Disuguaglianza e…. crescita

Da tempo si discute se e in che direzione la disuguaglianza influenzi la crescita economica. L’articolo richiama le ipotesi teoriche più frequenti e i principali studi empirici che, in netta prevalenza, individuano un effetto negativo della disuguaglianza sulla crescita, e sostiene che considerando altre caratteristiche della disuguaglianza, e non solo la sua altezza, nonchè il modo in cui si distribuiscono gli eventuali maggiori redditi futuri, oggi non appare possibile giustificare la disuguaglianza con la prospettiva di una maggiore crescita.

“Potete avere meno disuguaglianza. Potete avere redditi che crescono più velocemente. Ma non potete avere entrambi”.

Questa frase, con queste precise parole, non è mai stata pronunciata da nessuno. O, almeno, a noi non risulta. Ci risulta, invece, che molte volte sono state pronunciate o scritte frasi che hanno proprio questo significato.

In fondo, il mitico effetto trickle-down – un caso di idee che sopravvivono alla loro infondatezza – trasmette un messaggio del tutto analogo: se i ricchi si arricchiscono un po’ di più, prima o poi tutti ne beneficeranno e, dunque, solo chi desidera far stare ‘tutti’ peggio può darsi l’obiettivo di ridurre, nell’immediato, le disuguaglianze.

Ci sembra anche di poter dire che, come prima e istintiva reazione, molti concorderebbero che è impossibile avere entrambe le cose, probabilmente perché a spingere in quella direzione è un diffuso pre-giudizio morale, quello secondo cui la disuguaglianza, a prescindere da qualsiasi qualificazione, sia comunque frutto di merito e serva a incentivare gli sforzi per aumentare il benessere collettivo.

Lasciando da parte i pregiudizi e il trickle-down – di cui, peraltro, il Menabò si è ripetutamente occupato,- per fare passi avanti nella valutazione di quella enunciata impossibilità, occorre dare uno sguardo (necessariamente rapido) alla variegata e un po’ confusa letteratura sull’influenza che la disuguaglianza ha sulla crescita economica. Si tratta di un ambito di ricerca che ha una lunga storia e che di recente si è arricchito di numerosi contributi, quasi esclusivamente di carattere empirico.

Prima di passare agli studi empirici, è tuttavia, utile riprendere le ipotesi teoriche più frequentemente citate nella letteratura, che individuano vari canali di influenza della disuguaglianza sulla crescita e portano a conclusioni non convergenti e non sempre univoche sul segno di tale influenza. Inoltre – sia detto en passant – non sempre esse scaturiscono da modelli in grado di fornire solide spiegazioni dei legami tra le due variabili.

Il primo canale riguarda gli incentivi al lavoro. La disuguaglianza come, si è già sopra accennato sarebbe la remunerazione per coloro che si impegnano. Se così, la disuguaglianza potrebbe essere di sostegno alla crescita.

Il secondo canale concerne il risparmio: la disuguaglianza favorisce il risparmio (perché i ricchi hanno una più elevata propensione a risparmiare) e quest’ultimo, a sua volta, favorisce gli investimenti in capitale produttivo, quindi la crescita economica. Viene, quindi, prefigurato un effetto positivo; ma l’ipotesi che i risparmi si traducano in maggiori investimenti e, quindi, in ampliamento della capacità produttiva del sistema economico nel lungo periodo (quali che siano gli effetti di breve periodo sulla domanda di consumo), è tra le più controverse (per dire il meno) della storia del pensiero economico.

Il terzo canale porta, invece, a ipotizzare una relazione di segno opposto e si incentra sul mercato del credito. Se quest’ultimo – ed è la realtà – non funziona come la teoria assume (e, dunque, non è un mercato ‘perfetto’) il credito non verrà concesso a chi è ‘povero’ e di conseguenza l’ampliarsi delle disuguaglianze, inspessendo la coda bassa della distribuzione, comporterà una riduzione del credito complessivamente concesso con effetti negativi sulla creazione di imprese e sull’accumulazione di capitale. Questo imperfetto funzionamento del mercato del credito può condizionare negativamente anche l’accumulazione di capitale umano – considerato sempre più importante per la crescita economica – impedendo a coloro che provengono da famiglie con redditi bassi di disporre delle risorse finanziarie necessarie per accedere a livelli elevati di istruzione (O. Galor, J. Zeiram “Income distribution and macroeconomics”, The Review of Economic Studies , 1993).

Anche il quarto canale prelude a una relazione negativa. Si tratta della possibilità che la disuguaglianza alimenti varie forme diverse di protesta sociale che finiscono per limitare le potenzialità di espansione del sistema economico (A. Alesina, R. Perotti, “Income Distribution, Political Instability and Investment”, European Economic Review, 1996). Un effetto di questo tipo potrebbe aversi anche in modo ‘silenzioso’, attraverso l’indebolimento degli incentivi ad impegnarsi nel lavoro – con ovvie conseguenze sulla produttività – che potrebbe derivare dalla percezione che la disuguaglianza nei redditi e nelle retribuzioni non sia ‘giusta’ (L. Cassar, S. Meier, “Nonmonetary Incentives and the Implications of Work as a Source of Meaning, Journal of Economic Perspectives, 2018).

Le reazioni ‘politiche’ alla disuguaglianza definiscono il quinto canale, anch’esso ipotizzato di segno negativo. L’assunzione di partenza è che la disuguaglianza induca la maggioranza degli elettori a schierarsi per una politica di redistribuzione del reddito, dalla quale si attendono miglioramenti della propria posizione. Se effettivamente adottata, tale politica avrebbe, però, un impatto negativo sulla crescita economica in base all’assunzione che le maggiori imposte, necessarie per la redistribuzione, abbiano effetti distorsivi sull’allocazione delle risorse e quindi sulla crescita (A. Alesina, D. Rodrik, “Distributive politics and economic growth”, The Quarterly Journal of Economics, 1994). In realtà, la reazione alla disuguaglianza potrebbe anche essere di tutt’altra natura e portare, come si dirà anche in seguito, a politiche che rafforzano la posizione dei ricchi, promuovendo unicamente una crescita dei loro redditi.

Fermandoci qui nell’esame dei canali individuati a livello teorico, ci limitiamo a osservare che sembrano prevalere quelli di segno negativo ma, soprattutto, che la loro varietà e la loro discutibile robustezza impediscono di basarsi esclusivamente su di essi per individuare l’effettivo legame tra disuguaglianza e crescita.

Rivolgiamo, allora, la nostra attenzione agli studi empirici che, come si è accennato, si sono moltiplicati nel corso degli ultimi anni. Ciò è avvenuto grazie anche alla maggiore disponibilità di dati di buona qualità, la cui mancanza aveva fatto sorgere forti dubbi sulla validità dei risultati raggiunti in precedenza. Il Menabò ha dato conto di alcuni di questi studi – frequentemente prodotti da istituzioni internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE. Sintetizzando: le analisi cross-section (circoscritte a un determinato momento tempo) giungono senza eccezioni — almeno per quanto a nostra conoscenza – alla conclusione che la disuguaglianza danneggia la crescita economica nel lungo termine e talvolta in misura piuttosto significativa (J. Ostry, A. Berg, e C. Tsangarides, “Redistribution, Inequality, and Growth,” IMF Staff Discussion Note, 2014; F. Cingano, “Trends in Income Inequality and its Impact on Economic Growth,” OECD Social, Employment and Migration Working Paper , 2014 ); le analisi panel (basate su osservazioni nel tempo di un dato campione)portano, invece, a esiti meno netti: trovano un effetto positivo nel breve, ma non nel lungo termine (che è quello che qui interesserebbe di più) oppure non rilevano alcun legame statisticamente significativo (K. Forbes, “A Reassessment of the Relationship Between Inequality and Growth,” American Economic Review, 2000; A. Kraay, “Weak Instruments in Growth Regressions: Implications for Recent Cross country Evidence on Inequality and Growth,” Policy Research Working Paper, World Bank, 2015).

Sull’opportunità di usare dati cross-section o panel, le opinioni si dividono ma vi sono buone ragioni per ritenere che con i panel si riduca significativamente la possibilità di individuare gli effetti negativi della disuguaglianza sulla crescita.

In sintesi, il sospetto che la relazione, almeno negli ultimi decenni, sia prevalentemente di segno di negativo è nettamente più forte del sospetto opposto, ma si conosce ancora troppo poco su questa complessa relazione non soltanto per nutrire certezze assolute ma anche e, soprattutto, per individuare politiche in grado di permettere meno disuguaglianza oggi, e più crescita (per tutti) domani. Perché, anche se il segno è negativo può non essere sufficiente ridurre ‘come capita’ la disuguaglianza per avere più crescita. Occorrono migliori conoscenze, e quello che segue è un breve elenco di conoscenze più ‘fini’, raggiunte in diversi studi empirici, che possono rivelarsi utili a questo riguardo.

La prima è che a parità di disuguaglianza (per così dire) conta il reddito medio. Già molti anni fa è stato rilevato (R. Barro, 1991, “Economic Growth in a Cross Section of Countries,” Quarterly Journal of Economics, 1991) che la disuguaglianza ha certamente effetti negativi sulla crescita nei paesi con basso reddito medio, mentre è dubbio il segno di quella relazione quando il reddito medio è più elevato. Alcune delle ipotesi teoriche precedentemente enunciate possono aiutare a dar conto di questo risultato.

Il secondo pezzo di conoscenza, che può essere collegato a quanto si è appena detto, riguarda la diversa influenza della disuguaglianza nella parte alta della distribuzione (approssimativamente tra i ricchi e la classe media) e nella parte bassa (tra la classe media e i poveri). S. Voitchovsky ( “Does the profile of income inequality matter for economic growth?”, Journal of Economic Growth, 2005) trova che la seconda è nemica della crescita mentre non è così per la prima. Anche in questo caso si può ipotizzare che il risultato dipenda dalla diversa efficacia dei vari canali teorici in corrispondenza di redditi alti o bassi.

Utile è anche quanto emerge quando si distingue, nella disuguaglianza complessiva, quella che dipende da differenti opportunità da quella che, invece, può essere considerata (con diversa attendibilità, occorre aggiungere) il prodotto di sforzi individuali che il mercato premia. Riprendendo un suggerimento in tal senso formulato diversi anni fa dalla Banca Mondiale (World Development Report, 2006), G. Marrero e J. Rodriguez (“Inequality of Opportunity and Growth,” Journal of Development Economics, 2013), sostengono che la disuguaglianza nelle opportunità (nella loro accezione: quella dovuta alla razza, al genere e al background familiare) incide negativamente sulla crescita mentre l’opposto sembra valere per la disuguaglianza residua, dovuta agli sforzi. Questi risultati si riferiscono agli USA e ai paesi europei, ma sembrano non valere per altri paesi (Ferreira et al., 2018). In ogni caso il riferimento alla disuguaglianza di opportunità (malgrado le difficoltà poste dal concetto) appare di indubbia importanza in questo contesto.

Intesa come trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze essa sembra essere decisiva per definire l’impatto della disuguaglianza nei redditi sulla crescita. Infatti, il risultato principale raggiunto da S. Aiyar e C. Ebeke (“Inequality of Opportunity, Inequality of Income and Economic Growth”, IMF Working Papers, 2019) può essere così enunciato: se la trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza è elevata, allora una più alta disuguaglianza nei redditi frena la crescita economica, e viceversa. La trasmissione intergenerazionale sarebbe, quindi, la variabile omessa da cui dipende in modo decisivo il segno della relazione. Per dar conto di questo risultato si può, di nuovo, fare riferimento – almeno in parte – a qualcuno dei nostri canali teorici; ad esempio, alla difficoltà di accesso, per chi proviene da background svantaggiati, e al ruolo dell’istruzione, entrambi importanti sia per trasmissione intergenerazionale sia per la crescita economica.

Da quanto precede possono essere tratte queste (provvisorie) conclusioni: appare difficilmente discutibile che ridurre le disuguaglianze nella parte bassa della distribuzione abbia effetti positivi sulla crescita ed appare altrettanto difficilmente discutibile che ridurre la trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza favorisca la crescita economica. Dunque, se si osservano i fenomeni con un po’ più di dettaglio, dovrebbero essere questi gli obiettivi prioritari di chi pone la crescita economica in cima alle sue preoccupazioni, indipendentemente dai presunti effetti complessivi della disuguaglianza sulla crescita e anche dal peso – che non dovrebbe essere lieve – attribuito alla trasmissione intergenerazionale in se stessa.

Vi è, però, una possibile e non lieve complicazione che riguarda, per così dire, le ricadute politiche della disuguaglianza. Per illustrare di cosa si tratta è utilissimo un recente lavoro di Milanovic e van der Weide (“Inequality is Bad for Growth of the Poor, but Not for That of the Rich”, TheWorld Bank Economic Review, 2018). Osservando dati riferiti agli Stati Uniti per il periodo 1960-2010, i due autori mettono in evidenza le difficoltà di diminuire la disuguaglianza nella parte basse e di favorire l’uguaglianza di opportunità inter-generazionale quando la disuguaglianza sia alta. In questo contesto, infatti, il rischio è che a beneficiare della crescita siano soltanto o quasi i redditi dei già più ricchi. In altri termini la disuguaglianza non farebbe crescere il reddito di ‘tutti’ ,ma soprattutto o soltanto quello di alcuni, con l’effetto non secondario di aggravare ulteriormente la disuguaglianza. Anche in questo caso occorrono approfondimenti, ma la spiegazione che di questo fenomeno danno Milanovic e van der Weide ha una elevata plausibilità e si riconnette al funzionamento della democrazia in un’epoca di alta disuguaglianza: quest’ultima accresce il potere dei ricchi di indurre decisioni politiche che avvantaggiano soltanto o quasi se stessi. Dunque, si tratta del rapporto tra disuguaglianza e democrazia, di cui si parla in un altro articolo di questo numero del Menabò.

Se le cose stanno così, sostenere che si può avere meno disuguaglianza, meno trasmissione intergenerazionale e più crescita (per tutti o quasi) come le analisi qui richiamate – malgrado i limiti ricordati – inducono a fare, confutando la frase di apertura di queste note, servirà a poco se la democrazia non è messa in grado di svolgere appieno la sua essenziale funzione: servire i molti e non i pochi.

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