Difficilmente possono trovarsi parole più intense di quelle che Luigi Einaudi usò nel 1944 (e che furono pubblicate 5 anni più tardi nel lungo saggio “Concetto e limiti della uguaglianza nei punti di partenza”, Lezioni di politica sociale, Einaudi, 1949) per descrivere quanto le origini familiari possono incidere sulla vita che si vivrà:
“Qual colpa ha un bambino di essere nato da genitori miserabili e per giunta viziosi, alcoolizzati ed ignavi e di essere perciò (….) predestinato alla miseria, alla delinquenza o alla prostituzione? Qual merito ha un altro bambino, se, nato frammezzo ad agi, (…) ha avuto larghe possibilità di coltivar la mente, di frequentar scuole ed ottenere titoli, che gli hanno aperto la via ad una fruttuosa carriera, del resto facilitata dalle molte relazioni di parentela, di amicizia e di affari dei genitori?”
I diseguali punti di partenza preludono, quindi, a disuguaglianze che, per la loro origine, non possono essere considerate frutto del merito. Scrive lucidamente Einaudi:
“Il povero resta dunque povero e il ricco acquista ricchezza non per merito proprio, ma per ragion di nascita; ed ai posti di comando (….) giungono non i più meritevoli, ma quelli che meglio furono favoriti dalla sorte della nascita.”
Dopo questa, che possiamo considerare una chiara condanna della disuguaglianza nei punti di partenza, Einaudi sviluppa una serie di ragionamenti che non conducono ad una altrettanto chiara presa di posizione sulla necessità di realizzare l’uguaglianza dei punti di partenza. Ne dà conto Caffè nella sua “Nota introduttiva” alle Lezioni di Politica Sociale (1964) allorché rileva “alcune esitazioni, perplessità, moniti di cautela che l’Einaudi avanza là ove discute così lucidamente intorno all’eguaglianza delle condizioni di partenza come obiettivo di politica sociale”. In effetti, l’interpretazione di quale fosse in definitiva la posizione di Einaudi rispetto all’uguaglianza dei punti partenza, resta controversa (cfr. T. Maccabelli, “Luigi Einaudi e l’uguaglianza dei punti di partenza”, Il pensiero economico italiano, 2012). Senza approfondire questa questione interpretativa ci sembra di poter sostenere che Einaudi fosse contrario a misure orientate a realizzare quella uguaglianza incidendo sulla disuguaglianza economica ed in particolare avversasse misure che colpiscono drasticamente i lasciti ereditari.
Significativa è al riguardo la seguente affermazione:
“Esisterebbe dunque una qualche disuguaglianza nei punti di partenza fra i giovani i quali a 20 anni hanno potuto fruire delle agevolezze di vita, di studio, di educazione e di relazioni apprestate, direttamente o con provvidenze assicurative, dai genitori elevatisi con i loro sforzi di lavoro e coloro i quali hanno potuto utilizzare solo le minime agevolezze offerte dall’ente pubblico.” (Einaudi 1949, p. 185)
Dunque, non l’uguaglianza dei punti di partenza, ma una ragionevole riduzione della disuguaglianza in quei punti: questo sembra essere il suo obiettivo. Ma ciò che qui maggiormente interessa è riflettere brevemente sul nesso tra origini familiari e disuguaglianze senza ‘merito proprio’ che Einaudi chiaramente individua, aggiungendo qualche considerazione più generale sulle disuguaglianze senza merito.
Centrale per la nostra riflessione è la distinzione tra prestazione meritevole e merito. In una logica di mercato (e solo in questa logica) una prestazione è meritevole se vi è una forte preferenza per essa, che nel mercato vuol dire un’alta “Disponibilità a Pagare” (DaP). Naturalmente sulla DaP incide anche il reddito di cui si dispone, ma ai nostri fini non è prioritario soffermarsi su cosa determini una elevata DaP e quindi sul rapporto che questa può avere con il merito della prestazione considerato da un punto di vista diverso di quello rappresentato dal ‘sacrificio’ monetario che si è individualmente disposti a fare per godere di quella prestazione.
È invece importante sottolineare che una elevata DaP non si traduce necessariamente in un elevato prezzo di mercato e quindi, direttamente o indirettamente, in un reddito elevato per chi fornisce quella prestazione. Infatti, decisivo è il grado di concorrenza nel mercato dove si offre quella apprezzata prestazione che, naturalmente, dipende da quanto è diffusa la caratteristica o la abilità che la rende possibile.
Se la diffusione è ampia e, quindi, la concorrenza è sostenuta il prezzo per la prestazione sarà basso, possibilmente molto inferiore alla DaP e, dunque, anche il reddito di chi offre una prestazione che il mercato considererebbe meritevole è basso. È importante sottolineare che nelle condizioni descritte sarà elevato quello che gli economisti chiamano il surplus del consumatore; cioè il beneficio netto che il consumatore trae dal poter fruire della prestazione, sinteticamente la differenza tra quanto sarebbe disposto a pagare (il valore per lui della prestazione) e quanto effettivamente paga. Dunque, seguendo questa logica, una prestazione meritevole non può essere individuata guardando soltanto al prezzo pagato nel mercato per essa e al reddito ottenuto da chi la offre. Infatti, una prestazione meritevole può tradursi in un invisibile elevato surplus del consumatore, come peraltro dovrebbe avvenire se valesse la sovranità del consumatore alla quale, peraltro, stando ad alcune affermazioni contenute nel saggio citato, Einaudi attribuiva una grande importanza.
Naturalmente, se solo pochi posseggono quella caratteristica e, quindi, la concorrenza è limitata il prezzo sarà alto e potrebbe anche accadere che il prezzo di una prestazione meno meritevole (cioè con DaP inferiore) per effetto del diverso grado di concorrenza sia superiore a quello di una prestazione più meritevole. In breve, non sono necessariamente le prestazioni più meritevoli, anche dall’esclusivo punto di vita del mercato, ad assicurare i redditi più alti.
Si può ora introdurre il merito individuale. L’accezione qui è semplice: vi è merito se la caratteristica che riceve una elevata DaP è stata acquisita con il proprio impegno e grazie al proprio talento piuttosto che in virtù di qualche privilegio o di qualche fortunata circostanza. Dunque, un’elevata DaP non è imputabile direttamente al merito e, per quanto si è detto prima, potremmo avere che in un mercato poco concorrenziale la caratteristica che interessa venga remunerata molto anche se non è stata acquisita con merito. Ciò consente anche di chiarire che la DaP dipende dalla valutazione della prestazione e non dal ruolo che il merito individuale ha nel determinarla. Il mercato non può distinguere tra merito e prestazione meritevole. Non solo non c’è sempre corrispondenza tra premio e prestazione meritevole che, come detto, dipende dal grado di concorrenza del mercato, ma può accadere anche che il mercato premi nella stessa misura chi offre una prestazione meritevole grazie al proprio merito e chi invece la offre grazie al privilegio. In altri termini, vi sono anche disuguaglianze meritocratiche che ‘sfuggono’ al mercato.
Possiamo ora chiederci cosa c’entrino le origini familiari. La risposta è relativamente semplice: se le caratteristiche che conducono alle prestazioni considerate più meritevoli dal mercato sono acquisibili solo (o più facilmente) grazie alle origini familiari, vi sarà scarsità (almeno in senso relativo) di quelle caratteristiche e, dunque, saranno premiate le origini familiari. Questo ragionamento si può applicare ad alcune caratteristiche per le quali sembra, in generale, essere elevata (almeno in senso relativo) la DaP e che dipendono molto, anche se non sempre in maniera esclusiva, dalle origini familiari. L’elenco delle possibilità è piuttosto lungo; in cima – ampiamente riconosciuti – vi sono il livello e la qualità dell’istruzione, ma contano anche le cosiddette soft skills, le relazioni sociali di cui si dispone e perfino l’aspetto fisico.
Se non esistono, per ragioni ‘naturali’ o di carattere sociale, molte altre possibilità per acquisire simili caratteristiche, i redditi che esse permetteranno di ottenere saranno più elevati a causa della loro scarsità ma non vi è merito in questo, nel senso che quelle caratteristiche sono state acquisite grazie a una forma di privilegio (le origini familiari) e non al proprio impegno.
Rispetto a talune di queste caratteristiche si può immaginare un intervento sociale diretto a superare la scarsità che porterebbe anche a ridurre la disuguaglianza nei punti di partenza e a farlo senza fare quello che Einaudi non intendeva fare: intervenire a ridurre le disuguaglianze economiche tra i genitori da cui dipendono le disuguaglianze nei punti di partenza dei figli. E però ridurre quelle disuguaglianze economiche, in modo oculato, potrebbe essere utile e necessario, come si dice anche più avanti.
L’intervento sociale di mitigazione delle disuguaglianze di partenza si può immaginare rispetto all’istruzione, naturalmente, e forse anche rispetto alle soft skills. Non lo si può facilmente immaginare per l’aspetto fisico e anche per le relazioni sociali. Il che vuol dire che eliminare le disuguaglianze senza merito riconducibili alla famiglia non è possibile, ma è possibile ridurre l’impatto di almeno alcune di esse. E lo si può fare in qualche caso agendo direttamente sul grado di concorrenza nei mercati che utilizzano quelle caratteristiche (dal lato della loro domanda e non della loro offerta, che è quello a cui si è fatto riferimento finora). Ad esempio, il ‘capitale’ di relazioni sociali sembra essere apprezzato dalle imprese più del capitale umano se si trovano ad operare in mercati poco concorrenziali e ciò perché, se la concorrenza non è intensa, conta meno la competitività che dipende dal capitale umano e contano, probabilmente, di più altri vantaggi che il capitale relazionale, se così vogliamo chiamarlo, può assicurare a chi gestisce l’impresa.
Da tutto ciò possiamo trarre qualche conclusione. Difficilmente alla base di redditi elevati può esservi il merito. Vi sarebbe nel caso in cui la prestazione meritevole fosse svolta da chi ha acquisito con il proprio impegno la capacità di svolgerla, essendo aperta a tutti la possibilità di acquisire quella capacità. Non vi è, invece, nel caso in cui le alte retribuzioni dipendono dalla difficoltà di accesso a quelle capacità ed in particolare quando ciò avviene perché l’accesso a quella capacità dipende da origini familiari o altre forme di privilegio. E potrebbe anche accadere che le retribuzioni siano relativamente alte per prestazioni non meritevoli (bassa DaP) e grazie a capacità acquisite senza merito. In breve, potrebbe accadere che il mercato premi la scarsità conseguente al privilegio che nulla ha a che fare con il merito.
Si è già detto dell’impossibilità di annullare tutti questi privilegi cercando di realizzare l’uguaglianza dei punti di partenza, semplicemente perché non è possibile far accedere tutti o quasi alle capacità di cui dispongono coloro che provengono da background avvantaggiati. Un ulteriore aspetto che meriterebbe una riflessione riguarda la misura in cui le disuguali condizioni di partenza incidono sulle disuguaglianze di reddito. Se la disuguaglianza nei punti di partenza riguarda le caratteristiche di cui si è detto e non i patrimoni trasmessi si può ipotizzare che l’incidenza sia limitata, ancorché disdicevole. Certamente sono più rilevanti e anche meno meritocratiche le disuguaglianze che derivano dai patrimoni trasmessi (quando c’è qualcosa da trasmettere). Di fronte alla grande concentrazione della ricchezza di questi anni, e alla limitata incidenza delle imposte di successione, il problema sembra di sicuro molto rilevante. E ciò richiederebbe di riconsiderare l’opportunità di ridurre oculatamente le disuguaglianze economiche tra i genitori per contenere le disuguaglianze di opportunità dei figli.
ll modo in cui le caratteristiche individuali si trasformano in disuguaglianze di reddito dipende anche dalle specifiche modalità di funzionamento dei mercati, sulle quali ha una rilevantissima influenza la tecnologia. Da quest’ultima dipende il larga misura il consolidamento in anni recenti del fenomeno delle superstar. Se un singolo può, grazie alla tecnologia ‘vendere’ le proprie prestazioni a un numero sterminato di fruitori – come avviene tipicamente nel mondo dello sport e dello spettacolo – oppure può incamerare enormi introiti creando audience appetite da chi opera nel settore della pubblicità e dell’influence – come nel caso delle piattaforme digitali – i suoi redditi possono essere stratosferici e questo avviene – come sosteneva Rosen – anche se la preferenza per chi serve un mercato sterminato è assai limitata (nel nostro linguaggio precedente: una DaP lievemente più alta, non necessariamente per merito individuale, peraltro) o, ovviamente, se il mercato non offre alternative e non perché nessun’altro potrebbe offrire la stessa prestazione.
Queste disuguaglianze estreme che il merito non giustifica, o giustifica molto debolmente, costituiscono oggi un problema serio e grave, che si affianca, forse sovrastandolo, a quello della disuguaglianza nei punti di partenza nel senso in cui ne parlava Einaudi. Se le sue preoccupazioni rispetto all’uguaglianza dei punti di partenza (al di là della sua realizzabilità) nascevano dal timore che porsi quell’obiettivo equivalesse a sovvertire il capitalismo liberale, oggi la preoccupazione sembra essere che se non si prende seriamente il problema delle disuguaglianze estreme senza merito a soffrirne sarà proprio il capitalismo liberale. E il tempo in cui accadrà non è lontano; anzi, a ben guardare, è già con noi.