ALL'INTERNO DEL

Menabò n.174/2022

14 Giugno 2022

Domande aperte sulla meritocrazia

Elena Granaglia, prendendo spunto dalle tante riflessioni presentate al recente Festival Internazionale dell’Economia di Torino, si concentra sull’ideale meritocratico, individuando sei domande lasciate aperte. La sua conclusione è che, forse, dovremmo spostare l’attenzione dalla meritocrazia al valore delle competenze. Ma, sostiene Granaglia, le domande aperte dovrebbero essere di interesse anche per chi non condivida tale conclusione. Per considerare la meritocrazia un ideale occorre chiarirne meglio caratteristiche, confini e implicazioni.

Abbracciare la meritocrazia appare a molti la via obbligata per contrastare le tante iniquità e le tante inefficienze prodotte dal nepotismo, dai condizionamenti posti sulle chances di vita dei figli dall’origine familiare e dalle tante forme di discriminazione esistenti. Grazie alla meritocrazia, finalmente, ciascuno di noi potrebbe raggiungere quanto i propri talenti e il proprio sforzo permettono di ottenere. “Carriere aperte ai talenti”, “eccellenza indipendentemente dalla provenienza”: questo è il grande sogno della meritocrazia. Chi potrebbe opporvisi? Non a caso, la meritocrazia è uno dei valori più condivisi nelle nostre società.

La versione sostanziale aggiunge la necessità di livellare il campo da gioco. Non basta sradicare le norme giuridiche che discriminino sulla base della provenienza familiare o di determinati tratti naturali. Occorre andare oltre i meriti correnti per assicurare effettivamente a tutti e a tutte le stesse opportunità di sviluppare le proprie abilità. L’investimento in istruzione è, a tal fine, considerato cruciale.

A dispetto dell’apparente attrattività dell’ideale, le questioni che la meritocrazia lascia aperte sono, tuttavia, tante. Non mi soffermo, in questa sede, sulle difficoltà pratiche che la sua realizzazione incontrerebbe. Prendere alla lettera l’impegno a livellare il campo da gioco, ad esempio, potrebbe richiedere niente di meno dell’abolizione stessa della famiglia. Se propendessimo, come è plausibile, per il mantenimento della famiglia, non solo la lotteria sociale continuerà, invece, ad influenzare lo sviluppo delle abilità. La meritocrazia stessa potrebbe indebolire la sostenibilità della redistribuzione necessaria a sostenere chi nasce in famiglie meno avvantaggiate. Perché i più bravi dovrebbero rinunciare ai frutti dei loro meriti, per redistribuire a favore dei figli di chi non è stato sufficientemente bravo?

Mi concentro, invece, su domande aperte intrinseche all’ideale meritocratico. Il Festival internazionale dell’economia recentemente svoltosi a Torino ha fornito lo scenario per lo sviluppo delle riflessioni che seguono.

Domanda n.1. Come definire il merito? La risposta più diffusa, a partire dal lavoro di Michael Young, cui si deve il termine meritocrazia, è quella che rimanda a abilità e sforzo. Ma quali abilità considerare? Young poneva l’accento sulle abilità cognitive. Vi sono, però, anche le abilità non cognitive, le cosiddette social skills, oggi sempre più importanti al fine del successo. E vi sono altre abilità naturali oltre a quelle cognitive. Anch’esse fanno parte del merito?

Inoltre, le abilità sono abilità generali, come appunto per Young, il quale faceva leva sul quoziente intellettivo, oppure, seguendo David Miller, sono le prestazioni che quelle abilità producono, ad esempio, vincere Roland Garros, produrre una data innovazione, sapere Confucio a memoria come nell’antica Cina?

E, ancora, le motivazioni contano? È o non è la stessa cosa, sotto il profilo del merito, impegnarsi e sviluppare una data abilità per sopraffare oppure per aiutare gli altri?

Domanda n.2. Chi definisce il merito? A differenza del convincimento meritocratico che i meriti dipendano esclusivamente da noi, siano, un elemento pre-istituzionale, prodotto delle nostre abilità e dei nostri sforzi, sono gli altri che decidono il valore da dare a una abilità o un’altra, a una prestazione o a un’altra.

Un soggetto potrebbe essere bravissimo in una data attività, ma se gli altri non ne riconoscono la bravura, quel soggetto non avrebbe alcun merito. Potrei essere in grado di intrecciare liane di alberi benissimo, me se nessuno valuta quell’attività non avrei alcun merito. In questo senso, la definizione del merito incorpora inevitabilmente una dimensione di controllo. Sono gli altri che hanno il controllo sul nostro merito. Stabilire chi ha il potere di definire i meriti diventa centrale.

Proprio per favorire l’emersione della pluralità di meriti, un socialdemocratico come Klaus Offe difendeva il ruolo dei mercati decentralizzati e ben funzionanti nella definizione dei meriti. Sono gli acquirenti che, sulla base delle loro diverse preferenze definiscono chi è meritevole e chi non lo è. Ad esempio, un bravo cuoco è colui che, grazie alle sue abilità e al suo sforzo, riesce ad attrarre molta clientela.

Così procedendo, oltre ai limiti associati alla derivazione dei meriti dai redditi che si riescono a acquisire di cui tratterò più sotto, si pone la questione della parzialità dei meriti. Risulterebbero meritevoli solo coloro le cui abilità/prestazioni possano essere oggetto di valutazione in termini di prezzi. I meriti non di mercato, come la cura degli altri e dell’ambiente, resterebbero trascurati.

Domanda n.3. Come misurare il merito? Si ipotizzi di convenire sulla definizione di merito e di volere procedere alla misurazione delle abilità cognitive. La questione è che, anche in presenza di consenso sulla definizione, non abbiamo alcuna garanzia di ottenere una misurazione coerente. Se, ad esempio, nei test, si decide di non penalizzare le risposte sbagliate si potrebbero svantaggiare le donne, le quali tendono a rischiare meno degli uomini. Al contempo, però, fare stare seduti adolescenti per 2 o 3 ore durante la somministrazione dei test potrebbe penalizzare i maschi. Le domande scelte, inoltre, potrebbero contenere bias impliciti.

Ancora, alla luce della multidimensionalità del merito, come ha ricordato Luigi Zingales a Torino, come valutare un medico stellare sotto il profilo tecnico, ma per nulla empatico, rispetto a un collega solo di poco più bravo, ma assai empatico? I big data servirebbero a poco, anche perché si basano su informazioni retrospettive che potrebbero rivelarsi inadeguate in un mondo in rapido cambiamento.

Domanda n.4. Come applicare il merito? John Rawls ha ben messo in evidenza che un conto è utilizzare il merito – nonostante tutte le difficoltà appena richiamate – quale criterio di selezione nell’accesso alle posizioni di vantaggio e un altro è quello di utilizzarlo come criterio di legittimazione delle disuguaglianze di reddito conseguenti. Un conto cioè è asserire che chi vince la gara è il più bravo e un altro è asserire che chi vince si meriti anche tutto quello che gli altri sono disposti a dargli. Ad esempio, un conto è dire che il più bravo tennista a Roland Garros è chi vince la finale e un altro è dire che chi vince si merita qualsiasi premio gli organizzatori siano disposti a dargli.

Ancora, si pone la questione delle differenze di reddito rispetto a chi perde. Anche a questo riguardo, un conto è ordinare i più bravi, un altro è quantificare le differenze di reddito fra loro.

Domanda n.5. In quali ambiti dell’interazione umana applicare il merito? La risposta alla domanda precedente influenza anche la risposta a questa domanda. Se condividiamo il ruolo del merito quale criterio di giustificazione delle disuguaglianze di mercato, allora, i mercati potrebbero rappresentare un regno del merito. Appare, invece, difficile sostenere la meritocrazia dei mercati qualora si accetti la prospettiva del merito come criterio unicamente di selezione.

Ma non è tutto. Dobbiamo, ad esempio, applicare il merito alla politica? Tornando un’ultima volta a Zingales, il presidente Truman, negoziante fallito di cravatte, non potrebbe essere considerato più capace, nella gestione del rischio di guerra nucleare, del presidente Kennedy, laureato a Harvard e circondato da consiglieri con il medesimo background?

Domanda n.6. Perché premiare il merito? Oltre che sull’efficienza, i difensori della meritocrazia fanno leva sulla giustizia. Premiare il merito significherebbe ricompensare chi ha la “virtù” di fare al meglio ciò che la società ricerca. Ma se contano le nostre abilità naturali e la mutevole valutazione di queste ultime da parte di altri il merito dipende ben poco da noi. Riuscire a vincere o no la gara dipende, inoltre, dalle caratteristiche dei nostri concorrenti. Lo sforzo stesso potrebbe dipendere dalle abilità o avere una componente naturale oltre a essere influenzato dal caso idiosincratico (nonché, nei mondi reali dove il campo da gioco non è livellato, dalla lotteria sociale).

Il merito quale fonte di legittimazione delle disuguaglianze nelle remunerazioni aggiunge la dipendenza dalla struttura di premi e remunerazioni che caratterizza i singoli mercati. Anche questa, non dipende dagli individui.

Tornando al tennis, è evidente che Nadal sia un campione. Ma, a prescindere dalle carenze odierne nel livellamento del campo da gioco, Nadal beneficia di una potenza fisica e di un estro, che altri non hanno, che gli deriva dalla lotteria naturale. Beneficia, nel tipo di allenamento di cui può disporre, di effetti cumulativi del tipo Matteo (secondo cui chi più ha più avrà). Beneficia di vivere in un momento in cui la distribuzione del reddito e i gusti gli assicurano una domanda elevata, potenziata dalle tecnologie dal consumo non rivale (che gli permettono di espandere senza costi la visione delle sue prestazioni in tutto il mondo) nonché dall’economia del brand. Seguendo Nick Bollettieri, beneficia, forse, anche di “qualcosa di selvaggio, un desiderio di vincere che lo rende unico, una tenacia che lo porterebbe a morire prima di perdere un match”: una dote non da tutti.

Certo, molti difensori della meritocrazia hanno richiesto e richiedono mercati competitivi. Se così, le rendite derivanti dalle tecnologie del consumo non rivale e dall’economia del brand non sarebbero meritate. Altri hanno riconosciuto e riconoscono il peso del caso, ma quale è il controfattuale, si chiedono? L’alternativa, per loro, sarebbe un mondo in cui capaci e incapaci, pigri e laboriosi sarebbero tutti trattati allo stesso modo e lo sforzo sarebbe ignorato.

Il punto è che anche i mercati competitivi sono dominati dal caso, che influenza il gioco della domanda e dell’offerta, e dai rapporti di potere sanciti dai diritti di proprietà. Al contempo, la questione dell’assenza di alternative resta sbrigativamente trattata.

Conclusioni. Non esiste, ovviamente, conclusione univoca. Personalmente, abbandonerei la meritocrazia. Il suo vulnus maggiore risiede, da un lato, nell’insensibilità alla pluralità dei meriti, al peso del caso e al ruolo di “chi” decide i meriti e, dall’altro, nella legittimazione delle disuguaglianze di mercato come riflesso dei meriti. Riconoscerei, invece, il ruolo del merito nel processo di selezione, intendendo il merito come competenza. Privilegerei addirittura quest’ultimo termine per evitare le ambiguità moralistiche connesse al merito.

Certo, anche le selezioni sulla base delle competenze restano influenzate dal caso. Ma non possiamo azzerare il caso. Considerare uguali due prestazioni caratterizzate da una competenza diversa, significherebbe violare l’equità orizzontale oltre che generare inefficienza. La definizione in termini di solo sforzo mi pare invece poco attraente. Non solo individuare il “vero” sforzo personale è un’araba fenice, nonostante i tanti tentativi effettuati, ma che valore ha lo sforzo in sé qualora slegato da una prestazione svolta?

Al contempo, riconoscerei la pluralità di definizioni delle competenze e le tante difficoltà nei processi di misurazione. Il che richiede di realizzare assetti istituzionali capaci di riflettere la pluralità di visioni di competenze e di abbandonare qualsiasi pretesa di ordinamenti unidimensionali e completi. Le diverse competenze riceveranno poi remunerazioni diverse, ma la ragione piuttosto che in meriti individuali, resterebbe nella libertà di scelta e nel benessere che un gioco di mercato e imprese equamente regolate possono assicurare.

Anche se molto dovrebbe ancora essere approfondito, abbandonare la meritocrazia non implica in alcun modo cadere nel controfattuale immaginato dai suoi sostenitori. Al contrario, potremmo vivere in un mondo in cui le competenze sono ricercate e premiate, ma chi vince riconosce con umiltà non solo la pluralità delle competenze, ma anche che molto di ciò che è non dipende da sé.

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