ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 187/2023

13 Febbraio 2023

Disuguaglianza e povertà in Italia: proviamo a fare il punto (terza parte)

Maurizio Franzini e Michele Raitano nella terza parte del loro articolo illustrano le ragioni per le quali in Italia occorre preoccuparsi della disuguaglianza, e non soltanto della povertà. Al di là della questione se la disuguaglianza negli ultimi anni sia rimasta costante o sia cresciuta, rilevano le sue caratteristiche e i suoi meccanismi che, secondo Franzini e Raitano, sono in gran parte in contrasto con il merito e la crescita, oltre che negativi per l’ambiente e la democrazia. Tutto ciò influenza le politiche da adottare.

Nei nostri due precedenti interventi abbiamo cercato di chiarire quali sono i principali problemi che pone la corretta misurazione della disuguaglianza economica e le conseguenze per una fondata presa di posizione sulla sua tendenza negli anni più recenti. Abbiamo, altresì, fornito elementi per valutare il rapporto tra la disuguaglianza nei redditi e la più fondamentale disuguaglianza nel benessere economico e richiamato l’attenzione su alcune caratteristiche della disuguaglianza contemporanea rilevanti per valutarla, anche al di là della sua ‘grandezza’ come risulta dai principali indicatori. In questo terzo e ultimo intervento svilupperemo, sulla base di tutto ciò, alcune riflessioni sulle ragioni per le quali bisognerebbe o non bisognerebbe intervenire a contrastare le disuguaglianze e sulle politiche che potrebbe essere opportuno adottare per raggiungere i risultati migliori, non soltanto sotto il profilo della riduzione della disuguaglianza come normalmente misurata. 

Iniziamo ricordando quelli che sembrano essere i tre principali argomenti, tra loro diversi, a sostegno della tesi che non occorre preoccuparsi troppo della disuguaglianza, oggi e nel nostro paese. Il primo e più frequentemente citato negli ultimi tempi è quello che fa riferimento alla sostanziale costanza della disuguaglianza negli ultimi anni. E’, invece, in aggravamento la povertà (variamente misurata) e quindi occorre preoccuparsi soltanto di quest’ultima. Il secondo argomento è quello della disuguaglianza come condizione favorevole alla crescita economica e il terzo considera la disuguaglianza la conseguenza del riconoscimento del merito. Pertanto, contrastarla, stando a questi due argomenti, significherebbe frenare la crescita e mortificare il merito. Esaminiamo brevemente ciascuno di questi argomenti. 

Sulla questione della costanza della disuguaglianza negli ultimi anni abbiamo già illustrato le ragioni che consigliano maggior cautela nel fidarsi dei dati da cui risulta la costanza dell’indice di Gini dei redditi disponibili equivalenti. Il problema nasce, in particolare, dal dubbio (fondato) che siano accadute cose rilevanti nelle code estreme della distribuzione (molto ricchi e molto poveri) che sfuggono alle indagini campionarie. D’altro canto non appare convincente la tesi, implicita nelle prese di posizione di chi invita a non preoccuparsi se la disuguaglianza non cresce, che quest’ultima è un problema solo se si aggrava. A noi pare che possa esserlo anche se la sua altezza è elevata (come nel caso italiano) e se ha caratteristiche e implicazioni contrarie a quelle che possiamo considerare condizioni importanti di sviluppo e di progresso (ed anche questo, come diremo, sembra essere il caso italiano). Peraltro qualche riflessione sarebbe opportuna per spiegare perché la disuguaglianza che c’era 10 o 15 anni fa (che sarebbe, con i dati di cui si è detto, anche quella che c’è oggi) sia, di fatto, quella da prendere a riferimento per non preoccuparsi e non quella che c’era 30 anni fa, quando era indiscutibilmente inferiore a quella di oggi. Infine, qualche preoccupazione potrebbe suscitare – anche nell’ipotesi di costanza della disuguaglianza nei redditi disponibili – la forte crescita nella disuguaglianza nei redditi da lavoro e di mercato che si è manifestata, senza troppi dubbi, fino alla metà dello scorso decennio e che, come si è detto, è stata (malamente) compensata quasi esclusivamente dalle pensioni. 

Il merito e la crescita economica sono, in realtà, giustificazioni generali della disuguaglianza che non si riferiscono esclusivamente al caso italiano ma che ad esso possono essere – e spesso sono – riferite. La prima considerazione da fare è che non tutte le disuguaglianza sono uguali, se possiamo usare questa espressione, e in linea di principio può ben darsi che la disuguaglianza premi il merito (ma prima andrebbe definito con precisione) e sostenga la crescita. Ma la disuguaglianza contemporanea non è prevalentemente (e forse non è quasi per niente) di questo tipo. Vi sono, al contrario, fondate ragioni per considerarla in contrasto con il merito (variamente inteso) e con alcune essenziali condizioni di crescita economica.

Per quello che riguarda il merito a noi sembra che le disuguaglianze si producano in larga misura – anche se non in modo integrale – attraverso meccanismi che generano, nei mercati, ricchi poco meritevoli e poveri altrettanto poco meritevoli. Si tratta, soprattutto per quanto riguarda i molto ricchi, dei meccanismi – di varia natura – che derivano dalla limitazione della concorrenza e dalla conseguente formazione di posizioni di potere nei mercati e, più in generale, dall’assenza di forme di eguaglianza di opportunità sostanziale. Sono meccanismi che costringono le opportunità di molti di avviare attività remunerative; tali costrizioni si manifestano anche ad altri livelli, dall’accesso all’istruzione – fortemente condizionato dalle origini familiari sia nella sua ‘quantità’ che ‘qualità’ – a quello dell’accesso al credito – fortemente condizionato dalla ricchezza e quindi, spessissimo, di nuovo dalle origini familiari. Ma il merito sembra essere violato anche quando il possesso di un più elevato capitale umano viene penalizzato (con retribuzioni inferiori a quelle di chi ne possiede meno), come troppo spesso avviene nel nostro paese. Cosa venga remunerato invece del capitale umano, e perché, dovrebbe essere questione di primaria importanza e, diversamente da chi considera un più elevato reddito una misura esaustiva di un maggior merito, occuparsene significa che si sono colti motivi di preoccupazione non solo nell’altezza ma anche nella caratteristiche della disuguaglianza o – meglio – di una sua ‘parte’. E le disuguaglianze dovute al genere o ai territori non si vede come possano essere considerate meritocratiche. 

Quanto alla crescita si è ricordato che è nettamente prevalente, tra i più generali studi empirici, la conclusione che a una disuguaglianza più alta corrisponde una minore, non una maggiore, crescita economica. Uno sguardo, anche superficiale, all’Italia degli ultimi 2 o 3 decenni sembra dare sostegno a questa conclusione, soprattutto se si fa riferimento (come sembra appropriato in questo caso) alla disuguaglianza nei redditi di mercato: quest’ultima è aumentata mentre produttività e PIL perdevano slancio fino a stagnare. Questo poco felice modello di non sviluppo meriterebbe più attenzione, per le connessioni che legano i vari fenomeni,  della scarsa che riceve e ciò potrà più facilmente accadere se della disuguaglianza, di questa disuguaglianza, ci preoccupiamo. Si può solo accennare al fatto che in mercati poco concorrenziali, con forti protezioni e precarizzazione del lavoro, si producono simultaneamente fenomeni di indebolimento della crescita (della produttività, degli investimenti e del PIL) e di aggravamento delle disuguaglianze. Si può, cioè, ritenere che la disuguaglianza, sotto questo aspetto (che non considera peraltro i probabili effetti negativi sulla domanda aggregata), non sia la causa della ridotta crescita; piuttosto i due fenomeni sembrano essere l’esito congiunto delle medesime politiche, soprattutto politiche della concorrenza e politiche del lavoro.

Seguendo questa linea di ragionamento si giunge alla seguente conclusione: buona parte della disuguaglianza è conseguenza di politiche che hanno inciso sul funzionamento dei mercati (e, ci limitiamo a menzionarlo, sulla governance delle imprese) producendo un insieme di effetti negativi sulla crescita e sulla valorizzazione del merito. Contrastare questa disuguaglianza appare, almeno a noi, ampiamente giustificato e per farlo sono necessarie politiche che finiranno, nell’appropriato orizzonte temporale,  per incidere sulla disuguaglianza generata dai mercati, politiche che oggi si usa chiamare predistributive. L’aspettativa è che con queste politiche si assottiglierà sensibilmente il gruppo dei ricchi immeritevoli e quello dei poveri immeritevoli nei cui ranghi rientrano anche quasi tutti i working poor, con beneficio per la riduzione della povertà (oltre che per il riconoscimento della dignità del lavoro) da tutti auspicata. 

La disuguaglianza può, inoltre, assumere caratteristiche che la rendono, questa volta in senso proprio, causa di fenomeni fortemente negativi. Il riferimento è all’impatto negativo sull’ambiente e sui fenomeni di cambiamento climatico che diversi studi trovano essere maggiore quando la disuguaglianza è più elevata e, soprattutto, quando si caratterizza per una forte concentrazione dei redditi (e delle ricchezze) al top della distribuzione. L’ulteriore riferimento è al funzionamento della democrazia che ne risente non soltanto per la perdita di rappresentatività dei risultati elettorali (tra astensionismo e manipolazione) ma anche per il rafforzarsi di quei fenomeni di unequal voice rispetto alle varie decisioni politiche che possono facilmente essere indipendenti dai risultati elettorali. Le preoccupazioni crescenti per l’ambiente e la democrazia, se non vogliono essere solo l’anticamera della rassegnazione in chi le nutre con sincerità, dovrebbero prolungarsi in modo consapevole fino alle disuguaglianze economiche, che per la loro altezza e per le loro caratteristiche richiedono un vasto, e ben congegnato, insieme di politiche predistributive e redistributive. 

Se solo la povertà è considerata un problema e la si vuole combattere senza ridurre le disuguaglianze l’unica strada sembra essere quella della crescita economica che porti beneficio anche a chi sta più in basso (fermo restando che, se si segue un approccio di povertà relativa, la crescita economica, a meno che non sia particolarmente pro poor, non contribuisce a ridurre la povertà). Ma se la disuguaglianza ha l’altezza e le caratteristiche che rileviamo nel nostro paese, vi sono buoni motivi per ritenere che quel beneficio sarà assai flebile: perché la disuguaglianza frena la crescita e perché gran parte dei dividendi della crescita, come mostrano le esperienze recenti e come implica l’eventuale costanza della disuguaglianza, va nella parte più alta della distribuzione. A noi pare che per incidere rapidamente ed efficacemente sulla povertà sia utile e forse necessario incidere anche sulla disuguaglianza; siamo, altresì, del parere che tutto questo si possa fare con vantaggio per il merito, lo sviluppo e il progresso, cui non è certo estranea la giustizia sociale. Per farlo nel modo migliore, lo si è detto, occorre una combinazione di politiche predistributive e redistributive che aspirino a far sopravvivere solo quella disuguaglianza che per entità e caratteristiche è, appunto, compatibile con il merito, lo sviluppo e il progresso. 

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