Nel corso del Novecento molti filosofi hanno riflettuto sulla tecnica; i più noti sono, probabilmente, Husserl, Horkheimer e Adorno della Scuola di Francoforte e Heidegger. Tra di essi deve essere certamente annoverato il filosofo italiano Emanuele Severino, scomparso lo scorso gennaio, che ha riservato alla tecnica un ruolo centrale nel suo pensiero attraverso molti interventi e numerose pubblicazioni, tra le quali, Téchne, le radici della violenza (1979 ed edizioni successive) e Il Destino della Tecnica (1998).
In questa breve nota si vuole proporre un parallelismo tra il pensiero di Saverino e la teoria economica del ‘900, con particolare riferimento al pensiero neoclassico.
Il Pensiero di Emanuele Severino. Sono due gli aspetti essenziali nel pensiero di Severino. Il primo è che la tecnica da mezzo dell’agire umano per raggiungere risultati e per ottenere scopi si è trasformata essa stessa in fine. Il secondo aspetto, che è forse quello più interessante dal punto di vista della teoria economica, è che in una società in cui la tecnica diventa fine, essa si pone in conflitto con la giustizia, e con qualsiasi altra dimensione che ne contrasti la crescente potenza.
Per Severino “la tecnica sta all’inizio della nostra civiltà ma il suo dominio è andato sempre più crescendo ed oggi noi viviamo nel dominio della tecnica e ogni aspetto della nostra vita dipende dal modo in cui la tecnica ha organizzato l’esistenza dell’uomo sulla terra” (Storia del Pensiero Occidentale, a cura di E. Severino, Vol. 1, Mondadori 2019).
In altri termini, secondo il filosofo, la tecnica non solo ha accresciuto il proprio peso nel corso della storia, ma soprattutto ha cambiato ruolo: la tecnica da mezzo o strumento, è diventata fine. Ed è proprio tale mutamento qualitativo ad essere fondamentale per la nostra società, tanto che oggi si può parlare di dominio della tecnica.
Come si è avuto tale cambiamento? Secondo Severino le forze della tradizione occidentale, ovvero il sapere filosofico, il cristianesimo, l’illuminismo, il capitalismo, la democrazia, il comunismo, inizialmente hanno concepito la tecnica come uno strumento, come un mezzo, guidato dalla concettualità della scienza moderna [E. Severino, Il Destino della Tecnica, BUR Rizzoli, 1998]. Tuttavia, tali forze, in conflitto tra loro, si combattono usando proprio la potenza tecnologica come mezzo. Ad esempio, sono in conflitto tra loro il capitalismo e la democrazia poiché lo scopo del capitalismo è l’incremento indefinito del profitto privato, mentre quello della democrazia è far si che la società sia guidata dalla libertà e dalla eguaglianza e non dalla diseguaglianza provocata dall’incremento del profitto privato [E. Severino, DIKE, Adelphi 2015]. Utilizzando come mezzo proprio la potenza tecnologica sono portate ad incrementarla all’infinito per aumentare ciò che dà loro potere, per sconfiggere le forze antagonistiche. In tal modo la tecnica, da mezzo è diventata fine.
Tale cambiamento di ruolo della tecnica, da mezzo a fine, incide profondamente sul rapporto tra la tecnica stessa e la giustizia.
Al fine di aumentare indefinitamente la propria potenza, la tecnica non deve incontrare ostacoli, né deve trovare davanti a sé alcuna forza limitante che può costringerla a non andare oltre certi limiti. Per Severino la forza per antonomasia che può limitare la tecnica è la verità, ovvero il sapere epistemico, e la spiegazione che dà è la seguente. Se il sottosuolo filosofico del nostro tempo – che il filosofo individua in Leopardi, Nietzsche, Gentile – mostra l’impossibilità dell’esistenza di un eterno, perché l’eterno blocca la potenza, allora esso mostra anche l’impossibilità di un concetto assolutistico di giustizia. Quindi, anche la giustizia appartiene a quel passato di cui la tecnica si libera. Si va tendenzialmente verso un concetto di giustizia dove l’individuo ha il dovere e il compito, ma è anche sottoposto alla necessità, di favorire l’incremento della potenza. In tale contesto Giustizia significa, quindi, non ostacolare tale incremento. L’uomo della tecnica autentica sarà costretto ad assecondare il potenziamento indefinito della tecnica e in ciò consisterà la giustizia della tecnica, ovvero nella “adeguazione di ogni forma di agire allo scopo supremo e fondamentale della tecnica: l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi” [E. Severino, DIKE cit.].
Tuttavia, per Severino il dominio della tecnica non può considerarsi un sistema stabile, proprio per il fatto che la tecnica, dovendo rinunciare alla verità per essere potente, non sarà in grado di fornire una risposta definitiva sulla giustizia che è fondata sulla verità. Pertanto, rivelandosi la tecnica stessa una contraddizione – un paradiso che si rileva inferno – anche il concetto di giustizia che essa propone, non può essere considerato definitivo e sarà esso stesso destinato a tramontare.
La Teoria Economica. Dopo aver descritto, in modo molto sintetico, il pensiero di Severino secondo il quale nella società della tecnica in cui viviamo, la tecnica è il fine, e in quanto priorità assoluta, relega la giustizia ad un ruolo strumentale rispetto ad essa, ci si chiede qual è la posizione della teoria economica mainstream al riguardo.
È bene avvertire subito che è difficile dare una risposta netta e definitiva al quesito posto, sia in senso affermativo che negativo. Tuttavia, si ritiene utile porre il problema ed offrire una seppur breve riflessione su tali temi.
In un sistema economico il rapporto tra il progresso tecnico e la giustizia è complesso. Esso è altresì mediato dal reddito poiché il progresso tecnico contribuisce a generare il reddito e dalla distribuzione del reddito dipende il grado di giustizia di una società. Si ricorda, per inciso, che nel libro V dell’Etica Nicomachea, Aristotele, dopo aver introdotto la distinzione tra la giustizia intesa come rispetto della legge e la giustizia intesa come equità, suddivide quest’ultima in due specie: la giustizia distributiva, che concerne ciò che si può ripartire (onori e ricchezze) tra i membri di una comunità e la giustizia correttiva.
Nel pensiero neoclassico la crescita economica si basa essenzialmente sulla accumulazione del capitale e sulla tecnologia. Il principale risultato del modello di R. M. Solow (“A Contribution to the Theory of Economic Growth”, The Quarterly Journal of Economics 1956) è che la crescita economica in condizione di stato stazionario (steady state) è pari al progresso tecnico. E’ infatti il progresso tecnico, grandezza assunta come esogena, a garantire l’aumento del reddito pro capite, cosicché quest’ultimo può essere considerato una misura del progresso tecnico. Anche la distribuzione del reddito, tra lavoro e capitale, è assunta come esogena. Si viene così a stabilire un rapporto strettissimo tra progresso tecnico e benessere materiale. La corrispondenza tra reddito pro capite e progresso tecnico può essere addirittura considerata un giudizio di valore: la crescita del reddito pro capite assume un valore positivo perché essa stessa può essere considerata una misura del progresso tecnico.
Proprio l’esogeneità del progresso tecnico è uno dei motivi di insoddisfazione verso questo approccio che sta alla base della nascita e dello sviluppo della teoria della crescita endogena, iniziata da Romer nel 1986 ma nella quale si può includere anche il contributo di J.K. Arrow (“The Economic Implications of Learning by Doing”, The Review of Economic Studies, 1962) il cui principale obiettivo è individuare i meccanismi che rendono endogeno il progresso tecnico. Anche la teoria della crescita endogena si concentra sui fattori che rendono controllabile la crescita economica, preoccupandosi poco degli effetti sulla distribuzione del reddito.
La distinzione tra efficienza ed equità è evidente nella teoria dell’economia del benessere. Il primo teorema del benessere stabilisce che il mercato può garantire l’allocazione efficiente delle risorse ma che esso da solo può non trovare una soluzione accettabile al problema distributivo della società. Il secondo teorema sancisce la necessità di un intervento di tipo politico, che risolva il problema dell’equità sociale attraverso una ridistribuzione delle dotazioni. I due teoremi dell’economia del benessere stabiliscono un ordine lessicografico tra il raggiungimento dell’efficienza e la distribuzione del reddito, subordinando quest’ultima alla prima. Ma è proprio il dover ricorrere ad un intervento di tipo ridistributivo, che potrebbe risultare in contrasto, qualora incida sugli incentivi individuali alla produzione, con l’efficienza e con la tecnica, perché limitante del potere di quest’ultima.
In conclusione. Oggigiorno la crescita economica, misurata attraverso la crescita del Pil pro capite, è il principale metro di valutazione dell’azione di un Governo. Come è stato argomentato prima, essa è correlata con il progresso tecnico tanto che, secondo il modello di Solow, in condizione di stato stazionario, coincide con il progresso tecnico.
Il punto dirimente è capire se la crescita economica è un mezzo per l’ottenimento di altri fini, quali, ad esempio, il benessere sociale, la riduzione della povertà, una più equa distribuzione del reddito, il miglioramento delle condizioni di salute della popolazione e della qualità della vita, la tutela e la salvaguardia dell’ambiente oppure è fine a se stessa e può essere considerata alla stregua di uno stabilizzatore sociale.
Adam Smith, nella Ricchezza delle Nazioni (1776), sostiene che l’aumento del reddito, determinato dall’arte, dalla destrezza e dall’intelligenza con cui si esercita il lavoro, è il mezzo per fare in modo che tutte le persone, anche coloro che non lavorano, risultino abbondantemente provvisti del prodotto complessivo del lavoro sociale. Nella Introduzione alla Ricchezza delle nazioni Smith scrive che le nazioni che “vivono in una povertà così orribile che soltanto per bisogno si trovano spesso ridotte, o almeno credono di esserlo, alla necessità di eliminare bambini, vecchi e ammalati inguaribili…” mentre …”nelle nazioni civili e floride, all’opposto…”la parte di necessità e comodità della vita di cui può godere un operaio frugale e industrioso anche del più umile dei ceti poveri, sarà sempre maggiore di quella che può ottenere un selvaggio”. In altri termini, le nazioni ricche non si trovano nella condizione di non poter curare la parte debole della popolazione, ovvero bambini, vecchi ed ammalati inguaribili
Al contrario, se la crescita economica si risolve meramente in uno spostamento in avanti dei vincoli di scarsità e in un aumento generalizzato dei livelli di consumo, senza tradursi in un miglioramento delle condizioni di vita soprattutto della parte della popolazione più debole, come bambini ed anziani, se negli Stati Uniti i ceti più ricchi preferiscono attraversare una pandemia piuttosto che contemplare la possibilità di una società più equa (J. Stiglitz, Intervista alla trasmissione televisiva “Report”, 13 aprile 2020), se ci si “accontenta di affermare che il reddito nazionale è aumentato di una certa percentuale, e a trarne all’occasione motivo di compiacimento, anche se nel contempo Venezia affonda con i suoi tesori architettonici ed artistici” (F. Caffè, Lezioni di Politica Economica, Bollati Boringhieri, 1978), allora è lecito pensare che la crescita economica sia fine a se stessa, e che sia una proxy del progresso tecnico piuttosto che uno strumento per il raggiungimento di altri fini, quali, ad esempio, un accettabile livello di giustizia sociale. In tal caso le tesi di Emanuele Severino, sintetizzate in questo articolo, troverebbero una triste conferma.