Disuguaglianza e….merito

Al centro di questo articolo è il legame tra disuguaglianza e merito. Riprendendo temi e spunti contenuti in articoli comparsi sul Menabò, l’articolo si sofferma sui rischi derivanti dall’affidarsi alla concorrenza nel campo dell’istruzione, sull’evasione fiscale come premio per i non meritevoli e come moltiplicatore delle disuguaglianze, e sulla necessità di trattare con cautela l’idea di merito alla luce dei rapporti di potere che caratterizzano le odierne società.

Alberto Alesina, in un editoriale apparso sul Corriere della sera alcuni anni fa, sosteneva che la disuguaglianza crea incentivi e che per questo è accettabile, a patto di garantire mobilità sociale, concorrenza, meritocrazia e di combattere corruzione ed evasione fiscale. Poche idee più di queste sono capaci di alimentare accesi dibattiti tra gli economisti e non solo tra loro. Il Menabò si è occupato a più riprese, da prospettive diverse, del nesso tra disuguaglianza e merito, fornendo spunti di critica e di riflessione che vale la pena ripercorrere brevemente.

Partendo dal legame tra mercato e merito, c’è chi sostiene, sulla base di argomenti ricorrenti, che in un mercato concorrenziale, ognuno viene remunerato in base alle proprie capacità e all’impegno profuso nell’accumulare capitale umano. L’assenza di barriere all’entrata e all’uscita, la possibilità di segnalare le proprie capacità, l’interesse delle controparti a procurarsi “ciò che di meglio può fornire il mercato”, garantiscono l’allineamento tra remunerazione e produttività, premiando il merito individuale. In questo modo, la concorrenza spinge tutti a migliorare continuamente sé stessi, a non restare indietro, a dare il meglio per fare il proprio interesse e, alla fine, anche l’interesse degli altri. E qui siamo già alla metafora della mano invisibile.

Dall’altro lato, c’è chi dubita di tutto questo e cita i danni che può fare la concorrenza, le molteplici istanze in cui il mercato non porta né all’efficienza né all’equità – intesa come allineamento delle remunerazioni alle capacità individuali – e, ancora, il potere diseguale all’interno del mercato, da cui deriva la possibilità per alcuni di estrarre rendite che poco o nulla hanno a che fare con il merito personale.

A prescindere dalla validità dell’idea di “merito” in sé, sulla quale torneremo più avanti, la questione diventa particolarmente delicata se affrontata in relazione al tema dell’istruzione. La parola stessa Meritocrazia nasce nel 1958, come parte del titolo di un libro di M. Young, sociologo e attivista politico britannico, che immagina un futuro distopico in cui la posizione sociale di ognuno viene determinata in base a test di intelligenza somministrati alle elementari e in cui un’oligarchia di «meritocrati» si arricchisce ai danni della collettività, attraverso criminalità e corruzione.

L’idea di “meritocrazia” va trattata con cautela, come ha sottolineato, tra altri, il filosofo Kwame Anthony Appian della New York University in un articolo apparso sul Guardian. Anche ammettendo per un momento che la posizione sociale ed economica di ognuno dipendesse esclusivamente dall’intelligenza e dall’impegno speso nell’accumulare capitale umano, rimarrebbero comunque enormi problemi, di efficienza ed equità, nel selezionare e premiare studenti e insegnanti sulla base di meccanismi concorrenziali.

Accrescere la concorrenza nel campo dell’istruzione, un tema trattato dal Menabò insieme a quello dei divari tra la scuola dei ricchi e quella dei poveri, più che premiare il merito individuale, rischia di avere l’effetto contrario, aumentando l’importanza di fattori come il luogo di nascita e il titolo di studio dei genitori nel determinare le sorti di ogni individuo, a prescindere dall’impegno e dalla capacità personali. Un sistema inclusivo, capace di offrire istruzione di qualità, su basi inclusive e in condizioni di pari accessibilità, sembra l’unico rimedio contro questa possibilità e l’unico modo di arginare le disuguaglianze, dando a tutti uguali opportunità e premiando l’impegno e l’intelligenza dei capaci e meritevoli dei quali parla l’articolo 34 della nostra Costituzione.

Il contenimento della spesa sociale, compresa quella per l’istruzione, va nella direzione opposta rispetto a questa esigenza, favorendo lo slittamento progressivo dei sistemi educativi dal settore pubblico verso quello privato così creando le premesse materiali che alimentano la retorica del mercato e del merito. La sottrazione di risorse finanziarie dai bilanci pubblici, causata dall’evasione fiscale, va nella stessa direzione.

In presenza di una diffusa evasione fiscale, l’idea del mercato che premia il merito perde ulteriormente credibilità. Chi evade le imposte gioca con un mazzo di carte truccate. Il guadagno che ottiene più che il merito premia la disonestà e accresce la disuguaglianza. Nel corso degli ultimi anni, il Menabò si è interrogato più volte su questo tema, analizzando il fenomeno dell’evasione fiscale da punti di vista diversi.

Nel 2017, per esempio, Paesani e Raitano hanno preso spunto dai recenti lavori dell’economista francese Gabriel Zucman, da solo e con altri, per riflettere sul fenomeno dei paradisi fiscali e sui vantaggi che l’integrazione tra dati fiscali e campionari offre per misurare meglio la diseguaglianza e individuarne il rapporto con l’evasione fiscale. Più recentemente, Morales Sloop partendo da un’affermazione del Ministro Savona in merito agli effetti redistributivi dai ricchi ai poveri del condono fiscale, ha analizzato sia l’iniziativa del governo sia il “Rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrasto all’evasione fiscale e contributiva”. Morales Sloop sostiene che la misura si rivolge più che ai ricchi e ai “furbetti” e mostra come l’effetto redistributivo del condono sia sempre iniquo, andando a scapito dei contribuenti onesti e dei poveri, che non eevadono o che non hanno redditi tassabili. Andando indietro nel tempo, FraGra e Paladini mettevano in luce i rischi in termini di stimolo per l’evasione derivanti dalla decisione del Governo Renzi d’innalzamento a 3000 euro la soglia minima oltre la quale scatta l’obbligo di non usare il contante.

Da questi e da altri studi emerge chiaro il nesso tra evasione fiscale e disuguaglianza. Nello studio di Alstadsæter, Johannesen e Zucman, richiamato da Paesani e Raitano e di prossima pubblicazione nell’American Economic Review, si mostra come l’evasione fiscale offshore sia altamente concentrata tra i ricchi. La distribuzione distorta della ricchezza offshore implica alti tassi di evasione fiscale al vertice della piramide distributiva. Le famiglie più ricche, appartenenti allo 0,01%, evadono in media il 25% delle imposte dovute. Al contrario, l’evasione fiscale rilevata negli audit fiscali casuali stratificati è meno del 5% in tutta la distribuzione. Le migliori quote di ricchezza aumentano sostanzialmente quando si contabilizzando le attività non dichiarate, il che conferma l’importanza di considerare il contributo dell’evasione fiscale per misurare correttamente la disuguaglianza. Il fenomeno messo in luce da Zucman e dai suoi colleghi cela un meccanismo potenzialmente cumulativo attraverso il quale la disponibilità d’ingenti somme di denaro accresce la probabilità di evadere, favorendo la concentrazione della ricchezza nelle mani degli evasori e il moltiplicarsi della disuguaglianza.

Come ha ricordato di recente Oxfam International, la dimensione dell’economia globale è quasi quintuplicata negli ultimi 30 anni. Nel 2017, il suo valore ha raggiunto quasi 78 trilioni di dollari. Tuttavia, il divario tra ricchi e poveri si allarga, con un massiccio aumento della ricchezza al vertice, mentre la ricchezza totale di quelli che stanno in basso sta diminuendo. Dal 2015, l’1% più ricco ha più ricchezza rispetto al resto del mondo combinato. Questa disuguaglianza economica viene alimentata da un’epidemia di evasione ed evasione fiscale che ha raggiunto una scala senza precedenti. Mentre milioni di persone in tutto il mondo vivono in povertà, individui e società ricchi, sfruttando la segretezza fornita dai paradisi fiscali, continuano a evadere ed eludere le imposte, riducendo la possibilità di fornire servizi vitali ai paesani più poveri.

In una situazione come questa, l’idea che i compensi monetari forniti dal mercato siano il prodotto del merito individuale perde ulteriormente credibilità, a meno che non si stia parlando del merito dei consulenti e dei family office che aiutano le grandi imprese e i super-ricchi a sfuggire dai controlli del fisco. L’adozione, all’inizio di quest’anno, di nuove norme europee per eliminare le principali lacune sfruttate ai fini dell’elusione fiscale societaria fa sperare che questo fenomeno possa essere arginato ma molto resta ancora da fare in materia di contrasto dell’evasione, sia sul versante dei redditi societari che su quello dei redditi personali.

Il ruolo dell’evasione fiscale nel premiare i più ricchi, senza che ciò abbia nulla a che fare col merito, è un altro esempio di un mercato che gioca a carte truccate, sfruttando rapporti di potere sbilanciati che alimentano le disuguaglianze. Ignorare il tema dei rapporti di potere, pensando il mercato come un luogo neutrale, popolato di “atomi razionali” in concorrenza gli uni con gli altri è altamente fuorviante. Come osservava Marcello De Cecco, ricordando le idee di Federico Caffè a questo proposito, le forze del mercato hanno “nome, cognome e soprannome”, e come tali devono essere conosciute e comprese.

Con queste parole, De Cecco ricorda che per capire il mercato bisogna capire, prima di tutto, i rapporti di forza che si determinano al suo interno e che ne condizionano gli esiti allocativi e distributivi. Questo non significa escludere a priori la possibilità che il merito individuale trovi il proprio riconoscimento attraverso meccanismi di tipo concorrenziale. Significa però che questa possibilità non va accolta con estrema prudenza

Se accogliamo l’idea che molti fattori relativi al merito siano casuali e che i difetti della concorrenza (pensiamo al peso delle imprese e dei problemi informativi) renda il mercato anche al meglio un rivelatore imperfetto dei meriti, forse è arrivato il momento di ripensare l’idea stessa di merito. Allo stesso modo, un conto è aumentare la concorrenza fra i lavoratori deboli un conto è aumentarla contro le grandi multinazionali. Sostenere che “il mercato premia il merito e il merito va perseguito” senza tenere conto di tutto questo rischia, nel migliore dei casi, di diventare un vuoto esercizio retorico, nel peggiore, la difesa d’ufficio di un sistema che porta all’esito opposto rispetto a quello che apparentemente promuove.

Schede e storico autori