Si legge spesso che in Italia le disuguaglianze sarebbero continuamente crescenti e che è urgente intervenire per fermare questa pericolosa dinamica. Si legge anche, meno spesso, che le disuguaglianze non sono affatto cresciute negli ultimi anni nel nostro paese e questo appare sufficiente per consigliare di non fare nulla contro le disuguaglianze. Se qualcosa deve essere fatto, si sostiene, occorre guardare nella direzione della povertà che, essa sì, è in crescita da qualche tempo. In poche parole, siamo di fronte a una discreta confusione forse alimentata dalla difficoltà a prendere atto che le questioni non sono così semplici come si vorrebbe, una difficoltà che l’emotività ideologica può aggravare.
Con questo nostro intervento, che proseguirà nei prossimi numeri del Menabò, ci proponiamo di offrire informazioni ed argomenti che speriamo utili almeno per chiarire i termini essenziali delle diverse questioni coinvolte. Lo faremo cercando di rispondere a 5 domande che consideriamo particolarmente importanti, e che sono le seguenti:
- quali sono le tendenze della disuguaglianza (soprattutto dei redditi) e della povertà in Italia dall’inizio del secolo, e quali le loro connessioni?
- i dati di cui disponiamo sono idonei a cogliere con precisione le dinamiche in atto nei vari segmenti della distribuzione dei redditi?
- il reddito, come comunemente misurato, è idoneo a rappresentare il benessere degli individui e cosa possiamo dire sull’andamento delle disuguaglianze di benessere rispetto a quelle di reddito?
- al di là delle tendenze della disuguaglianza a crescere o meno, i meccanismi che la generano sono rilevanti di per sé per valutare l’opportunità di contrastarla?
- quali implicazioni ha tutto quanto precede per le politiche con cui fare eventualmente fronte alla disuguaglianza?
In questo articolo cercheremo di rispondere alle prime due domande, rimandando l’esame delle altre ai due prossimi numeri del Menabò.
Per rispondere alla prima domanda sono di enorme aiuto i dati campionari – sia di fonte Istat che Banca d’Italia – sulla distribuzione fra individui del reddito disponibile equivalente, che è considerato la variabile che meglio rappresenta il benessere economico. Il reddito disponibile equivalente si ottiene sommando tutti i redditi di mercato e i trasferimenti monetari provenienti dallo Stato, al netto delle imposte personali e dei contributi a carico dei lavoratori, percepiti dai membri del nucleo familiare; per consentire il confronto fra individui che vivono in nuclei familiari di diversa dimensione e godono, dunque, di diverse economie di scala familiari, si fa ricorso ad apposite scale che permettono di considerare i redditi equivalenti a livello individuale.
Dunque, con riferimento a tali redditi, la Figura 1 mostra l’andamento del coefficiente di Gini, il più comune indice di disuguaglianza, che varia fra 0 e 1 nel caso, rispettivamente, di perfetta eguaglianza nella distribuzione o di massima concentrazione del reddito in un solo individuo. La figura, sull’asse destro, visualizza anche l’andamento del coefficiente di Gini della ricchezza netta pro capite (calcolato dalla Banca d’Italia in base allo stock totale di ricchezza finanziaria e immobiliare detenuta dalle famiglie, al netto di eventuali debiti).
Dai dati – sia di fonte Istat che Banca d’Italia, come si è detto – appare evidente che la disuguaglianza dei redditi, così come viene comunemente misurata, è rimasta sostanzialmente costante dal 2000 e tale costanza si è prolungata anche al 2020, grazie all’azione compensativa del Governo per far fronte agli effetti economici della pandemia (come già messo in luce da Gallo e Raitano sul Menabò). La disuguaglianza della ricchezza – che è più elevata di quella dei redditi, essendo lo stock di ricchezza ben più concentrato dei redditi – ha seguito una diversa dinamica: è cresciuta negli anni di recessione, come mostrano i dati relativi al 2010, al 2012 e al 2020, mentre si è leggermente ridotta tra il 2014 e il 2016.
Figura 1: Andamento del coefficiente di Gini del reddito disponibile equivalente (asse sx) e della ricchezza (asse dx) pro capite in Italia fra il 2000 e il 2020
Quando dalla disuguaglianza – che riguarda le distanze fra tutti gli individui – si passa alla povertà – ovvero l’attenzione si rivolge unicamente a chi si situa nella parte bassa della distribuzione – il quadro si fa più articolato (Figura 2). L’incidenza della povertà relativa – che registra la quota di individui con reddito disponibile equivalente inferiore al 60% di quello mediano – è cresciuta in modo molto limitato fra il 2005 e il 2020; dunque, ha seguito un andamento simile a quello della disuguaglianza. Al contrario, l’incidenza della povertà assoluta – ovvero la quota di famiglie che spende per consumo meno del costo di un paniere di beni ritenuto come necessario – è praticamente raddoppiata fra il 2011 e il 2020.
Figura 2: Andamento dell’incidenza della povertà relativa e assoluta in Italia fra il 2005 e il 2020
In queste note non approfondiamo le implicazioni delle diverse misure di povertà, di cui si è già discusso sul Menabò. Va però sottolineato come la sostanziale costanza dell’indicatore di povertà relativa sia coerente con la dinamica della disuguaglianza dei redditi. Infatti, tale concetto di povertà fissa la soglia sotto la quale si è considerati poveri in base alla mediana della distribuzione dei redditi (che varia nel tempo a seconda del ciclo economico) e perciò non cattura l’eventuale impoverimento di parte della collettività, mentre risente della disuguaglianza nella ‘coda bassa’ della distribuzione. L’indicatore di povertà assoluta basandosi, invece, su una soglia che non varia nel tempo, se non per la variazione dei prezzi dei beni inclusi nel paniere di riferimento, è in grado di cogliere un impoverimento, appunto, ‘assoluto’ della popolazione, ovvero l’aumento del numero di coloro che non raggiungono livelli di consumo considerati minimali.
La diversa dinamica della disuguaglianza e della povertà relativa, da un lato, e della povertà assoluta, dall’altro, porta, quindi, molti commentatori a affermare che l’enfasi sulla prima sarebbe mal posta. Pertanto, le politiche dovrebbero essere indirizzate esclusivamente a migliorare le condizioni di vita dei meno abbienti e non anche a mitigare altre sperequazioni, ad esempio quelle che sussistono tra classe media e ricchi. Tuttavia, la domanda da porsi, prima di entrare nel merito di queste raccomandazioni, è: possiamo fidarci interamente delle dinamiche della disuguaglianza dei redditi che suggeriscono i dati campionari? Si tratta, sostanzialmente, della seconda delle nostre 5 domande e la risposta è: sfortunatamente, non troppo.
Il problema è che si possono nutrire forti dubbi sulla capacità dei dati campionari di rappresentare con esattezza ciò che accade nelle parti estreme della distribuzione, ovvero fra i molto poveri e fra i molto ricchi. In particolare, è difficile cogliere quanto accade nella coda alta (nel top 1% o addirittura nel top 0,1% della popolazione), dal momento che i molto ricchi tendono a non essere rilevati nelle survey in misura proporzionale alla loro consistenza e dispongono di fonti di reddito più difficilmente misurabili. Ciò può portare a una forte sottostima della disuguaglianza. Per fare un esempio estremo, in una popolazione in cui tutto il reddito fosse concentrato nelle mani di un unico individuo e gli altri non avessero nulla (o molto poco), alle indagini campionarie potrebbe sfuggire colui che concentra tutto il reddito con la conseguenza che la società sembrerebbe perfettamente egualitaria.
Se poi, nel tempo, la concentrazione dei redditi nella parte alta della distribuzione si accentuasse si sottostimerebbe anche la crescita della disuguaglianza. Analogamente, una condizione di povertà sempre più accentuata che portasse a fenomeni gravi di esclusione sociale e disagio materiale – in primis a discapito della popolazione immigrata – sarebbe difficilmente colta da un’indagine basata sulle interviste a un campione rappresentativo di famiglie.
Sulla misura della sottostima del livello della disuguaglianza ci viene in ausilio l’indagine 2020 sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia che ha proposto una modalità innovativa per selezionare il campione anche in base alle informazioni sulle condizioni reddituali e di indebitamento, in modo da migliorare la capacità dell’indagine di rilevare i segmenti della popolazione più ricchi o più indebitati. L’utilizzo dei tradizionali pesi di riporto all’universo della popolazione intervistata restituisce un valore del coefficiente di Gini nel 2020 pari a 0,333, ma tale valore aumenta in misura molto considerevole – a 0,395 (con un aumento del 18,6%) – se la disuguaglianza viene calcolata applicando pesi di riporto all’universo che tengono conto anche del livello di reddito e di indebitamento, così riducendo la sottostima delle disuguaglianze riguardanti la coda estrema.
La nuova metodologia è applicata soltanto ai dati del 2020, perciò non è possibile correggere il trend del coefficiente di Gini e, dunque, confutare la conclusione che la disuguaglianza in Italia sia rimasta costante negli ultimi due decenni. Tuttavia, altri dati, di natura fiscale e amministrativa, benché distorti da evasione e elusione fiscale, segnalano come in Italia nel corso degli ultimi decenni sia cresciuta la quota di reddito appropriata da chi si colloca nella parte alta e altissima della distribuzione: in particolare, in base ai dati prodotti, in una ricerca attualmente in corso, da Demetrio Guzzardi e Salvatore Morelli, dal 2020 in poi la quota di reddito lordo appropriata dal top 1% e 0,1% della distribuzione sarebbe ulteriormente cresciuta di circa 1 e 0,5 punti percentuali, rispettivamente.
Esaminare le tendenze della disuguaglianza senza poter tenere conto con precisione di quello che accade nei segmenti estremi della distribuzione rischia, dunque, di condurre a conclusioni fuorvianti, e tanto più sarà così quanto più nel periodo esaminato sono cresciute povertà e ricchezza estrema.
Possiamo quindi sintetizzare ed intrecciare le nostre risposte alle prime due domande. I dati campionari suggeriscono che la disuguaglianza nei redditi disponibili non è aumentata in Italia negli ultimi due decenni ma tali dati molto probabilmente sottovalutano l’effettiva dinamica della disuguaglianza perché non riescono a tenere conto di quanto accade nelle code estreme della distribuzione. La povertà relativa, per la sua stessa definizione, ha seguito una dinamica simile a quella della disuguaglianza mentre, come è ben noto, la povertà assoluta è cresciuta. Se ci si riferisce a quest’ultima e la si pone a raffronto con la disuguaglianza nei redditi disponibili si compie un’operazione che la diversità dei dati considerati (in particolare spesa per consumo per la povertà e reddito per la disuguaglianza) non dovrebbe permettere. In effetti usando sempre dati di reddito non è facilissimo che si verifichi che mentre cresce il numero di coloro che varcano verso il basso la soglia della povertà le distanze medie di reddito tra tutti gli individui restino costanti. A maggior ragione ciò si verifica se aumenta il reddito di coloro che occupano la parte più alta della distribuzione.
In breve, l’affermazione che “la povertà è cresciuta e la disuguaglianza no” va presa, per le diverse ragioni che abbiamo richiamato, con grandissima cautela. Allo stesso tempo, con altrettanta se non maggiore cautela va presa la proposta di policy che si può frettolosamente trarre da tale affermazione e cioè che solo la povertà e non anche la disuguaglianza va contrastata. Nei nostri prossimi interventi avremo modo di illustrare le ragioni di questa affermazione, per ora ci limitiamo a ricordare che in base al coefficiente di Gini l’Italia è fra i paesi sviluppati a più elevata disuguaglianza. Basti pensare che nel 2020 soltanto 4 paesi dell’Unione Europea (Bulgaria, Lettonia, Lituania e Romania) presentavano un coefficiente di Gini dei redditi disponibili equivalenti più elevato di quello italiano. Fra i paesi dell’UE con reddito pro capite simile, l’Italia è, dunque, sicuramente quello più diseguale. Si può pensare che non sia rilevante contrastare un fenomeno di questa gravità solo perché non emergono segnali di un suo ulteriore aggravamento? E davvero si potrebbe contrastare la povertà senza incidere sulla disuguaglianza? Anche a queste domande cercheremo di dare risposta nei prossimi numeri del Menabò.