Dopo le elezioni europee: ammutinamenti elettorali e usi rischiosi della democrazia

Alfio Mastropaolo parte dall’osservazione che gli elettorati occidentali sono in piena ebollizione, rifiutano i partiti convenzionali e si rivolgono ai partiti outsiders, per lo più ai populisti, e riconduce queste tendenze al fatto che soprattutto i cosiddetti modernisation losers sono in cerca di una rappresentanza sostitutiva di quella offerta dai partiti tradizionali. Secondo Mastropaolo questo processo, iniziato da tempo, si è accentuato e accelerato, in virtù di due fenomeni destabilizzanti: la Grande recessione e le misure di austerity, da una parte el’ondata migratoria, dall’altra.

Il grande ammutinamento elettorale che ha stravolto il paesaggio politico europeo, che ha condotto i populisti al successo, che ha gravemente indebolito senza eccezioni i partiti tradizionali, non può non suscitare preoccupazioni molto gravi. È un ammutinamento, tuttavia, cui si possono attribuire moventi remoti, da leggere dunque nel lungo periodo, nella prospettiva della rappresentanza e della lotta per la rappresentanza.

L’avvento dei partiti «pigliatutti», che si suole far risalire agli anni ’60 e ’70, è forse il primo evento da cui prendere le mosse. L’accantonamento dei partiti di massa ha ridefinito l’azione di rappresentanza, riscrivendone i testi alla luce sia dell’evoluzione dei loro pre-testi, ovvero delle condizioni sociali e politiche dell’elettorato dei partiti, sia della crescente specializzazione degli addetti ai partiti nell’attività di governo. A quell’accantonamento non sono seguiti gravi sommovimenti elettorali. Vuoi perché i vincoli creati dai partiti erano molto solidi, vuoi perché l’elettorato era cambiato abbastanza da gradire un qualche aggiornamento, vuoi ancora perché i partiti, pur cercando di ampliare la propria audience, seguitavano a dedicare attenzioni alla loro constituency originaria. Con l’andare del tempo tuttavia la revisione dell’offerta e dei servizi di rappresentanza ha finito per decostruire le constituencies originarie e per suscitare sentimenti di distacco e di delusione in quella parte degli elettori che non si riconoscevano nella nuova constituency assemblata dal loro partito.

Per i partiti socialisti il cambiamento si è fatto sensibile dai primi anni ‘80: da un lato, la loro constituency è stata investita dalla ristrutturazione postfordista e sottoposta a un processo di disgregazione; dall’altro i partiti si sono concentrati, o perché li ritenevano più redditizi elettoralmente, o perché ritenevano superata la constituency fordista, sugli skilled, sui ceti medi, sul mondo imprenditoriale. Una parte del loro elettorato, gli unskilled, le fasce più basse del mondo del lavoro, gli abitanti delle periferie urbane, i losers della globalizzazione, è rimasta così senza rappresentanza. Le politiche di sostegno, predisposte specie dai partiti socialisti, hanno ridotto le sofferenze dei loro elettori losers, così come le ragioni identitarie li hanno in genere distolti dall’exit. Finché, per eccesso di delusione, o perché la sociologia dei losers è cambiata, anche a motivo del turnover generazionale, la tendenziale sedentarierà degli elettori non è venuta meno, inducendoli a varcare un confine che solitamente non era varcato: quello tra sinistra e destra. Molto verosimilmente un’erosione analoga è avvenuta a spese dei partiti established moderati, che contavano anch’essi un vasto seguito tra i ceti popolari, anche se con tratti sociali differenti.

Sono in più intervenute due nuove variabili. La prima è l’offerta di rappresentanza dei partiti populisti. La seconda è l’intreccio tra crisi migratoria e austerity. I partiti populisti si preparavano da lungo tempo. Si erano rivolti inizialmente a un’utenza ultraconservatrice e nostalgica. Via via hanno rielaborato la loro offerta di rappresentanza a beneficio degli orfani dell’azione di rappresentanza dei grandi partiti established. Assemblando però una constituency alquanto diversa da quella – o da quelle – da cui provenivano gli orfani, fondata almeno in parte su altre esperienze di vita, su altre attese, su altre idee di giustizia, su altri sentimenti di ribellione e di rivalsa.

È doloroso riconoscerlo. La propaganda sovranista, condotta in nome del popolo, ha versato abbondante benzina sul fuoco, in assenza di un’efficace azione di rappresentanza preventiva e oppositiva. Non va però sottovalutata una dose di spontaneità nei sentimenti razzisti che circolano al momento. Vista la storia non troppo remota dei paesi europei, tali sentimenti sono di sicuro sopravvissuti, piuttosto vigorosi, specie tra gli elettori di estrema destra. L’azione dei populisti li ha risvegliati. In più i populisti hanno aggiunto altri temi utili ad allargare e rafforzare la loro constituency: la solita eccitazione antipolitica, la fiscalità, preconfezionata dal neoliberismo, ma soprattutto il decadimento delle condizioni di vita di vasti pezzi di società. È da vedere se il seguito che hanno radunato sia solo occasionale, oppure se, a dispetto della sua eterogeneità, sia destinato a stabilizzarsi.

C’è chi sostiene che l’immigrazione sia il grande cleavage del terzo millennio. Le migrazioni non sono mai fenomeni del tutto pacifici. Lo ricorderà chi ha memoria di quella avvenuta in Italia tra Sud e Nord tra gli anni ’40 e gli anni ’60. Il sopraggiungere dell’estraneo fa sempre problema. Turba costumi radicati e suscita difficoltà di comprensione. A censurare le insofferenze delle popolazioni settentrionali contribuirono allora i partiti, i sindacati, la Chiesa, la scuola. Il problema ovviamente si aggrava se le popolazioni che accolgono gli immigrati, per qualche ragione, si ritengono in condizioni di difficoltà. L’ultima ondata migratoria che nel pieno della Grande recessione ha investito da sud del mondo l’Europa è stata la fortuna degli «imprenditori di paura» populisti. Che hanno avuto buon gioco a imputare ai migranti la condizione di vulnerabilità, disuguaglianza, insicurezza, reale o percepita non importa, in cui versa larga parte degli elettori. Per quanto sia troppo presto per denunciare una generalizzata riconversione al razzismo, inquietano l’indifferenza e l’inclinazione all’understatement.

La rappresentanza è una costruzione complicata. Il voto populista potrebbe significare un’adesione, ma potrebbe pure restare un espediente, faute de mieux, utilizzato dagli elettori per testimoniare il proprio risentimento. Fa propendere verso questa seconda ipotesi il consenso di rilievo ottenuto anche da altri outsiders, dalla nuova sinistra, dagli ambientalisti, da quei partiti established che hanno riaggiustato la loro offerta. Lo suggerisce perfino un moto di ribellione come quello dei gilets jaunes, che ha coinvolto i segmenti più fragili delle classi medie, e che è solo marginalmente riconducibile alla destra populista. In ogni caso: benché il risentimento e la domanda di rappresentanza si esprimano coi mezzi che trovano, la deriva populista resta sempre minacciosa. Anche perché incontrastata. All’allarmismo antipopulista non fa seguito un qualche apprezzabile ripensamento delle politiche condotte negli ultimi decenni.

Non sembrano ripensarci i partiti established, che semmai condividono le maniere forti verso i migranti. Né ci ripensano i ceti cosmopoliti e liberal che più profittano del neoliberismo. La City non ha gradito che più della metà dei votanti del Regno Unito si siano lasciati persuadere della convenienza a abbandonare l’Unione europea. Gli ambienti finanziari e imprenditoriali non hanno apprezzato l’insediamento dell’amministrazione Trump, né il contratto di governo in Italia tra Lega e 5 Stelle. Ma non manca loro la capacità di adattarsi. I populisti, del resto, tolta qualche riserva verso la globalizzazione o i vincoli europei, condividono il programma neoliberista. I capitalisti hanno finanche provato a difendersi sostenendo Emmanuel Macron: un outsider singolare, grazie al quale l’establishment, onde scongiurare il populismo del Rassemblement national, se ne è fabbricato uno a sua misura – un altro caso di pluto-populismo dopo quelli di Berlusconi e di Trump? – farcito di critiche moralistiche ai privilegi della politica, liberal sul piano culturale e liberista senza riserve su quello economico. Come dimostrano le misure volte a riscrivere le relazioni sindacali, a ridurre la fiscalità sui ceti abbienti, a contenere l’azione dello Stato. Con un’appendice respingente in materia d’immigrazione, concorrenziale con la destra estrema. Senza per questo frenarla.

Cosa ci riserva il futuro? Nessuno può dirlo. Ricordiamo la teoria del «doppio movimento» di Polanyi: il mercato come da sempre aggredisce la società e la società invoca soccorso per resistere e difendersi. Per Polanyi un primo contro-movimento alla débacle del capitalismo liberale degli anni ’20-’30 fu il fascismo. L’altro fu il New Deal. Al momento la seconda soluzione non è in agenda e sembra invece avere buone chances di successo la prima. George L. Mosse ha utilizzato il concetto di «brutalizzazione» per descrivere il mutamento di costumi avvenuto in Germania dopo il primo conflitto mondiale. Egemonizzata dal fondamentalismo di mercato, la globalizzazione e la concorrenza feroce che essa prevede sono coincise con la brutalizzazione dei rapporti di lavoro, sul piano nazionale e internazionale. Il pericolo è che la brutalità divenga uno standard cui la società si conforma. Si è registrata un’impennata nella brutalità nelle relazioni tra gli Stati, spesso legittimata da esigenze di polizia internazionale e di tutela dei diritti umani. Il terrorismo è un’arma oltremodo brutale con cui hanno replicato alcuni attori non statali, ma a volte sovvenzionati dagli Stati. Terrorismo e sicurezza offrono agli Stati la ragione per adottare anche all’interno tecniche di governo d’emergenza più sbrigative: l’azione repressiva delle forze dell’ordine nei confronti della protesta è divenuta vieppiù brutale. A parte le proposte di riconoscere la tortura, sia pure in condizioni estreme, come considerare la pratica dei respingimenti, in terra e in mare, e la repressione perfino della solidarietà verso chi cerca riparo dalla carestia e dalla guerra? E che dire della brutalizzazione verbale, che i populisti hanno avviata, ma che non è una loro esclusiva?

Il moto della storia è ondivago. Simili fenomeni involutivi non sono inediti. Si sono già manifestati in passato, con conseguenze drammatiche. Ma in passato hanno pure spesso incontrato resistenze in grado di arrestarli. Le resistenze non mancano affatto e sono anzi vivacissime, tanto quanto le manifestazioni di solidarietà e di generosità. Le società occidentali sono tutte molto divise. Segnali ambivalenti giungono pure dagli elettori: i partiti established pagano prezzi molto elevati, gli umori antipolitici e i sentimenti anti-immigrati sono vigorosi, ma i successi dell’estrema destra populista, benché cospicui, sono tutt’altro che straripanti e irresistibili. Tutto dipende da cosa faranno i loro oppositori. La partita è in pieno svolgimento e il suo esito è ancora da scrivere. C’è solo da ricordare che le regole democratiche costituiscono una difesa fragile e si prestano a molti usi. Alcuni dei quali oltremodo rischiosi.

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