Gli Stati Uniti d’Europa

Francesco Gui presenta, a quasi 150 anni dalla pubblicazione, la prima traduzione italiana de Gli Stati Uniti d’Europa, opera di Charles Lemonnier, giurista e filosofo sansimoniano tra i fondatori della Lega internazionale della pace e della libertà, nata a Ginevra nel 1867 in occasione del Congresso della pace presieduto da Garibaldi. Il libro ne riassumeva le posizioni: in particolare la rivendicazione di un’Europa di stati nazionali "repubblicani" liberati dagli imperi e unificati da istituzioni federali come quelle degli USA. Inoltre l'impegno per il progresso e per la "questione sociale".

Non possiamo perciò, né nelle nostre case, né nelle nostre scuole, impartire ai nostri bambini una buona educazione senza insegnar loro implicitamente gli Stati Uniti d’Europa. Non possiamo essere giusti verso i nostri operai, i nostri dirigenti, i nostri maestri, i nostri servitori, senza far germinare gli Stati Uniti d’Europa.

Charles Lemonnier (1872)

 

“Gli Stati Uniti d’Europa”. Centocinquant’anni or sono. Una Lega internazionale della pace e della libertà fondata precisamente per questo; un tumultuoso Congresso paneuropeo convocato nel 1867 a Ginevra quale “assise della democrazia europea”, con l’obiettivo dell’Europa federale; un Comitato centrale permanente appositamente istituito nell’occasione; l’edizione nel 1872 di un libro intero, non enorme, ma deciso e rigoroso nell’esigere fin dal titolo: Les Etats-Unis d’Europe. In più, un’omonima rivista pubblicata in varie lingue nei decenni successivi. E in aggiunta il fiorire nel contorno di molteplici iniziative pacifiste, embrionalmente federaliste e finanche crocerossine.

Come interpretare tutto ciò? Agitazioni illusorie d’altri tempi? Vaneggiamenti di anime belle ottocentesche? In realtà, i protagonisti dell’avvincente vicenda furono nient’altro che personaggi, per citare i più celebri, di nome Victor Hugo, o John Stuart Mill, o Michail Bakunin, o Fëdor Dostoevskij, in appassionato dialogo, sia pur senza troppa sintonia, tanto con Karl Marx che con Giuseppe Mazzini. Per non dire poi di Giuseppe Garibaldi, chiamato al ruolo di presidente onorario del Congresso di Ginevra, con Carlo Cattaneo in relativa vicinanza.

Quanto basta cioè per poter affermare questo: furono proprio tra i migliori spiriti dell’Ottocento coloro che, attorno agli esordi dell’unificazione germanico-prussiana, si mobilitarono per far sì che il risorgimento delle nazionalità portasse con sé l’instaurazione dello stato federale europeo. Ossia il “sogno” della pace irreversibile e della libertà per tutti. Ovvero senza imperi ad opprimere i popoli più deboli (si pensi alla Polonia o alla Cecoslovacchia, o ai paesi baltici, o ai balcanici, liberati solo dal sangue della Grande Guerra). E in più con donne e uomini di ogni stato membro – non meno che dei futuri Stati Uniti d’Europa – egualmente garantiti da istituzioni democratiche a suffragio universale. La miglior forma di governo non poteva infatti che essere parlamentare per tutti, ad ogni livello.

Una lucidità, un’autorevolezza e una preveggenza, insomma, che non possono non lasciare ammirati, e in qualche modo anche stupiti, se non un attimo perplessi. Perché, se è vero, come è vero, che quei visionari avevano capito già da allora le potenzialità di sviluppo civile e istituzionale (anche produttivo e scientifico) della società europea, purché “repubblicana” e unita, un quesito sorge spontaneo, oltre che vagamente malinconico: ma come mai tanto capitale di intelligenza e di impegno socio-politico è stato così a lungo trascurato, se non rimosso? Ma per quale motivo risulta tuttora improbabile ritrovare nelle storie, ovvero nei manuali scolastici, una qualche efficace citazione di tanto egregia esperienza?

In realtà, non che la cosa, almeno in parte, non si possa capire… È fin troppo noto infatti che la storia europea avrebbe finito per produrre, almeno nella prima metà del Novecento, il cruento massacro delle due guerre mondiali. E pertanto si possono anche comprendere sia storici che narratori politici per i quali, salvo onorevoli eccezioni, è risultato spontaneo considerare i convenuti di Ginevra del ’67 degli inguaribili quanto trascurabili buonisti (…..)

E perciò che motivo c’era di farne ancora parola? Quanto poi all’Europa federata, è noto che al di là delle Alpi, ma anche di qua, essa suscita tuttora in molti un senso di fastidio, se non di ripulsa.

Sicché può risultare abbastanza intuibile, almeno ad un primo approccio, il fatto che nemmeno in Francia una personalità come Charles Lemonnier risulti valorizzata quanto merita. Eppure Lemonnier (1806-91) è stato tra i principali promotori degli eventi a vocazione euro-federale di cui sopra, nonché autore de Les Etats-Unis d’Europe, il prezioso, profetico, davvero avvincente libretto dato alle stampe nel 1872 (……)

In sostanza, per quanto realistico possa risultare il pragmatismo di chi vede il senso della storia essenzialmente nella ragion di stato e di nazione, o magari di classe, il rendersi conto che nella realtà sussiste spesso una dialettica avvincente fra le ruvide concretezze del princeps machiavelliano e i cosiddetti sognatori arricchisce ulteriormente la conoscenza del passato-presente. Con l’ulteriore aggiunta che, in base all’esperienza, il dono della concretezza creativa è risultato albergare piuttosto fra i preveggenti di etico sentire che non presso l’uomo forte o il partito del tutto o nulla. Perché dunque ignorare? Come dunque non tenerne conto?

A conforto di tale asserzione sarà utile ricorrere, a titolo di esempio, a certe profezie di Victor Hugo, peraltro non ignote, che mettono veramente un brivido a chi le ascolta, fosse anche per l’ennesima volta. Come dimenticare tra gli altri, quel suo vaticinio del «un jour viendra» emesso al Congresso della Pace di Parigi, nel 1849? Quella sua fantastica predizione per la quale non solo sarebbero nati, sia pure “un giorno”, gli Stati Uniti d’Europa, ma questi stessi Use, tenendosi mano nella mano con gli Usa, avrebbero creato un mondo tutto unito, sviluppato, pieno di scienza e di arte, tale da «migliorare la creazione sotto lo sguardo del Creatore»? (V. Hugo, Écrits politiques, Librerie Générale Française, 2017, p. 237). Veramente sacrilego dimenticare una divinazione del genere.

E quand’anche non proprio sacrilego, sarebbe certo scorretto non dare a Hugo il merito di aver previsto, alla vigilia del Congresso ginevrino, «un mondo in cui la circolazione sarà preferita alla stagnazione»; addirittura «un cielo popolato di navi-aerei»; «il globo divenuto la casa dell’uomo», purché ognuno si considerasse «cittadino e lavoratore del mondo» (queste citazioni sono tratte dal discorso del 21 agosto 1849, all’apertura del Congresso della Pace). Fantastico. Semmai qualche dubbio sulla chiaroveggenza dell’autore di Notre-Dame de Paris si potrebbe forse nutrire in merito alla sua asserzione che nel ventesimo secolo una guerra, per dire, fra italiani e tedeschi sarebbe risultata impensabile, assurda, roba da Medioevo profondo. A ben vedere, in effetti… Ma che dubbio amaro però…

In breve, volendo ripetersi, nella storia i vaticini di certi visionari sono risultati, alla lunga, beninteso, più ragionevoli e convenienti delle argomentazioni dei cosiddetti uomini veri. O come minimo, nel valutare epoche ed eventi del passato, la presa d’atto del contributo degli uni si rivela altrettanto importante rispetto al decisionismo degli altri. E questo nel reale interesse di chi voglia capire i percorsi, con la speranza di evitare in futuro il ripetersi di certi disastrosi errori (….)

L’operetta di Lemonnier, manifesto della Lega nata a Ginevra, meraviglia della cultura progressista dell’Ottocento, auspica con largo anticipo e con rara competenza la rapida edificazione degli Stati Uniti d’Europa. Quegli Use, sia concessa la sigla, che costituiscono oggi la scelta cruciale del nostro continente, quale passo conclusivo, salvo autolesionistici ripensamenti, verso la completa instaurazione della democrazia. Poco da fare, ritrovarsi fra le mani a cento anni e vari decenni di distanza un quadro così preciso di cosa sarebbe stata l’Europa delle nazionalità liberate, dei regimi “repubblicani” ovunque instaurati, della parità uomo-donna, del modello dello stato sociale messo all’opera, dell’istruzione gratuita e obbligatoria per tutti, del libero scambio se non del mercato unico, per non dire dello sviluppo tecnico-scientifico, ebbene una profezia del genere non può che lasciare profondamente ammirati.

Ammirati almeno al pari di chi si soffermi a constatare la competenza delle pagine dedicate agli Stati Uniti d’America ed alla federazione svizzera. Checché taluno ne dica, il giurista-filosofo-antibonapartista Lemonnier aveva colto in pieno, con precisione, le caratteristiche istituzionali dell’assetto federale (non confederale) già instaurato in quei paesi, da edificare finalmente anche nel vecchio e sanguinolento continente. E sia pur vero che il nostro autore garantiva ad ogni stato membro la sua “indipendenza”, però quest’ultima era da considerarsi uguale, come si legge, a quella di ogni stato americano. Sul quale State il governo centrale risultava e risulta tuttora “preponderante”. E dunque…

Qualcosa di veramente suggestivo, per davvero, a cui va inoltre riconosciuta l’appassionata condanna della guerra (purché in un contesto, come si è detto, di nazionalità emancipate e di libertà civili) in una con l’invocazione della soppressione delle armate permanenti e della pace irreversibile fra i popoli. Il tutto in base al riconoscimento dell’autonomia della persona, della morale come principio guida e dell’uguaglianza dei cittadini. Con il rincaro di una fiducia che diremmo positivista nell’evoluzione della specie umana, tale da far affermare, sempre a Lemonnier, che le costituzioni nazionali e federali avrebbero dovuto restare modificabili dalla volontà popolare, tenendo conto del sicuro progredire della civilizzazione. E perciò non bastava semplicemente copiare Usa o Svizzera; si doveva sempre intervenire per migliorare e innovare «con la scienza e con la politica» (………)

Peccato però (…..) che nemmeno nelle università del nostro paese, o almeno in molte, a parte i corsi specialistici, sia prevista per gli studenti un’elementare formazione alla cultura, alla storia, alle istituzioni dell’Unione europea (….). Eppure, persino il focoso Garibaldi, per quanto impegnato a difendere (prima?) gli italiani, aveva avuto la grandezza di lanciare nel 1860, da Caserta appena sottratta ai Borboni, il suo Memorandum alle potenze d’Europa. In cui tra l’altro si legge:

Noi passiamo la nostra vita a minacciarci continuamente e reciprocamente, mentre che in Europa la grande maggioranza, non solo delle intelligenze, ma degli uomini di buon senso, comprende perfettamente che potremmo pur passare la povera nostra vita senza questo perpetuo stato di minaccia e di ostilità degli uni contro gli altri, e senza questa necessità che sembra fatalmente imposta ai popoli da qualche nemico segreto ed invisibile dell’umanità di uccidersi con tanta scienza e raffinatezza. Per esempio, supponiamo che l’Europa formasse un solo stato… (….)

Ché poi, anche le predizioni riscontrate sul versante parigino, sia pure con un certo inguaribile gallocentrismo, non son da poco. Basterebbe infatti rileggere, a solo titolo di esempio, il discorso di Hugo del maggio ’67 (V. Hugo, Écrits politiques, cit., p. 237), quello sul meraviglioso futuro della civiltà, per apprendere di una “nation” che, parole sue: «avrà come capitale Parigi, e non si chiamerà affatto Francia; si chiamerà l’Europa» (…).

Prima di chiudere, alcune ulteriori spigolature (non prive, al solito, di rimandi kantiani) tratte dal testo di Lemonnier. Fra le altre, con incisi di chi scrive, risaltano le seguenti: «da questa bella utopia, gli Stati Uniti d’Europa, siamo distanti – efficace, determinato – tanto quanto vorremo»; «la sovranità del popolo è basata – giustamente etico – sulla sovranità della coscienza individuale»; «nessun popolo potrà entrare nella Confederazione europea se non avrà il pieno esercizio – rigoroso – del suffragio universale» [e in più quanto previsto nelle delibere, da leggere, del Congresso del ’67, nda]; «il governo generale deve essere indipendente – proprio così – dai governi nazionali»; «l’emancipazione completa degli individui» – profondo e da condividere – avviene «tramite la diffusione della scienza»; «sviluppare l’istruzione pubblica e privata – generoso e fondamentale (forse con qualche problema su «privata») – rappresenta oggi più che mai l’avvio della saggezza»; «la facilità che l’unità di un unico governo europeo apporterebbe – il mercato unico? la moneta unica? – alla soluzione della gran parte delle questioni commerciali, agricole e manifatturiere». Perciò dunque «predicare la Repubblica».

E infine, coraggioso, apodittico, quasi apostolico: «Il diritto delle popolazioni di disporre di se stesse è superiore alla loro nazionalità». Federalismo insomma, senza tema di errore. I popoli, cioè, possono decidere di darsi un governo a loro «superiore», con tutte le istituzioni necessarie allo scopo. Sovranazionalità, fuor di dubbio.

(…..) Per converso, al nostro, nella sua concretezza, non pareva il caso di vagheggiare il cosmopolitismo, ovvero la «Repubblica universale», altrimenti detta «Unione mondiale», decisamente cara, possiamo annotare, a Mazzini ed anche a Garibaldi. A suo avviso (me se ne potrebbe discutere) nemmeno Kant la voleva, mentre esigeva invece: «per quanto la parola non trapeli nei suoi scritti, la Repubblica federale europea» (A. Anteghini, Pace e federalismo: Charles Lemonnier, una vita per l’Europa, Giappichelli, 2005, p. 270 e segg.)

Ossia ciò che Lemonnier riassume come segue, vagheggiando la meta:

La creazione degli Stati Uniti d’Europa, cioè l’istituzione giuridica di una Federazione di popoli, è il principio medesimo della Repubblica, che altro non è che il principio stesso della morale.

* Queste articolo è tratto dalla presentazione che apre la prima traduzione italiana di Les Etats-Unis d’Europe di Charles Lemonnier, originariamente scritto nel 1872, pubblicata da Bulzoni con il titolo Gli Stati Uniti d’Europa.

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