La guerra in Ucraina continua a tormentare quel paese e la sua popolazione e continua ad angosciare tutta l’Europa (e non solo). Non sorprende perciò che sia al centro delle riflessioni e degli interventi di esperti, politici e uomini comuni. È stata il tema dell’Assemblea Generale dell’Onu di settembre. Da noi, fino alla comparsa sulla scena della bomba nucleare, gli argomenti più “gettonati” erano stati, probabilmente, quelli delle conseguenze economiche che questa guerra fa ricadere sui paesi dell’Unione europea: gli effetti delle sanzioni alla Russia e i costi che di conseguenza siamo costretti a sopportare. Chi attaccava le sanzioni ne contestava l’utilità e, in parallelo, contestava la decisione europea (e americana) di sostenere militarmente l’Ucraina. Chi le difendeva, e in parallelo difendeva anche gli aiuti militari all’Ucraina, li vedeva come uno strumento importante per influenzare nella direzione desiderata le sorti del conflitto. Una guerra la cui rilevanza, secondo gli alleati occidentali dell’Ucraina, va ben al di là dell’attribuzione dei territori contesi tra la “grande” e la “piccola” Russia, perché in realtà rappresenta uno scontro tra due modelli di società e di governo, quello delle democrazie occidentali e quello delle autocrazie, di cui la Russia è l’esponente attualmente più aggressivo e più vicino ai nostri confini; ma dietro la quale si scorge l’ombra della Cina, la potenza asiatica emergente e, in prospettiva, la grande rivale degli Usa per l’egemonia mondiale.
In questo quadro, trovo stranamente poco presenti le riflessioni su alcune questioni cruciali, a mio avviso rilevanti per tutti, ma senza dubbio per chi si identifica nel quadro politico e interpretativo sopra delineato. La prima questione è: perché è scoppiata la guerra? A essa è strettamente legata una seconda domanda: la guerra poteva essere evitata? Se no, perché? Se sì, in che modo e a quali condizioni? Un’ultima questione: come finirà questa guerra? Col suo importante corollario: come potrà essere il mondo “dopo”? Ovviamente non ho risposte soddisfacenti. Ma trovo che sia necessario porsi le domande e rifletterci su. Perché il domani di tutti noi dipende anche dalle vicende che si stanno svolgendo in quei territori tormentati e dalle partite che attorno a essi stanno giocando i governi e le diplomazie di tutto il mondo.
Su alcune di queste domande ho provato a riflettere in un lungo lavoro che ho scritto nei mesi scorsi (chi fosse interessato può leggerlo, scaricandolo da questo link). Per quanto riguarda la prima ho provato a impostare la questione facendo ricorso ad alcuni strumenti elementari di teoria dei giochi. Con questo approccio si ottengono parecchi vantaggi: (i) la complessa problematica della guerra viene riportata al suo scheletro essenziale, alle mosse a disposizione delle parti in gioco (invadere o non invadere; combattere o arrendersi; ecc.) e ai payoff risultanti dalle varie combinazioni di mosse; (ii) i risultati ottenuti sono controllabili da chiunque; (iii) la dipendenza dei risultati dalla struttura del gioco, dal timing, dai valori dei parametri e dal quadro istituzionale in cui i giocatori si muovono può essere agevolmente incorporata nell’analisi. Ovviamente ci sono anche gli svantaggi: il principale è che, per essere analiticamente trattabili e per fornire risultati leggibili, i modelli devono essere semplici. Ne consegue il rischio che essi siano troppo semplici, e perciò incapaci di dar conto della complessità delle situazioni reali.
Ciò premesso, alcune conclusioni cui arrivo nel lavoro citato sopra mi sembrano non del tutto prive di interesse. La prima. Contrariamente a quel che si sarebbe portati a pensare, le guerre non sono giochi “a somma zero”; nei giochi il cui esito (certo o probabile) è la guerra ci sono in genere combinazioni di mosse che darebbero ai due contendenti dei payoff la cui somma è maggiore di quella che i due ottengono “scegliendo” la guerra. La seconda. Dietro ogni guerra c’è un conflitto ma non è vero il viceversa: non tutti i conflitti sfociano in una guerra; molto spesso vengono risolti con un accordo tra le parti. La guerra può emergere come risultato del gioco quando il quadro istituzionale non consente accordi vincolanti (abbiamo cioè un “gioco non-cooperativo”). Ma questo non basta: occorre anche che l’accordo non sia un equilibrio di Nash (una combinazione di mosse che nessuno ha interesse a rinnegare). E neppure in questo caso la guerra è inevitabile: il risultato del gioco può essere quello di una pace armata (o di una “guerra fredda”) sostenuta da meccanismi di dissuasione.
Applicando la teoria dei giochi al conflitto tra Russia e Ucraina, nel mio lavoro arrivo ad altre conclusioni non del tutto scontate. La guerra è scoppiata essenzialmente per due motivi. Il primo. È scoppiata per errore, nel senso che sia la Russia che l’Ucraina hanno largamente sopravvalutato il proprio potenziale e sottovalutato quello dell’avversario. Quello che è sfociato nell’invasione russa e poi nella guerra è un gioco a informazione incompleta, ed entrambi i contendenti hanno ritenuto, sbagliandosi, che le probabilità fossero favorevoli per la propria parte. La Russia ha interpretato una serie di indicatori del quadro internazionale (l’alleanza con la Cina, il ritiro americano dall’Afghanistan, la dipendenza energetica della Germania e del resto dell’Ue, la sostanziale acquiescenza di fronte all’occupazione della Crimea e delle regioni lungo il Don, la prevalenza di popolazioni di etnia russa nelle regioni che si apprestava a invadere), come segnali che l’appoggio dell’Occidente all’Ucraina sarebbe stato tiepido e svogliato. Si sbagliava. L’Ucraina ha fatto l’errore simmetrico: contava su un impegno militare molto più diretto e consistente da parte della Nato, che avrebbe dissuaso i russi dall’intervento. Si sbagliava (per lo meno all’inizio; oggi non so).
Il secondo e per certi versi più importante motivo per cui la guerra è scoppiata è che non è stato fatto nulla per evitarla. Non tanto da parte dei due contendenti, da anni impegnati in continui scontri di confine, quanto da parte di chi avrebbe avuto la possibilità e l’interesse, date le rovinose conseguenze sistemiche della guerra (sull’economia mondiale e non solo), a mettere a punto e imporre (anche ai due riottosi contendenti) una soluzione vantaggiosa per tutti (anche per Russia e Ucraina). Parlo degli Stati Uniti e della Cina; e parlo dell’Unione europea. La storia passata è ricca di soluzioni di peacekeeping di successo, in cui potenze anche fortemente ostili hanno impedito lo scoppio di guerre locali o le hanno spente sul nascere. Penso alla crisi di Suez (1956) o a quella di Cipro (1974), dove le grandi potenze dell’epoca, Usa e Urss, si trovarono occasionalmente, nonostante la “guerra fredda”, dalla stessa parte. Ma la storia passata è ricca anche di soluzioni di peacebuilding, ossia di iniziative in cui le grandi potenze hanno realizzato accordi capaci di risolvere positivamente le occasioni di conflitto prima che potessero degenerare. Nel mio lavoro mi soffermo per esempio, sul trattato che stabilì l’indipendenza e la neutralità dell’Austria. Eravamo nel 1954, sempre in piena “guerra fredda” e sempre con protagonisti Usa e Urss.
Cosa avrebbero potuto fare Usa, Ue e Cina per evitare l’invasione e la guerra? La soluzione apparentemente più semplice era quella di costituire una forza di dissuasione adeguata, tale da non rendere più conveniente, per la Russia, la scelta di intervenire. La cosa è più facile a dirsi che a farsi. C’è un precedente molto studiato, quello della crisi dei missili a Cuba nel 1962. In quel caso la minaccia americana si basava su un rischio calcolato (brinkmanship) ed ebbe successo, ma si andò molto vicini allo scoppio della terza guerra mondiale. Ciò perché, come mostra la teoria dei giochi, in queste situazioni non si può escludere che la situazione sfugga di mano a entrambe le parti; e perciò si precipiti nella guerra senza che nessuno la voglia (il precedente storico più famoso è lo scoppio della Prima guerra mondiale).
La strada della deterrenza non è la scelta migliore per scongiurare una guerra anche per altri motivi. Tanto per cominciare è inefficiente; perché si ottiene il risultato (se lo si ottiene) destinando risorse nel presente e anche nel futuro al consolidamento degli armamenti invece che a obiettivi, molto più apprezzabili, come direbbe papa Francesco, di crescita economica e sociale. Ma soprattutto, percorrendo quella strada non si affrontano le ragioni del contrasto di interessi che è alla base del conflitto; ci si limita a tenerle sotto controllo, ma non si fa nulla per risolverle.
Un percorso più promettente sarebbe stato quello di sfruttare l’idea che, quando oltre a un motivo di contrasto c’è anche un surplus da distribuire (ed è il caso del territorio conteso tra Russia e Ucraina), allora è sempre possibile identificare un accordo efficiente sulla falsariga del contratto di Nash. Un accordo del genere non era nelle corde dei due contendenti, ma avrebbe potuto essere proposto loro da Usa, Ue e Cina (magari col contributo dell’Onu) che avrebbero avuto la forza e i mezzi per fare le proposte, gestire la trattativa e far rispettare (enforce) il risultato. Nel mio lavoro ho esplorato i contenuti di una possibile ipotesi di accordo, senza sottovalutare quanto fosse costellata di incognite e difficoltà. Comunque, né Usa né Ue né Cina hanno fatto alcun tentativo in questa direzione, sicché non è rimasta che la guerra.
Sospetto che affidare le proprie politiche alle norme del diritto internazionale, norme ambigue, mutevoli (in Kosovo valeva il principio dell’autodeterminazione dei popoli, in Ucraina vale il principio del rispetto dei confini) e prive di un’autorità riconosciuta che le faccia rispettare, non sia stata una buona idea. Penso che molto meglio, invece, sarebbe stato (e forse, sia pure in condizioni molto peggiori, sarebbe ancora) cercare soluzioni di compromesso per distribuire nel modo migliore il potenziale surplus implicito nel conflitto, facendo leva, appunto, sugli interessi a lungo termine. Del resto, la storia d’Europa degli ultimi decenni ha mostrato che, per avere l’accesso alle risorse altrui, il commercio e l’integrazione economica e istituzionale sono meccanismi molto più efficaci ed efficienti delle guerre di conquista, il cui potenziale distruttivo è nel frattempo cresciuto a dismisura.
E questo ci riporta alle ultime domande. Come finirà questa guerra? E tutti coloro che direttamente o indirettamente sono coinvolti cosa si aspettano da questa guerra? Quali sono i loro desideri e quali i loro obiettivi (che non sono la stessa cosa)? La guerra non è una partita di tennis che mette in palio una coppa (come si è detto prima, la guerra non è un gioco a somma zero). L’obiettivo dichiarato dell’Occidente è quello di difendere i valori delle istituzioni democratiche. Siamo sicuri che sia stata scelta la strada migliore per farlo? Il desiderio non dichiarato è quello di sconfiggere Putin (che a mio avviso se lo merita senza riserve) e magari di provocare il crollo del suo regime. Di nuovo, siamo sicuri che l’escalation bellica sia la strada migliore? E abbiamo valutato con un po’ di attenzione le possibili conseguenze e i possibili scenari?
In alcune pagine del mio lavoro ho accennato alla guerra di Corea dei primi anni Cinquanta del secolo scorso. Quel che sta succedendo in Ucraina me la ricorda molto. Anche allora tutto cominciò con un’invasione; anche allora l’Occidente intervenne militarmente a sostegno della parte invasa. Anche allora la controffensiva andò oltre le esigenze del recupero territoriale (realizzato, quella volta, in poche settimane). Anche allora si corse il serio rischio (evitato in extremis) dell’utilizzo delle armi nucleari. La guerra si prolungò per quasi tre anni, provocò 2.800.000 vittime e si concluse con un armistizio che ristabilì il confine di partenza, quello lungo il 38° parallelo. Fino a oggi non è ancora stato mai firmato un trattato di pace.
Chiudo con una nota di attualità. La comparsa sulla scena di un concreto rischio di escalation nucleare sta cominciando a cambiare gli atteggiamenti di tutti, di chi è coinvolto direttamente e di chi solo (?) indirettamente. Mi limito a citare una risposta dell’alleato cinese a Putin al recente vertice di Samarcanda: la richiesta di “un cessate il fuoco immediato, fine della guerra, dialogo, negoziato”. Senza dubbio arriva con colpevole ritardo; ma meglio tardi che mai. E gli Usa? E l’Europa? Il governo britannico ha ribadito all’Assemblea dell’Onu la sua linea di sostegno incondizionato (“non ci fermeremo finché l’Ucraina non avrà trionfato”). Più misurato l’intervento di Draghi che ha confermato il sostegno, ma in una prospettiva in cui l’obiettivo finale è la pace. Ovviamente il più bellicoso è stato Zelensky, che sentiva il vento girare dalla sua parte. Posso capirlo, ma penso che un leader che si trova in vantaggio dovrebbe sapere che quello è il momento più favorevole per aprire uno spazio alle trattative.