il primo, e tra le nazioni, il secondo.

Il primo ci ha portato nel campo della teoria politica, là dove gli studiosi della democrazia ci dicono che essa non promette l’uguaglianza economica, bensì la sola uguaglianza politica, e, dunque, in linea di principio, democrazia e disuguaglianza economica possono convivere, a meno che quest’ultima non arrivi a compromettere l’uguaglianza politica e, da qui, ad indebolire la qualità della democrazia, con ripercussioni sul comportamento politico dei cittadini. La partecipazione effettiva e non solamente formale, la chiara comprensione dei problemi di interesse generale e il controllo sull’agenda politica, ad esempio, sono ritenuti aspetti fondanti di una democrazia sostanziale. Se vengono violati, chi ne risente è, appunto, l’uguaglianza politica. Un deficit di partecipazione attiva, infatti, emerge ogni volta che una parte della popolazione è tagliata fuori dalle modalità attraverso cui vengono prese le decisioni collettive, che poi determinano, a loro volta, le politiche che saranno effettivamente adottate. Le modalità attraverso cui questo può accadere – il vero inizio della storia, potremmo dire – possono essere rinvenute negli effetti della disuguaglianza economica poiché i ricchi hanno molti modi per proteggere la loro posizione e i loro interessi e, lungi dal risultare emarginati dai processi decisionali, arrivano ad esercitare un vero e proprio potere de facto.

In primo luogo, c’è ora un sufficiente accordo sul fatto che la disuguaglianza economica rallenti la crescita per molti motivi. Il fallimento empirico se non anche teorico della efficacia del “trickle down” – una percolazione verso il basso di ciò che di positivo avviene nelle zone di vertice di una economia – assieme alla messa in sordina del principio per cui, in una economia di mercato, la disuguaglianza riflette le reali capacità o incapacità delle persone e le loro differenze naturali a condizione che tutti abbiano almeno ricevuto pari opportunità – occasione difficilmente riscontrabile nella realtà – hanno lasciato il posto ad una valutazione critica dell’odierno sistema capitalistico. Salari bassi e stagnanti assieme a remunerazioni stellari dei vertici aziendali che, ancorati a una visione esclusivamente di breve termine ed egoistica, non perseguono guadagni di produttività ma il loro arricchimento personale, nonché la crescente finanziarizzazione dell’economia e un sistema bancario sempre più incline ad abdicare al proprio ruolo istituzionale di intermediazione del risparmio, a partire almeno dagli anni ’80 hanno portato a deregolamentazioni e politiche fiscali sempre meno progressive, allargando la forbice tra i ricchi e i meno abbienti. L’aumento della disuguaglianza ha ostacolato la formazione intellettuale, troppo costosa per le famiglie a basso reddito, portandola poi in un circolo vizioso ad essere considerata sempre meno importante da chi ha bassi livelli di istruzione. Quando le limitazioni al credito, che si fa sempre più esigente ed esclusivo, vincolano le persone senza beni tangibili nella loro capacità di indebitamento diminuendo se non negando la possibilità di investimenti in capitale umano, ciò significa che la disuguaglianza avrà ricadute sulla crescita. I figli resteranno nella stessa fascia di reddito dei padri, l’ascensore sociale legato al merito si incepperà, la riduzione, e talvolta la privazione del benessere materiale e immateriale, provocherà importanti segnali di disagio sociale quali malattie, comportamenti autolesionisti fino al suicidio, criminalità strisciante.

Il secondo aspetto trattato nel libro è quello degli squilibri globali messi in atto dalla disuguaglianza economica. Il rapporto tra globalizzazione e disuguaglianza è complesso, sia per la sua dimensione internazionale che per quella interna alle nazioni. In un famoso articolo del 1986, William Baumol notò che le economie di mercato di tutto il mondo iniziarono a recuperare il ritardo che le separava dai paesi più avanzati nei decenni successivi al 1870, ovvero proprio quando la globalizzazione economica si manifestava per la prima volta pervasivamente (W. J. Baumol, Productivity Growth, Convergence, and Welfare: What the Long-Run Data Show, American Economic Review, Vol. 76, n. 5, 1986, pp. 1072-85). In altre parole, i paesi che nel 1870 erano “arretrati” iniziavano a recuperare il terreno che li separava da quelli più avanzati. L’articolo di Baumol era potente: aveva scoperto un fenomeno—la “convergenza”, cioè la riduzione della disuguaglianza economica tra paesi—e ne aveva individuato la causa, ovvero la globalizzazione. Ma Baumol, che pure aveva correttamente individuato alcuni chiari esempi di convergenza, non solo aveva selezionato solo casi di convergenza di successo, escludendo invece casi di progressivo distanziamento (e dunque si era messo nelle condizioni di dimostrare la propria ipotesi ex-ante), ma si sbagliava sul vero e proprio nesso causale con il processo della globalizzazione. Storici ed economisti ebbero gioco facile, negli anni successivi, a smontarne la tesi. Basti menzionare che un periodo di grande convergenza ebbe luogo negli anni tra le due guerre mondiali, notoriamente decenni di de-globalizzazione.

Questa discrepanza tra l’andamento del processo di convergenza e globalizzazione ha scosso le fondamenta di una lettura benigna della globalizzazione, facendo luce su uno scenario molto più vario, in cui fenomeni di convergenza e divergenza non potevano essere spiegati come conseguenza di una crescente o decrescente globalizzazione economica. Soprattutto, a partire dagli anni ’80 un certo numero di economie meno sviluppate ha cominciato a sperimentare una crescita dirompente—in particolare Cina, India e le tigri asiatiche—mentre molti altri paesi in Africa, America Latina e nell’ex blocco comunista sono rimasti indietro.

Gli anni ’80 hanno segnato una cesura fondamentale nelle dinamiche della disuguaglianza globale. Per quasi due secoli il mondo era stato testimone di una crescente globalizzazione che si accompagnava, a grandi linee, al crescere della disuguaglianza tra nazioni (o tra gruppi di nazioni) e la riduzione della disuguaglianza interna alle nazioni. A partire dagli anni Ottanta si è messo in moto un meccanismo nuovo: la disuguaglianza tra nazioni, anche se ancora molto ampia, ha iniziato a calare, mentre la disuguaglianza all’interno dei singoli Stati è in aumento. La nuova forma presa dalla globalizzazione economica, soprattutto con la rivoluzione nella tecnologia delle informazioni e la conseguente ristrutturazione delle catene globali del valore, sta avendo un enorme impatto sulle dinamiche dei redditi in tutto il mondo. In molti paesi storicamente avanzati, i redditi più alti hanno continuato a crescere, mentre i redditi della classe media sono rimasti al palo. L’1% più ricco della popolazione di qualsiasi paese ha ovviamente tratto ovunque grandi benefici dalla globalizzazione, prendendo per sé una fetta sempre più grande della torta. Ma tra i beneficiari di questo fenomeno c’è anche una nuova classe media emergente in Cina, India, Tailandia, Vietnam e Indonesia (a livello globale, naturalmente, questa classe media sarebbe considerata povera se confrontata in termini assoluti con la classe media delle economie occidentali). I grandi sconfitti, in questo rimpasto globale, sono i ceti medio-bassi dei paesi ricchi, i cui redditi reali, negli ultimi venticinque anni, sono cresciuti lentamente o non sono cresciuti affatto.

Ciò è molto importante per spiegare cosa stia accadendo sul piano politico in nazioni economicamente avanzate dove la stagnazione dei redditi è una realtà evidente e la mobilità economica, come scrivevamo più sopra, si è arrestata. La distribuzione sempre più squilibrata all’interno dei paesi ricchi dell’Europa occidentale, del Nord America, dell’Australia, della Nuova Zelanda e del Giappone gioca un ruolo importante nel crescente malcontento espresso nei confronti della globalizzazione, della cooperazione internazionale, dell’apertura commerciale e persino dell’assistenza umanitaria che sta deflagrando nelle democrazie liberali. L’incapacità da parte dello Stato di governare le forze transnazionali della globalizzazione, insieme alla stagnazione di alcuni settori delle popolazioni dei paesi ricchi, alimenta lo scontento sociale, i movimenti politici reazionari e la demagogia. L’aumento della disuguaglianza, in altre parole, sta deteriorando la coesione sociale delle democrazie liberali e il modo in cui queste democrazie operano.

Come anticipato, né per il primo, l’effetto “nazionale”, né per il secondo, quello “internazionale”, vi erano strumenti per una previsione o comprensione, come risultato di una negligenza teorica nei riguardi della disuguaglianza a sua volta derivante da una scarsa attenzione al tema della distribuzione personale del reddito, a favore di un interessamento pressoché esclusivo per la distribuzione funzionale, ovvero sui meccanismi che governano la sua distribuzione tra i fattori produttivi. Ciò significa, ovviamente, discutere di grandi gruppi omogenei, di classi, e questo va bene quando le società sono chiaramente segmentate secondo linee di separazione tra queste classi. È però sempre esistito un notevole disinteresse verso gli studi relativi alla distribuzione personale del reddito. Le cose sono cambiate relativamente di recente, ma questa negligenza ha fatto sì che la teoria economica non abbia potuto fornire alcun contributo alla disuguaglianza tra individui. Nel desiderio di teorizzare e modellare e, quindi, di generalizzare, sia negli economisti classici sia in quelli neoclassici, come pure negli economisti del pieno ‘900 – includendo anche i teorici dell’economia del benessere – non vi era spazio per lo studio delle persone, o, perlomeno, di raggruppamenti di persone per fasce di reddito, né tantomeno per il ruolo che questi potessero avere nell’economia nel suo complesso. Così si lasciò alla statistica lo studio della disuguaglianza. Niente viene per nuocere, tuttavia, perché così facendo abbiamo donato alla comunità internazionale alcuni tra i suoi più grandi studiosi, Pareto e Gini per tutti.

Schede e storico autori