ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 186/2023

29 Gennaio 2023

Disuguaglianza e povertà in Italia: proviamo a fare il punto (seconda parte)

Maurizio Franzini e Michele Raitano proseguono il loro tentativo di fare il punto sulla disuguaglianza e la povertà rispondendo a cinque domande. In questa seconda parte le due questioni sulle quali gli autori riflettono sono, rispettivamente, la relazione tra disuguaglianza di reddito e disuguaglianza di benessere, e l’opportunità di valutare la disuguaglianza in base non soltanto alla sua altezza come rilevata dai principali indicatori ma anche dei meccanismi che la generano.

Nella prima parte di questo articolo, pubblicata sullo scorso numero del Menabò ci siamo occupati di disuguaglianza e povertà in termini di reddito disponibile (o di consumo, nel caso della povertà assoluta), illustrando le ragioni per le quali, se non vi sono prove definitive che la disuguaglianza è continuamente cresciuta anche negli ultimi anni, sono varie le ragioni per dubitare che sia rimasta invariata, come risulterebbe dall’applicazione del coefficiente di Gini ai dati campionari utilizzati per stimarla. 

Ora intendiamo rispondere ad altre due delle cinque domande elencate nella prima parte, iniziando da questa: il reddito, come comunemente misurato, è idoneo a rappresentare il benessere degli individui e cosa possiamo dire sull’andamento delle disuguaglianze di benessere rispetto a quelle di reddito?

In base alla letteratura economica, l’assunto è che il reddito disponibile (al netto, cioè, delle imposte e al lordo dei trasferimenti pubblici) sia la miglior proxy della capacità di spesa delle famiglie, ovvero della loro capacità (potenziale) di consumo, considerata come la dimensione cruciale per valutare il benessere economico. Senza affrontare la questione di come definire il benessere (alcuni autori, seguendo Sen, propendono per misure multidimensionali, altri seguono approcci soggettivi basati sulla ‘felicità’), e prescindendo dal problema di definire nel modo migliore le scale di equivalenza per comparare, ad esempio, single e famiglie numerose, ci limitiamo ad assumere che il benessere materiale cresca se il reddito effettivo al netto di alcuni costi essenziali aumenta. Ciò permette di avanzare diverse considerazioni critiche rispetto all’assunto appena indicato. 

La questione centrale è se le misure tradizionali del reddito sono in grado di cogliere, anche dinamicamente, tutti i fattori che determinano il consumo potenziale di un nucleo familiare. Va qui ricordato che, per approssimare nel miglior modo possibile il benessere economico, il reddito (‘entrata’ o ‘esteso’) dovrebbe includere anche quelle voci che migliorano le possibilità individuali senza generare una spesa diretta. In altri termini, andrebbero imputate quelle voci – come il possesso dell’abitazione di residenza, i trasferimenti in natura del welfare, la possibilità di fornire servizi di cura all’interno della famiglia – che contribuiscono al benessere riducendo la necessità di ricorrere al mercato. In aggiunta, come già accennato a proposito dei top incomes, dobbiamo chiederci se le comuni misure tengano pienamente conto di ogni fonte di reddito, ad esempio, il lavoro autonomo o diverse forme di ricchezza. Seguendo questo approccio, emergono, per diverse ragioni, molteplici possibilità di corrispondenza imperfetta tra il reddito rilevato e il benessere. Di seguito, consideriamo soltanto le più rilevanti. 

Anzitutto, l’evasione fiscale può, naturalmente, portare a sottostimare il benessere e può determinare una distribuzione di quest’ultimo diversa da quella che risulta dai redditi ufficialmente rilevati, principalmente a vantaggio dei redditi non da lavoro. Nella stessa direzione possono andare probabili errori nella stima dei flussi di reddito derivanti dalla ricchezza; la rilevazione di tali flussi – come i capital gains realizzati e, ancora di più, quelli solo maturati nominalmente – è problematica e, d’altro canto, l’aumento della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza non riflessa in quella ufficiale dei redditi fa apparire probabili quegli errori, rendendo la disuguaglianza di benessere più grave di quella nei redditi rilevati. 

La seconda considerazione è che a parità di reddito il benessere può essere molto diverso se si è o meno proprietari della casa di abitazione. Tenere conto di questo elemento di differenziazione non è facile, come mostra la complessità dei calcoli da compiere per giungere a misurare i cosiddetti fitti imputati, che dovrebbero permettere un confronto più significativo dei redditi tra chi è proprietario e chi è affittuario dell’abitazione. 

La terza considerazione riguarda il diverso accesso, a parità di reddito, a servizi di welfare, quali la sanità, l’istruzione, i servizi di cura o l’edilizia pubblica, che possono essere considerati come trasferimenti non monetari, ma in natura. Un più agevole accesso a questi servizi favorisce il benessere e, quindi, non consente di considerare come omogenee la disuguaglianza di reddito e quella di benessere. Le tendenze degli ultimi decenni sono state di meno agevole (e più costoso) accesso a molti di quei servizi, con la conseguenza di peggiorare in misura relativamente maggiore il benessere di chi percepisce redditi più bassi. Dunque, le disuguaglianze di benessere sembrerebbero crescere a parità di disuguaglianze nei redditi rilevati. 

Un effetto del tutto simile si produce quando cresce il costo di alcuni beni e servizi essenziali acquisiti nel mercato, che rappresentano una quota più elevata dei redditi più bassi, come è stato messo ripetutamente in luce con riferimento ai recenti aumenti dei prezzi dei beni energetici e alimentari. Ma, su un orizzonte temporale più lungo, vanno menzionati, in questa prospettiva, gli aumenti degli affitti, dei costi delle cure, dei trasporti e altro ancora. Anche in questo caso all’apparente invarianza della disuguaglianza nei redditi può corrispondere un peggioramento nella disuguaglianza di benessere e, d’altro canto, la diminuzione dei prezzi di alcuni beni o servizi di largo consumo se migliora di per sé il potere d’acquisto di tutti difficilmente può contrastare quel peggioramento perché quasi sempre si tratta di beni e servizi consumati in maggior misura dai ricchi. 

Nel complesso appare plausibile, seppur non provato, a causa delle difficoltà metodologiche, che tutti questi fattori abbiano concorso negli anni scorsi ad aggravare le disuguaglianze di benessere anche a parità di disuguaglianza nei redditi. Si può forse aggiungere che almeno alcuni di coloro che parlano di disuguaglianze continuamente crescenti potrebbero riferirsi, per quanto confusamente, proprio alle disuguaglianze di benessere e non a quelle di reddito. In ogni caso una valutazione compiuta del fenomeno e una ponderata decisione sull’opportunità o meno di intervenire non può fare a meno di considerare, con la maggiore precisione possibile, gli aspetti che abbiamo elencato. 

Possiamo ora a cercare di dare risposta alla successiva domanda: al di là delle tendenze della disuguaglianza a crescere o meno, i meccanismi che la generano sono rilevanti di per sé per valutare l’opportunità di contrastarla?

Questa domanda intende, anzitutto, richiamare l’attenzione sul fatto che non sono rilevanti soltanto l’altezza della disuguaglianza e la sua eventuale tendenza a crescere; rilevanti sono anche i meccanismi che la producono, essendo ben possibile che la stessa disuguaglianza quantitativa sia diversamente giustificabile in termini anche etici e abbia conseguenze ed effetti diversi, in primis sul processo di crescita economica. Per fare un esempio, si pensi alla differenza tra una stessa disuguaglianza dovuta alla remunerazione delle abilità e capacità individuali in un contesto concorrenziale, oppure al godimento da parte di alcuni di posizioni protette dalla concorrenza e, quindi, generatrici di rendite. 

Per trattare sinteticamente un tema assai complesso ci limiteremo a poche considerazioni. La prima è che, come evidente dalla Figura 1 in cui si compara l’andamento della disuguaglianza dei redditi di mercato e disponibili nei principali paesi OCSE, in Italia la rilevata costanza della disuguaglianza nei redditi disponibili si accompagna, almeno fino agli anni più recenti e sempre in base all’indice di Gini, a una disuguaglianza ben più alta e fortemente crescente nei redditi di mercato equivalenti, cioè nei redditi misurati prima del pagamento delle imposte dirette e del percepimento delle pensioni e degli altri trasferimenti monetari dallo stato.

Fig. 1: Andamento dell’indice di Gini dei redditi equivalenti disponibili (pannello superiore) e di mercato (pannello inferiore) nei principali paesi OCSE dalla metà degli anni 1980 in poi.

Nota: in alcuni casi, il valore si riferisce all’anno disponibile più vicino a quello indicato nella figura. Fonte: elaborazioni su dati OCSE.

Sinteticamente, è accaduto che nel mercato i redditi di molti lavoratori hanno perso terreno, favorendo anche il fenomeno dei working poor  soprattutto, ma non soltanto, a causa del diffondersi del lavoro atipico involontario, con la conseguenza di trasferire quote di reddito dal lavoro al capitale e, al tempo stesso, di accrescere le disuguaglianze tra lavoratori. A questo proposito, come mostrato nel XVIII Rapporto Annuale INPS, i dati sull’andamento della disuguaglianza dei redditi annui lordi da lavoro dipendente nel settore privato sono impressionanti: il coefficiente di Gini delle retribuzioni annue è infatti aumentato di circa il 25% (da valori intorno a 0,340 a valori superiori a 0,420) dall’inizio degli anni ’80 del XX secolo al periodo precedente la pandemia. Analogamente, la quota di lavoratori a basso salario (quelli con retribuzione lorda annua inferiore al 60% della mediana) è cresciuta di oltre 5 punti percentuali (fino a un valore di poco inferiore al 31%) fra il 1990 e il periodo pre-pandemico. 

E anche i redditi non da lavoro si sono distribuiti in modo più diseguale, a vantaggio delle rendite finanziarie e di quelle derivanti da posizioni di tipo monopolistico. Va sottolineato che le disuguaglianze di mercato sono cresciute anche in fasi di espansione dell’occupazione che dovrebbero, invece, essere più favorevoli alla riduzione della disuguaglianza. Una conseguenza di tutto ciò è che le famiglie meno abbienti hanno contenuto la caduta dei loro redditi grazie al fatto che i loro membri hanno lavorato di più, con conseguenze certamente non positive per il proprio benessere.

Occorre anche sottolineare che le crescenti disuguaglianze nei redditi da lavoro solo in parte sono spiegate dal capitale umano, cioè dalle diverse capacità e abilità individuali, come abbiamo dimostrato in una nostra ricercaPer una quota rilevante quelle disuguaglianze dipendono dal settore e anche dall’impresa in cui si lavora, e da altre ‘caratteristiche’ (ad esempio di tipo relazionale) che i mercati poco concorrenziali tendono a premiare 

Tutto ciò appare sufficiente per interrogarsi, almeno, sull’opportunità di predisporre politiche di contrasto a questi meccanismi della disuguaglianza ed è altresì rilevante per valutare la possibilità di intervenire a contrastare soltanto la povertà, se questa include anche i working poor. Ma su questo torneremo nella terza e ultima parte di questo articolo. Ora dobbiamo dare conto di come sia possibile che, sulla base degli stessi dati, si abbia una crescente disuguaglianza nei redditi di mercato e un’apparente sostanziale costanza dei redditi disponibili. La risposta, semplice, è che l’azione redistributiva dello stato è cresciuta di intensità. 

Ma ciò non è avvenuto per la crescente progressività delle imposte, perché è noto che è accaduto l’opposto. Né è avvenuto per una attribuzione significativamente maggiore dei trasferimenti monetari in senso proprio a chi sta in basso nella scala dei redditi, se escludiamo il breve periodo di erogazione del reddito di cittadinanza. È avvenuto, essenzialmente, per effetto delle pensioni. Infatti, in Italia e non soltanto nel nostro paese, se la disuguaglianza nei redditi disponibili non riflette la disuguaglianza nei redditi di mercato la spiegazione sta nelle pensioni che affluiscono in misura relativamente maggiore alle famiglie che percepiscono redditi di mercato più bassi pur essendo possibile che alcuni percettori di rilevanti redditi da capitale (quindi di mercato) ricevano anche pensioni elevate. Da questo fatto possono trarsi le seguenti considerazioni. 

La prima è che non può non preoccupare il fatto che i mercati creino una disuguaglianza crescente, e con le caratteristiche che abbiamo ricordato, che le pensioni attenuano. La seconda è che le pensioni sono, sostanzialmente, reddito da lavoro posticipato e quindi non possono essere incluse tra le genuine attività redistributive dello stato. La terza è che, con le tendenze in atto nel mercato del lavoro e la quota crescente di giovani che non arriveranno a versare contributi sufficienti per accedere a una pensione decente – in presenza di un nuovo meccanismo di calcolo delle pensioni, come il contributivo, che esclude qualsiasi forma di redistribuzione non di tipo assistenziale –, questa funzione compensatrice delle pensioni è destinata a svanire. 

Gli elementi su cui riflettere sono quindi numerosi. Nella terza parte proveremo a avanzare qualche riflessione costruttiva, ricapitolando, intrecciando e integrando quanto abbiamo fin qui detto. 

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