ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 184/2022

18 Dicembre 2022

Gli effetti positivi dei lavoratori stranieri di cui non si parla

Bianca Balsimelli Ghelli e Francesca Maria De Matteis riassumono i principali contenuti delle Lezioni Caffè recentemente tenute a Roma da Giovanni Peri sul tema degli effetti economici delle migrazioni nei paesi di destinazione. Le due autrici richiamano in particolare i fatti e gli argomenti utilizzati da Peri per sostenere che quegli effetti, contrariamente alle tesi più diffuse, possono essere positivi anche indipendentemente dalle competenze degli immigrati purché siano sostenuti da adeguate politiche.

Il 14 e il 15 dicembre nell’Aula 5 della Facoltà di Economia della Sapienza, a lui dedicata, si sono tenute le tradizionali lezioni in memoria di Federico Caffè, organizzate dal Dipartimento di Economia e Diritto con gli “Allievi di Federico Caffè”, guidati dal professor Mario Tiberi e in collaborazione con Banca d’Italia. In apertura hanno portato i loro saluti il Preside della Facoltà, Fabrizio D’Ascenzo, il pro-rettore vicario Giuseppe Ciccarone e il Direttore di Dipartimento di Economia e Diritto, Michele Raitano. Nel corso dei saluti si è avuto modo di mettere in luce l’importanza del contributo di Caffè alla politica economica e il ruolo centrale che nel suo insegnamento ha avuto la convinzione che la politica economica dovesse essere utilizzata per rendere i mercati più amichevoli nei confronti del benessere sociale. Questo suo insegnamento, si è detto, è ancora vivo, è stato sapientemente raccolto e coltivato e anche oggi viene trasmesso agli studenti della Facoltà di Economia. 

Anche le lezioni di quest’anno si iscrivono molto bene in questa prospettiva. A tenerle è stato chiamato il professor Giovanni Peri, docente di Economia all’Università della California, Davis, fondatore e direttore del Global Migration Center. Peri è ben conosciuto per le sue ricerche sui fenomeni migratori, sulle loro determinanti economiche e, soprattutto, sulle loro conseguenze nei paesi di destinazione. 

Il professor Peri all’inizio del suo primo intervento ha tenuto a richiamare gli aspetti del suo lavoro di ricerca che più immediatamente possono collocarsi nel solco dell’eredità di Caffè. Si tratta, in particolare del ruolo che le politiche migratorie, se ben disegnate, possono avere per sostenere lo sviluppo economico e favorire l’equità, migliorando le condizioni di vita soprattutto dei segmenti più deboli della popolazione, anche nel paese ricevente. 

Nello specifico, le due lezioni si sono concentrate sugli effetti delle migrazioni sul mercato del lavoro e sulle prospettive di crescita dei paesi riceventi. Nella prima lezione Peri ha illustrato i potenziali benefici che gli immigrati altamente qualificati possono portare nel paese ricevente; nella seconda, l’attenzione è stata rivolta principalmente alle politiche dirette a integrare i migranti meno istruiti e più vulnerabili. 

Dalla prima lezione è emerso che l’immigrazione di lavoratori specializzati e qualificati può costituire, ed ha costituito in concrete esperienze, un motore di crescita economica, imprenditorialità ed innovazione per il paese di destinazione. Definiti come “coloro che hanno cambiato in qualche momento della vita il loro paese di abituale residenza”, i migranti possono, dunque, rappresentare una risorsa per il paese di destinazione accrescendo, inizialmente, l’offerta di lavoro a alta intensità di capitale umano e con effetti benefici successivi su produttività, crescita e anche salari di molti lavoratori nativi. 

I fatti stilizzati presentati nella lezione basterebbero da soli a mostrare quanto poco fondate siano alcune diffuse convinzioni che circolano tra gli accademici e, soprattutto, ricorrono nel dibattito mediatico: il numero totale di migranti sul totale della popolazione mondiale, diversamente dall’allarmismo che circonda la questione, è rimasto stabile negli ultimi decenni (3% nel 1970, circa 3% nel 2020). Inoltre, sembra esservi un processo di selezione positiva delle caratteristiche degli emigranti: di solito hanno istruzione e competenze più elevate di chi resta e hanno anche una maggiore propensione all’adattabilità e all’imprenditoria. Si può aggiungere che i migranti ad alto capitale umano oltre ad avere una maggiore probabilità di ottenere un livello di reddito elevato sono anche meno esposti al rischio di subire il costo psicologico dell’emigrazione. Il contributo che immigrati con queste caratteristiche possono dare all’economia del paese in cui si spostano è ben illustrato dal caso dei lavoratori stranieri del settore STEM (acronimo inglese dell’equivalente italiano Scienze, Tecnologie, Ingegneria e Matematica) negli Stati Uniti: secondo le stime di Peri e dei suoi collaboratori costoro contribuiscono per un terzo all’aumento della produttività nelle aree metropolitane verso cui si muovono.

Di interesse, tra gli altri aspetti richiamati dal prof. Peri, è stato il riferimento alla vivace dinamica di creazione (e distruzione) di imprese cui contribuiscono gli immigrati più qualificati con le loro capacità imprenditoriali che sostengono innovazione e investimenti. Come molti altri è questo un aspetto spesso trascurato. 

Il prof. Peri ha anche ricordato che nel nostro paese si assiste al fenomeno opposto della “fuga dei cervelli”. A tale fenomeno il governo sta tentando di far fronte attraverso misure di “controesodo” consistenti in sgravi fiscali per chi decide di tornare in Italia. Peri ha rilevato che questi incentivi fiscali, data la loro entità, possono essere efficaci nel favorire il “rientro dei cervelli”, ma possono avere rilevanti costi per il bilancio pubblico. Più precisamente, la previsione è che Il costo di ciascun rientro per il bilancio pubblico si annulli unicamente se chi beneficia degli sgravi fiscali ha davanti a sé una vita lavorativa in Italia di almeno 15 anni.

Nella seconda lezione l’attenzione si è spostata sui migranti più vulnerabili, perché meno istruiti o perché richiedenti asilo politico in seguito a esperienze traumatiche e conflitti nel paese di provenienza. 

Peri ha iniziato la sua analisi focalizzando l’attenzione su un elemento essenziale, di cui spesso non si tiene conto nei dibattiti politici: l’integrazione degli immigrati è la chiave di volta affinché essi possano dare un contributo positivo al mercato del lavoro e, più in generale, all’economia dei paesi riceventi. E questo è vero per tutti i tipi di migranti, a prescindere dal motivo per cui decidono di intraprendere questa strada e dal loro livello di istruzione o competenze.

Tuttavia, raggiungere un buon livello di integrazione è più difficile per i migranti più vulnerabili, a causa di barriere linguistiche e discriminazioni. Peraltro, questi migranti sono più onerosi per il bilancio pubblico perché richiedono più servizi e e contribuiscono in modo marginale alle entrate fiscali. 

Confrontando Stati Uniti ed Europa, Peri ha mostrato che l’integrazione dei migranti (soprattutto dei rifugiati) avviene con maggiore facilità e con risultati migliori negli Stati Uniti rispetto a molti paesi europei. Ciò risulta dalla figura 1 che riporta l’andamento del tasso di occupazione degli immigrati (rossi) e dei rifugiati (blu), in 9 paesi, dal momento di arrivo nel paese di destinazione.

Figura 1: andamento del tasso di occupazione di immigrati (linea rossa) e rifugiati (linea blu) dall’anno di arrivo nel paese di destinazione

Mentre negli USA e in Canada nel lungo periodo i tassi di occupazione di immigrati e nativi tendono a convergere, in molti dei paesi europei i tassi di occupazione degli immigrati sono relativamente bassi anche molti anni dopo l’arrivo. 

Ponendo l’attenzione sui rifugiati in Europa, Peri ha poi esplorato le possibili politiche di integrazione che i paesi ospitanti dovrebbero adottare per avere effetti positivi nel mercato del lavoro, facendo riferimento a un suo studio relativo al caso della Danimarca. Tale paese negli ultimi 30 anni ha introdotto numerose misure alternative di integrazione dei rifugiati, fra le quali, programmi di formazione linguistica, tagli ai trasferimenti di welfare (per incentivare la ricerca di lavoro), diverse strategie di assegnazione dei rifugiati alle varie province danesi. 

Fra queste, molto efficace sembra essere stata l’azione rivolta ad accrescere la formazione linguistica. I rifugiati che hanno frequentato corsi specifici di danese di 400 ore l’anno risultano aver beneficiato, in misura non irrilevante, di più elevate probabilità di occupazione e più alti salari. Inoltre, e questo appare molto importante, i figli di chi ha beneficiato della formazione linguistica raggiungono esiti scolastici migliori. Al contrario, i tagli alle misure di welfare – ispirati all’idea che ridurre i sussidi incentiverebbe l’attivazione degli individui più fragili – producono effetti occupazionali solo di breve periodo.

In sintesi, le due lezioni tenute da Giovanni Peri hanno chiarito come i risultati che emergono dagli studi degli economisti sugli effetti della presenza di lavoratori stranieri sul mercato del lavoro dei paesi riceventi siano spesso in contrasto con le affermazioni veicolate dai media e forse anche controintuitivi, I migranti, sia quelli con più alto capitale umano sia quelli più vulnerabili, possono rappresentare un’opportunità di crescita economica per i paesi riceventi soprattutto se si adottano adeguate politiche complementari. 

La sfida rimane quella di attuare efficaci misure di integrazione, che rispondano adeguatamente alle esigenze di una platea di migranti spesso eterogenea, in primo luogo per competenze. La complessità della questione è tale che non è possibile accontentarsi di spiegazioni frettolose o superficiali desunte, talvolta, da semplificati modelli economici e, più spesso, conseguenza di infondate narrative, se non proprio di affermazioni propagandistiche, sulle dinamiche che disciplinano il mercato del lavoro e i sistemi economici in un mondo globalizzato.

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