ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 189/2023

14 Marzo 2023

Disuguaglianza economica e giustizia ambientale

Maurizio Franzini interviene sui rapporti tra la disuguaglianza economica e la disuguaglianza ambientale esaminando e commentando due recenti Rapporti sul tema e riflettendo su come si possa intervenire per ridurre entrambe le disuguaglianze, nel breve e nel lungo periodo. Al riguardo Franzini considera diverse politiche e si interroga sulla possibilità che la guerra in Ucraina attivi reazioni e dinamiche che possono modificare le politiche energetiche in senso favorevole alla coesistenza di giustizia economica e ambientale.

Di ‘giustizia ambientale’ si parla con crescente frequenza. L’espressione sembra sia nata all’inizio degli anni ’80 nella Carolina del Nord quando venne fatta propria dal movimento che si opponeva alla decisione di seppellire i rifiuti tossici in una discarica collocata nella contea di Warren, una contea ad alto insediamento di neri. Quella decisione nasceva, evidentemente, dalla convinzione che spettasse ai poveri sopportare il gravissimo rischio ambientale connesso agli scarti di attività di cui beneficiavano soprattutto i ricchi. All’ingiustizia sociale si sommava, quindi, un’ingiustizia ambientale – e non soltanto a Warren e non soltanto per i rifiuti tossici. 

I problemi ambientali, soprattutto quelli globali, hanno svariate implicazioni per la giustizia e l’equità. Quando, nei primi anni ’90, si iniziò a riflettere sullo sviluppo sostenibile, fu l’equità intergenerazionale a ricevere le maggiori attenzioni e non c’è da sorprendersi considerando che allo sviluppo sostenibile si chiedeva di evitare che il benessere della generazione presente pregiudicasse quello della generazione futura. Tra i contributi rilevanti si possono citare quello di Norgaard del 1992 e quelli, anche precedenti, di Dasgupta. 

Ma, come è divenuto progressivamente più chiaro, i problemi di equità e giustizia posti dal cambiamento climatico sono anche intra-generazionali, interni alla generazione presente e riguardano, soprattutto, il diverso impatto dei danni provocati da quel ‘male pubblico’ che è il cambiamento climatico nonché il collegamento tra la distribuzione di questi danni e le disuguaglianze economiche. I nessi, numerosi e multidirezionali, tra disuguaglianza economica, da un lato, e intensità del ‘male pubblico’ e distribuzione dei suoi costi o danni, dall’altro, coprono una vasta area del territorio in cui si incontrano (o non si incontrano) giustizia sociale e giustizia ambientale. Alla conoscenza di quei nessi nonché alla riflessione su cosa sarebbe necessario fare per avere più giustizia in entrambi gli ambiti dà un utile contributo il Climate inequality report 2023 pubblicato a gennaio dal World Inequality Lab e redatto da L.Chancel, P. Bothe e T.Voulturiez. Utile è anche un recente Rapporto dell’IEA. Va subito detto che i dati si fermano al 2021 e quindi non tengono conto della guerra in Ucraina e dei suoi effetti. 

Questi due rapporti presentano una mole impressionante di informazioni, di dati e di stime che permettono di conoscere meglio la disuguaglianza climatica intesa come diverso contributo (attraverso le emissioni) al ‘male pubblico’ del cambiamento climatico e come diseguale distribuzione dei danni che esso provoca. Per comprensibili ragioni, molti di questi dati non sono del tutto attendibili, come riconoscono gli stessi autori. Ma l’ordine di grandezza dei fenomeni è tale che ben difficilmente eventuali revisioni altererebbero la sostanza dei problemi. Esaminiamo, allora, alcuni di questi dati iniziando da quelli relativi al grado di concentrazione delle emissioni inquinanti e al loro rapporto con la disuguaglianza economica. 

La concentrazione delle emissioni: paesi e persone. Le emissioni medie di un americano sono 10 volte quelle di un indiano e 11 volte quelle di un africano. In Congo e in gran parte dell’Africa centrale e orientale le emissioni di circa metà della popolazione (ovviamente la più povera) sono praticamente nulle. 

A queste rilevanti differenze medie tra paesi si associano enormi differenze tra individui: il 10% dei maggiori inquinatori è responsabile di circa la metà delle emissioni totali e le emissioni del top 1% sono 1000 volte superiori a quelle dell’1% che emette meno. Questi dati sono riferiti al 2021. 

Quanto al rapporto con la disuguaglianza economica, a livello globale le emissioni del 10% più ricco sono circa 200 volte quelle del 10% più povero. Guardando all’interno dei paesi si nota che il 10% più ricco in Cina ha una ‘impronta ecologica’ 33 volte più grande di quella del 10% più povero; negli Stati Uniti di 16 volte. 

Dunque, le crescenti disuguaglianze economiche all’interno dei paesi degli ultimi decenni si sono riflesse in crescenti disuguaglianze nelle emissioni al punto che queste ultime oggi spiegano circa 2/3 della complessiva disuguaglianza globale nelle emissioni, con una completa inversione rispetto al 1990 quando contavano molto di più le disuguaglianze medie tra paesi che non quelle al loro interno. 

Se ci concentriamo sul 10% dei maggiori inquinatori a livello globale (che rappresentano una popolazione di 782 milioni di persone) osserviamo che l’85% di essi risiede nei paesi avanzati e in Cina; il restane 15% in Medio Oriente, Russia e Sud africa, paesi economicamente molto diseguali (quindi con ricchi che sono molto ricchi) e forti utilizzatori di fonti fossili. Il 10% che inquina meno si trova invece in Africa e in Asia e molti di coloro che rientrano in questo gruppo non hanno nemmeno accesso all’elettricità, vivono cioè in condizioni di estrema povertà energetica, un fenomeno che con intensità diversa è presente anche tra i poveri economici dei paesi avanzati e che appare in aumento

Una visione di assieme si può trarre da questa figura (di fonte IEA) che mostra le emissioni pro-capite per decile di reddito e per grandi aree geografiche 

Come si vede, le emissioni oltre ad essere crescenti al passaggio ai decili più ricchi, presentano un vero e proprio salto – particolarmente marcato negli Stati Uniti – in corrispondenza del 10° decile. Di interesse è anche il fatto che le emissioni dei più ricchi tra i cinesi superino quelle dei loro omologhi europei, mentre per gli altri decili le differenze sono minime. 

Che i più ricchi siano i principali inquinatori non può sorprendere: i loro consumi in valore assoluto sono maggiori e alcuni di essi (specialmente nel caso dei super ricchi) sono altamente inquinanti (si pensi agli aerei o yacht privati). Ma rilevano, naturalmente, anche le fonti energetiche e le modalità di produzione dei vari beni, fattori di cui si è cercato di tenere conto nelle stime presentate. 

La distribuzione dei danni da cambiamento climatico. Esaminiamo ora brevemente come si distribuiscono i danni causati dal nostro ‘male pubblico’. Anche in questo caso vi sono differenze rilevanti a livello di paesi, di aree geografiche e di individui (o gruppi di individui). 

La prima manifestazione del diseguale impatto del cambiamento climatico si ha con riferimento alla crescita del Pil. I più penalizzati sono stati i paesi a basso reddito con l’effetto di un grande ampliamento negli ultimi decenni (si parla del 45%) delle distanze tra Pil del global north e del global south

Parte della spiegazione di questa dinamica sta nei danni che – in vari modi – il cambiamento climatico ha inflitto all’agricoltura, che è ben più importante per le economie dei paesi meno sviluppati. Si stima che la produttività totale dei fattori in quel settore sia diminuita negli ultimi decenni di oltre il 30%. Peraltro i danni all’agricoltura incidono sul benessere non solo attraverso la perdita di reddito ma anche per i loro effetti sulla sicurezza alimentare, nonché sull’emigrazione forzata dal degrado ambientale.

Quanto ai rischi derivanti dall’innalzamento del livello dei mari, ad essi sarebbero esposte nel mondo 1 miliardo e 800 milioni persone ma ciò che più conta è che circa 780 milioni di esse sarebbero estremamente povere (cioè con consumi giornalieri inferiori ai 5,5 dollari). Naturalmente i danni derivanti da questi e da altri simili rischi dipendono largamente dalla resilienza e dalla protezione su cui in vari modi si può contare e che è, anch’essa, legata al reddito e alla ricchezza. 

Un’ulteriore area di grave rischio è quella della diffusione di malattie endemiche per effetto del cambiamento climatico, soprattutto malattie tropicali, colera e malaria, ed è facile prevedere che a essere colpiti saranno principalmente i più poveri dei paesi poveri e forse soprattutto le donne. 

Guardando congiuntamente alla distribuzione sia dei danni provocati dal cambiamento climatico sia delle origini delle emissioni si giunge facilmente alla conclusione che chi genera più emissioni (i ricchi, siano essi paesi o individui) ne sopporta meno le conseguenze, e talvolta ne ottiene perfino un vantaggio.  Come in una tipica esternalità negativa il fatto che altri sopportino le conseguenze negative delle nostre azioni spiana la strada ai ‘mali pubblici’. E in questo caso rileva anche che gli effetti negativi delle azioni non si manifestano in tempi brevi. 

Come ricongiungere giustizia sociale e giustizia ambientale? Questioni di breve e di lungo periodo. I dati che abbiamo esaminato sono molto utili per conoscere meglio un problema che viene sempre più di frequente evocato, quello dei nessi tra violazione della giustizia economica e sociale, da un lato, e violazione della giustizia ambientale, dall’altro. Essi sono anche, e soprattutto, utili per riflettere su come fare fronte a quel problema. 

La prima riflessione è che occorre distinguere tra breve e lungo periodo. Nel breve la giustizia ambientale richiede interventi di mitigazione dei danni che possono ricadere sui più poveri e di cui si avvantaggerà anche la giustizia economica se, attraverso un’opportuna tassazione, saranno i più ricchi (sia paesi, sia individui) a finanziare quegli interventi. Questa politica di ‘tassazione (dei ricchi) più mitigazione (per i poveri)’ è quella maggiormente raccomandata nel Climate Inequality Report ed ha alcuni di contatto con il Loss and Damage deciso in occasione del recente Cop 27 di Sharm-el-Sheikh.  

Misure di mera ed esclusiva diretta redistribuzione del reddito dai ricchi ai poveri certamente auspicabili sul piano della giustizia economica e sociale, avrebbero – da sole – effetti ben poco rilevanti sulla mitigazione che è necessaria per la giustizia ambientale. E avrebbero, altresì, effetti incerti sulle emissioni complessive (rilevanti nel lungo periodo) perché i poveri hanno una propensione al consumo maggiore di quella dei ricchi ma molti di questi ultimi hanno abitudini di consumo particolarmente dannose per l’ambiente. Quindi, la riduzione delle disuguaglianze da sola non è sufficiente per migliorare, nel breve periodo. la situazione della giustizia ambientale. 

Nel lungo periodo la questione principale è, però, quella delle fonti energetiche e dell’abbandono delle fonti fossili. I dati sul recente passato non sono, al riguardo, incoraggianti. Secondo l’IEA con la ripresa economica del 2021 le emissioni sono cresciute del 6% e l’incremento nella loro quantità, in valore assoluto, è stato il più alto mai registrato in un singolo anno. Questo stato di cose dipende certamente dalla timidezza delle politiche complessivamente adottate al riguardo che, almeno in parte, sono frutto di quel crony capitalism al quale ho già avuto modo di riferirmi sul MenabòLe disuguaglianze economiche e più specificamente la concentrazione della ricchezza e del potere economico, nel settore energetico, hanno favorito, per usare un eufemismo, la timidezza delle politiche. E emerge così una modalità di influenza profonda e di lunga durata delle disuguaglianze economiche (intimidire il potere politico) sulla giustizia ambientale. Le vittime odierne di questa ingiustizia non sarebbero probabilmente tali se le disuguaglianze economiche del passato non avessero impedito (o almeno contribuito a impedire) politiche energetiche in grado di prevenire i danni che esse subiscono. 

Ma le vicende dell’ultimo anno potrebbero segnare un punto di svolta molto importante. L’articolo di Silvestrini in questo stesso numero del Menabò documenta l’impulso che le energie rinnovabili hanno ricevuto, almeno in Europa, dopo la crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina e che fanno sperare in un cambiamento duraturo di marcia. Segnali di segno opposto, però, non mancano. Proprio mentre chiudo queste note apprendo dell’intenzione dell’amministrazione americana di autorizzare un piano di enormi trivellazioni petrolifere in Alaska e, comunque, in Occidente la ricerca di nuovi paesi fornitori di petrolio e gas procede. 

Guardando al futuro vediamo due strade. La prima è, sostanzialmente, quella del Business (energetico) as Usual. La seconda è quella del cambiamento che accende il nostro ottimismo e che acquista vividezza anche ricordando la tesi di Scheidel (La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria ad oggi, Il Mulino, 2019), non verificata però nel caso della pandemia, secondo cui le catastrofi e le tragedie favoriscono la riduzione delle disuguaglianze. Infatti, malgrado le apparenze al contrario, quella tesi può essere rilevante per il nostro caso, anche se per ragioni diverse da quelle a cui pensava Scheidel. I passi che mi arrischio a ipotizzare sono quattro: c’è la catastrofe – la guerra – che – anche tenendo conto delle nuove prospettive geopolitiche – ha tra i suoi effetti di mettere in pericolo la sovranità energetica di molti paesi; c’è la reazione che è il ricorso alle fonti rinnovabili che prelude a un settore energetico meno monopolistico; c’è il beneficio per la disuguaglianza economica, che sta proprio nel venire meno dei giganteschi monopoli energetici e delle connesse rendite ai cui effetti potrebbero aggiungersi quelli rappresentati dai probabili vantaggi dei consumatori; c’è, infine, e soprattutto, la possibilità che, anche grazie all’indebolimento dei monopoli, si sgretoli quel crony capitalism da cui dipendono molti dei guai del presente. In questo esercizio di ottimismo, immagino (auspico?), in definitiva, che la guerra e la geopolitica aiutino il potere politico – almeno in alcuni paesi, quelli privi di sovranità energetica – a fare ciò che in tempi normali non riesce a fare: coniugare, come richiederebbe la democrazia, giustizia sociale e giustizia ambientale, nel breve e, soprattutto, nel lungo periodo. Chissà. 

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