ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 187/2023

13 Febbraio 2023

Gabbie salariali o politiche industriali? Una risposta per il divario Nord-Sud dall’economia della complessità

Lucrezia Fanti e Maria Enrica Virgillito propongono, sulla base di un modello ad agenti eterogenei, un’analisi degli effetti della flessibilizzazione del mercato del lavoro sul divario produttivo Nord-Sud. Comparando diversi scenari di policy le autrici sostengono che l’indicizzazione dei salari alla produttività di impresa (gabbie salariali) sono inefficaci per la convergenza e dannose per la stabilità macroeconomica diversamente dalle politiche dirette al rinnovamento dello stock di capitale e alla formazione dei lavoratori on-the-job.

Dopo la crisi pandemica e con l’inflazione da offerta in atto, si fa ancora più urgente una riflessione sulle politiche idonee a contrastare le persistenti asimmetrie tra Nord e Sud in Italia e a favorire la loro convergenza. 

Come sottolineato dalla Svimez nei suoi ultimi Rapporti Annuali, dai principali indicatori macroeconomici risulta che la divergenza tra Nord, Centro e Mezzogiorno è persistente, anche  in conseguenza dell’impatto eterogeneo, e non soltanto a livello territoriale, delle recenti crisi.

In un nostro contributo al progetto PRIN 2017 “Lost highway: skills, technology and trade in Italian economic growth, 1815-2018”, (Fanti, L., Pereira, M.C., Virgillito, M.E. The North-South divide: sources of divergence, policies for convergenceJournal of Policy Modeling, 2022), abbiamo analizzato le cause della divergenza tra macro-regioni del Nord e del Sud e le politiche per la convergenza, sulla base di un approccio ispirato all’economia della complessità. 

Le cause strutturali delle disuguaglianze e dei divari tra Nord e Sud sono generalmente ricondotte alle divergenze nei processi di investimento e nella struttura produttiva, oltre che a fattori istituzionali legati al ruolo della classe dirigente (si vedano, ad esempio, i lavori di Daniele e Malanima e di Felice). 

Tuttavia, negli ultimi trentacinque anni, come discusso da Cetrulo, Sbardella e Virgillito sul Menabòil divario in termini retributivi tra aree territoriali è esploso. Le cause sono soprattutto tre: l’aumento del lavoro part-time e temporaneo; la terziarizzazione dell’economia e la compressione dei salari della classe operaia – nel senso della macro-classificazione occupazionale dell’ INPS – sia nell’industria che nei servizi. A ciò si aggiunge il divario di genere nelle retribuzioni inasprito dalla bassa partecipazione femminile al Sud, in larga parte occupata con contratti part-time e nei servizi a bassa remunerazione, come la ristorazione, la vendita al dettaglio o i servizi di assistenza alla persona. 

Poiché il Mezzogiorno si caratterizza per una specializzazione produttiva in occupazioni di bassa qualità, come conseguenza delle varie misure di deregolamentazione del mercato del lavoro, e per la debolezza degli investimenti e dello sviluppo tecnologico, nel nostro lavoro ci concentriamo sugli effetti di tale flessibilizzazione sulla dinamica produttiva. Dunque, differenziandoci dalla letteratura di riferimento, ci concentriamo sulla possibile propagazione degli effetti distributivi del mercato del lavoro nella sfera produttiva. 

Il modello ad agenti eterogenei. Per studiare l’andamento delle variabili macroeconomiche distinte tra Nord e Sud abbiamo utilizzato il modello computazionale ad agenti eterogenei (Agent-Based Model, ABM) c.d. “Keynes meeting Schumpeter” (K+S) augmented rispetto all’introduzione di mercati del lavoro decentralizzati e distinti tra due macro-regioni, che descriviamo brevemente. 

Il modello si compone di un settore produttivo di beni capitali differenziati in due dimensioni di produttività: la produttività del settore upstream nel fare le macchine e la produttività incorporata nell’uso delle macchine, quindi nel settore downstream, che produce beni di consumo omogenei. 

I due settori sono verticalmente integrati in quanto la vendita di macchine dipende dalla domanda di produzione di beni finali nel settore downstream, e dalla qualità stessa delle macchine, definita dal rapporto tra il costo del bene e la produttività nel produrlo. La domanda di macchinari rappresenta quindi la domanda di beni intermedi, mentre i beni finali vengono domandati dai lavoratori.

La dinamica innovativa è distinta nei due settori: nel settore upstream, le imprese investono in ricerca e sviluppo in base alla domanda di beni capitali e in base a elementi stocastici che mimano l’erraticità dell’innovazione; nel settore downstream, le imprese investono in base alla domanda di beni finali, secondo un modello di acceleratore classico Keynesiano, con investimenti espansivi in nuovo capitale (expansionary investment), e investimenti sostitutivi (substitutionary investment) dei macchinari in obsolescenza. 

La forza lavoro, differenziata in base alla produttività individuale legata all’esperienza accumulata all’interno dell’impresa, e al salario domandato, che dipende dall’essere o meno disoccupato nel periodo precedente, viene assunta e licenziata secondo meccanismi decentralizzati a livello di impresa. 

Le caratteristiche produttive fin qui esposte sono le medesime per le due macro-regioni. Le regole di assunzione e licenziamento, così come quelle di fissazione dei salari, sono invece diverse. 

Nel Nord prevalgono relazioni industriali di tipo Fordista (secondo la Teoria della Regolazione), ossia i salari sono indicizzati alla media tra la produttività aggregata, mimando la contrattazione centralizzata, e la produttività di impresa, mimando la contrattazione di secondo-livello. La crescita salariale è omogenea tra i lavoratori, i licenziamenti hanno luogo solo in caso di perdita delle imprese e le eventuali assunzioni/licenziamenti riguardano lavoratori con più alte/basse qualifiche, ossia con maggiore/minore esperienza accumulata. Viceversa, nel Sud prevale una struttura più informale, con il salario di impresa definito sulla base di contrattazioni individuali.

Le imprese licenziano in caso di contrazione della domanda e assumono i lavoratori che domandano salari più bassi, non quelli con competenze più elevate, come avviene nel Nord. 

In questa versione del modello assumiamo economie chiuse, ossia assenza di scambio di beni sia a livello upstream che downstream tra le due macro-regioni.

Risultati. L’ipotesi di strutture produttive e innovative inizialmente omogenee, ci ha consentito di stabilire che dai due distinti mercati del lavoro derivano effetti di feedback dinamici che rendono persistente l’ asimmetria a livello aggregato tra dinamica innovativa, struttura produttiva, profilo degli investimenti e dinamica delle retribuzioni salariali. 

In particolare, il modello riproduce una persistente divergenza nel salario reale medio (Fig.1a), una conseguente differenziata attività innovativa, con diversi profili di investimento in attività di R&S (Fig.1b) e una crescente distanza tecnologica.

Poiché nel modello il processo di cambiamento tecnologico è “incorporato” nei macchinari prodotti e venduti al settore dei beni finali (c.d. embodied technical change), l’attività innovativa nel settore dei beni capitali nel Sud è minore perché è minore la domanda di macchinari del settore dei beni di consumo. La divergenza riguarda sia l’investimento in nuovi macchinari (expansionary investment) (Fig.1c), sia quello per il rinnovo dello stock di capitale (substitutionary investment) (Fig.1d).

Di conseguenza, la diversa configurazione iniziale della struttura del mercato del lavoro, si riflette in performance divergenti in termini di dinamica innovativa e di profili di investimento.

La divergenza è riconducibile ai seguenti effetti di propagazione: 

  • Il livello della domanda aggregata è significativamente minore al Sud a seguito della compressione salariale emergente dalle due differenti configurazioni del mercato del lavoro;
  • la minore domanda di beni finali comprime l’investimento espansivo e, quindi, la domanda di beni intermedi con effetti negativi sulla innovatività del settore downstream;
  • la minore domanda di macchinari frena l’attività innovativa nel settore upstream e comporta una minore produttività del settore dei beni capitali;
  • di conseguenza, il tasso di progresso tecnico totale diverge strutturalmente tra le due aree;
  • la diseguaglianza nella distribuzione funzionale si inasprisce, a causa dei diversi meccanismi di determinazione della quota salario;
  • la minore selettività del processo competitivo consente di sopravvivere alle imprese che hanno una produttività stagnante ma fanno leva sui bassi costi del lavoro (cost-reduction strategy). 

Figure 1: Serie storiche relative a salari reali, investimento in R&S, investimento incrementale e sostitutivo – medie tra 50 simulazioni Monte Carlo (MC).

Scenari per le politiche di intervento. Partendo dalla configurazione baseline, i cui risultati sono riportati in Figura 1, abbiamo proposto una comparazione tra diverse politiche di intervento. Gli scenari sono stati confrontati attraverso l’analisi di significatività dei rapporti tra i valori medi delle simulazioni Monte Carlo (MC) di specifiche serie storiche aggregate, riprodotte dal modello (t-test). 

L’analisi mette dunque a confronto lo scenario baseline che riproduce la divergenza tra le due macro-regioni, con tre possibili scenari di policy, implementati attraverso diverse configurazioni parametriche, in modo da simulare l’effetto di tre possibili strategie di intervento sul processo di convergenza, ossia:

i) una politica di stimolo degli investimenti per il rinnovo dello stock di capitale in obsolescenza; 

ii) una politica di formazione rivolta all’acquisizione di competenze on-the-job da parte dei lavoratori; 

iii) una politica di indicizzazione dei salari alla produttività di impresa. 

Definiamo queste politiche come institutional-based (le prime due) oppure market-based (la terza). L’utilizzo della nozione institutional-based riconduce alla letteratura evolutiva e strutturalista che ritiene necessarie politiche di tipo istituzionale, indipendenti dalle condizioni di mercato, rivolte a scopi ben definiti, come il rinnovamento della dotazione di capitale e di macchinari (Cimoli and Dosi, 2009). In particolare, la c.d. capability-based theory of the firm, riconoscendo nell’impresa il locusdove hanno luogo i processi innovativi, invoca politiche di investimento pubbliche (attuabili da agenzie e istituzioni pubbliche, come l’ex-Iri e, oggi, la Cassa Depositi e Prestiti) volte a migliorarne l’efficienza attraverso interventi diretti, e non orientati a correggere eventuali distorsioni nei mercati (Dosi et al., 2001), ad esempio, modificando i prezzi relativi o alterando, con trasferimenti fiscali, il costo di talune categorie di lavoratori, come nel caso del Jobs Act

I risultati della comparazione tra i tre scenari di policy, mostrano che la strategia di potenziamento dell’investimento è la più efficace per favorire il processo di convergenza, mentre lo stimolo all’accumulazione di competenze da parte dei lavoratori rende più efficiente la selezione di mercato, favorendo l’espulsione delle imprese meno produttive. L’effetto positivo degli interventi di natura istituzionale, suggerisce di implementare, in un ampio orizzonte temporale, programmi di politica industriale coordinati e complementari, rivolti sia al capitale che al lavoro. Lo studio evidenzia infatti come politiche rivolte al potenziamento del profilo tecnologico delle aree meno sviluppate dovrebbero essere accompagnate da misure che favoriscano la permanenza dei lavoratori all’interno delle imprese – ad esempio disincentivando il ricorso a forme di occupazione flessibili e precarie – e l’avanzamento delle loro competenze, in sinergia con lo sviluppo delle capabilities organizzative, tecnologiche e produttive delle imprese. 

Al contrario, l’indicizzazione decentralizzata dei salari alla produttività di impresa risulta totalmente inefficace in termini di convergenza. Questo risultato è particolarmente rilevante alla luce della proposta – in ambito sia accademico che politico – di interventi che richiamano le c.d. gabbie salariali, ossia misure di flessibilizzazione delle retribuzioni o di indicizzazione a livello locale. I nostri risultati mostrano, al contrario, che politiche market-based sono non solo totalmente inefficaci nel favorire il processo di catching-up ma comportano anche una maggiore volatilità delle principali variabili macroeconomiche che aggrava l’esposizione a eventuali shock, come la pandemia o l’inflazione da offerta. Quest’ultima, infatti, ha una natura fortemente anti-redistributiva e comprime il salario reale più al Sud che al Nord, considerando i panieri di consumo distinti per fasce di reddito e l’aumento dei prezzi nei beni di prima necessità.

Una risposta al divario Nord-Sud. Occorre dunque ripensare l’approccio teorico che ha informato le politiche industriali e di convergenza negli ultimi decenni. A tal proposito, il Governo Meloni sembra già andare in direzione opposta rispetto alla precedente impostazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), positiva – al netto dei limiti evidenziati in diversi contributi – con target “centralizzati” e con il 40% delle risorse da destinare al Mezzogiorno. Vediamo infatti persistere un’idea di decentralizzazione e di sviluppo asimmetrico – come testimoniato dalle sirene dell’“autonomia differenziata” e dall’insistente tentativo di riproporre vecchie ricette come le “gabbie salariali”, di cui le recenti dichiarazioni del Ministro Valditara sulle retribuzioni differenziate nel settore dell’istruzione pubblica sono il più recente esempio – che lascia presagire un grave e ulteriore approfondimento del divario tra Nord e Sud.

E’, al contrario, necessario un disegno coerente di programmazione e politica industriale che sia in grado di affrontare le sfide poste dalle crisi recenti, a livello nazionale, e al contempo favorire il processo di convergenza, per orientare lo sviluppo delle aree del Sud. Urge una politica industriale espansiva (si veda negli Stati Uniti l’Inflation Reduction Act), accompagnata da un’agenzia pubblica di sviluppo industriale, non lontana dall’IRI. Ricordiamo, a tal proposito, come la fase di maggiore convergenza tra Nord e Sud sia coincisa proprio con l’attività di istituzioni deputate alla programmazione e alla pianificazione industriale pubblica, culminata negli anni Ottanta.

Da questo punto di vista, interventi di politica industriale, coordinati top-down ma selettivi e place-based nella definizione delle aree di intervento, sono il punto di partenza “naturale”. La riconversione delle c.d. cattedrali nel deserto o dei “luoghi lasciati indietro” (left-behind places), di cui il Sud è costellato, possono rappresentare una strategia di sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno che dia finalmente slancio al processo di convergenza e riconverta i territori lasciati indietro anche sotto il profilo ambientale.

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