ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 186/2023

29 Gennaio 2023

Genere e divario occupazionale: l’importanza della domanda

Maurizio Franzini riflette sul ruolo che possono avere fattori operanti dal lato della domanda di lavoro femminile nel determinare l’elevato divario occupazionale di genere che distingue il nostro paese. Dopo aver richiamato l’attenzione sul fatto che in Italia il gap occupazionale è comparativamente più alto anche in assenza di figli, Franzini indica i fattori che possono limitare la domanda di lavoro femminile e le politiche - diverse da quelle, molto importanti, di conciliazione tra famiglia e lavoro - che possono ridurre quel gap.

Nel nostro paese, e non solo, i divari di genere, anche restando nel solo ambito economico, ed in particolare in quello del lavoro, sono molteplici e quasi tutti di rilevante entità. Così è per il divario retributivo e per quello relativo alla tipologia dei contratti di lavoro. Ma così è anche, ed è ben noto, per quello meramente occupazionale, cioè è ampia la differenza che separa gli uomini e le donne come quote degli occupati. In queste note mi occuperò esclusivamente di quest’ultimo divario con l’obiettivo di fornire elementi utili per valutare, forse più di quanto non si faccia normalmente, il ruolo che fattori operanti dal lato della domanda di lavoro da parte delle imprese possono avere nel determinare questo fenomeno e le conseguenze che ne possono derivare per le politiche dirette a contrastarlo.
Il gap occupazionale. In base ai dati del 2019, quindi dell’anno precedente la pandemia, in Italia il gap occupazionale era di circa 15 punti percentuali: approssimativamente il 57,5% degli occupati erano uomini e il 42,5% donne. Questi dati sono, naturalmente, conseguenza anche del basso tasso di occupazione delle donne, cioè della quota di donne che lavorano in rapporto a quelle che potrebbero lavorare: si tratta di circa il 57% contro il 75% degli uomini, quindi 18 punti percentuali in meno.
Il divario occupazionale non è, naturalmente, una specificità italiana. Esso è ben presente praticamente in tutti i paesi; tuttavia, in Italia esso risulta particolarmente elevato. Ad esempio nella media dei paesi dell’Eurozona è di circa 7 punti percentuali, il che vuol dire che le donne sono il 46,5% degli occupati, 4 punti in più che in Italia. Si può anche ricordare che nei paesi dell’Eurozona il tasso di occupazione delle donne è di quasi il 69%, ben 12 punti percentuali in più che in Italia (quello maschile è solo 3,5 punti più elevato, 78,6).
I figli e il gap occupazionale. Le ragioni di questo gap sono molteplici e forse non sempre ben individuate. Una di esse è certamente riconducibile ai figli che limitano la possibilità di occupazione per le donne. Forse è questo il fattore che per primo viene alla mente quando si pensa a questo problema. Ciò rende particolarmente interessante disaggregare il gap occupazionale, verificando la sua entità distinguendo tra a uomini e donne senza figli, da un lato, e con figli, dall’altro.
La fig. 1 (riferita al 2017 e tratta da una pubblicazione dell’OCSE ) permette di acquisire una rapida visione di assieme a questo riguardo, con riferimento ai paesi dell’area OCSE.

Ovunque, e prevedibilmente, il gap occupazionale è maggiore tra uomini e donne con figli, e non di poco. Nella media dei paesi OCSE è di 4,8 punti percentuali in assenza di figli e di circa 22 punti in loro presenza. Occorre precisare che qui si considerano tutti i figli tra 0 e 14 anni e non si tiene dettagliatamente conto della loro età che, naturalmente, rileva (più è bassa più si amplia il gap occupazionale) così come rileva l’età delle donne (quando questa cresce molto, l’effetto negativo dei figli si attenua). Naturalmente anche il nostro paese segue questo pattern: i figli spingono fortemente verso l’alto quel gap. Ma il punto rilevante, che emerge anche dalla figura (v. istogramma grigio), è che in Italia è particolarmente alto il valore del gap in assenza di figli. È pari a oltre 14 punti percentuali quindi enormemente di più della media OCSE, circa 3,1 volte. I figli, invece, determinano un gap occupazionale che pur essendo superiore a quello medio OCSE lo è in misura assai più contenuta (soltanto il 34%, cioè meno di 31 punti percentuali contro circa 22).
Pur con le necessarie cautele, da tutto ciò si può trarre la conclusione che a determinare le distanze che ci separano dalla gran parte degli altri paesi è soprattutto il gap occupazionale tra uomini e donne che non hanno figli. Quindi, da noi i figli peggiorano quel gap proporzionalmente meno (molto meno) che altrove. Forse si tratta di un risultato non del tutto atteso che, comunque, va tenuto presente quando si passa ad individuare le cause del fenomeno e, soprattutto, le politiche con le quali contrastarlo. Quel risultato ci dice che malgrado la loro indiscutibile importanza, sotto molteplici aspetti, le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia non possono bastare, al di là del loro successo, a farci avvicinare significativamente agli altri paesi e a mitigare il complessivo gap occupazionale. I figli sono, per le donne, un ostacolo all’occupazione, ma vi sono anche altri ostacoli, che possono collocarsi sia dal lato dell’offerta (per ragioni diverse dai figli) sia da quello della domanda. È su questi ultimi ostacoli che vorrei ora soffermarmi.
La bassa domanda di lavoro delle donne: in cerca di spiegazioni. Le ragioni per le quali la domanda di lavoratrici è bassa possono essere diverse. Una di esse è di tipo culturale e discriminatorio, indipendentemente dalle abilità produttive delle donne. Un’altra ha a che fare con le caratteristiche della struttura produttiva, intesa sia come specializzazione produttiva sia come tipologia di mansioni (rispetto alle quali potrebbe porsi anche un rilevante problema di mismatch). Mi soffermo sulla struttura produttiva collegandomi a quanto ha scritto Enrico D’Elia sul Menabò .
Anzitutto va ricordato che il gap occupazionale è molto diverso da settore a settore produttivo e segue un pattern simile in quasi tutti i paesi europei, anche se con intensità diverse. La quota di donne è bassissima in settori come le attività estrattive e le costruzioni, è molto bassa anche in elettricità, trasporti, acqua, agricoltura e manifatturiero, oltre che ICT. Viceversa, essa è alta, e in alcuni casi maggioritaria, in alloggi e ristorazione, istruzione, salute e assistenza sociale e in quelle che vengono classificate come altre attività (sevizi domestici, organizzazioni internazionali, lavoratori non classificati, ecc.).
I punti da considerare sono essenzialmente due: il primo è che in Italia la quota di occupate è più bassa, nel confronto con l’Eurozona, in alcuni dei settori dove è più forte la presenza femminile: è questo il caso della Pubblica Amministrazione – dove siamo quasi 13 punti percentuali sotto la media dell’Eurozona – e anche della salute; il secondo è che il peso dei diversi settori in termini di occupazione complessiva è sbilanciato a favore di settori a bassa presenza femminile. Questo secondo fattore ha un peso rilevante. D’Elia presenta i risultati di stime dirette a verificare come ipoteticamente cambierebbe il gap occupazionale se la nostra struttura produttiva fosse la stessa di vari altri paesi europei e trova che il cambiamento sarebbe praticamente sempre in diminuzione, talvolta anche molto marcata.
Implicazioni per le politiche. Sulla base di quanto precede appare ragionevole la conclusione che per incidere significativamente sul gap occupazionale occorrono anche, e forse soprattutto, politiche di ampliamento della domanda di lavoratrici; si tratta di politiche che non sembrano attrarre molta attenzione, la gran parte della quale è catturata, e giustamente, dalle politiche dell’offerta. Tra le politiche della domanda rientrano quelle relative alla struttura produttiva, con una prima ovvia conseguenza: quando si dà uno stimolo a specifici settori le conseguenze per il gap occupazionale meriterebbe più attenzione. In questa prospettiva viene il dubbio, che forse è un po’ più di un dubbio, che tra gli effetti negativi di politiche come quella del superbonus che sostiene l’occupazione nelle costruzioni, un settore che praticamente non occupa donne, ci sia l’aggravamento del gap occupazionale.
E qui è opportuna una sottolineatura, di carattere generale. Se non si espande la domanda di lavoro femminile e si punta soltanto sull’offerta la riduzione del gap non può che avvenire espellendo lavoratori maschi dal mercato del lavoro. Non un gran risultato. E tanto meno sarà un gran risultato se l’effetto fosse, come appare assai probabile, in parte di espulsione dei lavoratori maschi e in parte di riduzione dei salari (per tutti o quasi tutti). Si può quindi ritenere che per ridurre il gap nel modo migliore possibile le politiche della domanda siano indispensabili. Esse creano lo spazio che, con il sostegno di adeguate politiche dell’offerta, le donne dovrebbero riempire in maggior misura.
E andando in cerca di un’indicazione precisa, ci viene in aiuto il dato sull’occupazione femminile nella P.A. Si è già detto che in questo settore il gap occupazionale non è tra i più ampi ma in Italia esso è significativamente più ampio che in altri paesi. Ed è anche documentato che le politiche degli ultimi 15 anni circa hanno spinto verso il basso, anche in termini comparati, la complessiva occupazione nella P.A. L’indicazione allora potrebbe essere quella di puntare su un ampliamento dell’occupazione nella P.A. alimentato soprattutto da donne. Naturalmente, realizzarlo non è semplice, e per vari motivi. Uno, singolare, potrebbe essere la concorrenza di ‘lavoratori’ né uomo né donna, mi riferisco al variegato mondo dei robot e dell’intelligenza artificiale, non ad altro, il cui utilizzo ed i cui sviluppi, anche da questa prospettiva, andrebbero attentamente considerati. Anche se non c’entra moltissimo vale la pena di riportare una notizia, abbastanza strabiliante, pubblicata di recente su Nature che potrebbe rendere necessario calcolare il gap occupazionale sono soltanto tra uomini e donne, ma anche tra di essi e l’Intelligenza Artificiale umanizzata. La notizia è questa: “The artificial-intelligence (AI) chatbot ChatGPT has been listed as a co-author on four papers and preprints”.
Ma al di là di questi rischi (chissà quanto futuribili) il primo problema che viene alla mente per dare corso al progetto appena menzionato è, forse, quello delle risorse con cui finanziarlo. Una risposta banale è: con le risorse derivanti dal recupero dell’evasione fiscale.
Dunque, il progetto avrebbe, almeno agli occhi di chi scrive, molti ‘meriti’: il recupero dell’evasione fiscale, l’oculata espansione della P.A.. e la riduzione del gap occupazionale da realizzare ampliando proporzionalmente di più la domanda di lavoro femminile che, con adeguate politiche complementari, troverà l’offerta in grado di soddisfarla e, dunque, senza effetti negativi sui salari e sull’occupazione maschile. Troppi ‘meriti’, forse, per ambire all’inclusione nel recinto dei progetti oggi realizzabili.

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