ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 218/2014

30 Giugno 2024

Globalizzazione, finanza e cambiamento degli equilibri di potere

Andrea Boitani argomenta che la globalizzazione, e in particolare la mobilità dei capitali, aumentando la possibilità per le grandi imprese di minacciare e attuare exit, ha accresciuto il potere dei manager delle grandi corporations e dei fondi di investimento che spesso le controllano, e ha tolto voice ai lavoratori e spazio di manovra ai governanti, rendendo più difficile introdurre forme di partecipazione dei lavoratori e degli altri stakeholders alle decisioni di impresa.

Non vi è dubbio che la globalizzazione ha in vari modi plasmato il mondo in cui viviamo. Alcuni di questi, specie quelli considerati più positivi, sono stati ampiamente messi in luce. Altri, decisamente meno. E tra di essi vi è l’impatto sul potere (in senso lato). Iniziamo ricordando brevemente i principali effetti attribuiti alla globalizzazione.

 A favore della globalizzazione, è stata ampiamente esplorata la maggiore efficienza raggiunta attraverso la specializzazione internazionale e l’estensione degli scambi internazionali che consentono una migliore divisione internazionale del lavoro (per esempio, I. Visco, “Multilateralismo e sfide globali”, in Temi di politica economica. Studi per Luciano Marcello Milone, a cura di Nicola Acocella e Gian Cesare Romagnoli, di prossima pubblicazione). Non minore rilievo è stato attribuito all’importanza di poter scegliere la localizzazione produttiva che minimizza i costi. È stata abbondantemente sottolineata, proprio come conseguenza dei guadagni di efficienza appena menzionati, la spinta che la globalizzazione ha dato alla crescita dei paesi più poveri e all’uscita di centinaia di milioni di persone dalle condizioni di povertà estrema, anche se, alzando anche di poco la soglia della povertà assoluta e tenendo conto dell’inflazione, il numero di quanti sono realmente usciti dall’indigenza risulterebbe ridimensionato.

La mobilità dei capitali è divenuta una componente fondamentale della globalizzazione, soprattutto dopo la fine, nei primi anni ’70 del secolo scorso, del regime concordato a Bretton Woods, che prevedeva una progressiva estensione del libero commercio ma il mantenimento di forti limiti ai movimenti internazionali di capitale. Tra i lati oscuri della globalizzazione, è stata additata proprio l’instabilità generata, soprattutto ma non solo, nei paesi emergenti dalla mobilità dei capitali finanziari. Gli afflussi massicci di capitali alla ricerca di rendimenti possono infatti produrre surriscaldamento macroeconomico, rivalutazioni eccessive della moneta locale (con effetti negativi sulla competitività) e boom creditizi. L’improvvisa fuoriuscita di capitali – sia dovuta all’innalzamento del rischio-paese percepito che all’opportunità di ottenere rendimenti più elevati altrove – può poi provocare un abnorme rialzo dei tassi di interesse e il blocco improvviso dell’attività economica (J. Ostry, “Managing capital flows: Towards a policy-maker vademecum”, in Taming the Tide of Capital Flows, a cura di A.R. Ghosh, J. Ostry, M.S. Qureshi, MIT Press, 2018).

Meno esplorato dagli economisti (con la parziale eccezione di Joseph Stiglitz, da ultimo in The Road to Freedom, Norton, 2024) è l’impatto che la globalizzazione e in particolare la mobilità dei capitali (sia reali che finanziari) ha sul potere delle grandi corporations e della finanza rispetto a quello dei governi, da un lato, e dei lavoratori dall’altro. Se le grandi corporations sono libere di spostare i propri investimenti verso paesi in cui la tassazione o le cui regolamentazioni (relative, in particolare, al lavoro e all’ambiente) sono ritenuti nel complesso più favorevoli per i profitti, vuol dire che esse hanno possibilità di esercitare la minaccia di exit dal paese dove sono inizialmente insediate. Con ciò acquisiscono un ampio potere tanto nei confronti dei governi quanto dei lavoratori che, nella maggior parte (soprattutto quelli con qualifiche più basse e/o minore istruzione), sono assai meno mobili dei capitali e quindi più legati al territorio o almeno al paese di origine. Come notato da Maurizio Franzini, inoltre, “la minaccia di exit può affievolire la voice dei lavoratori… In altri termini, l’exit dei ‘forti’ (anche solo minacciata) riducendo l’efficacia (anche soltanto ‘attesa’) della voice dei ‘deboli’ atrofizza la loro voice” (M. Franzini, “Voice”, Parolechiave, 2/2018, p. 10). 

La mobilità dei capitali può dare luogo a una corsa verso il basso tra diversi paesi. La competizione per accaparrarsi gli investimenti diretti esteri, infatti, spinge i governi ad accettare condizioni più favorevoli per gli investitori ma meno favorevoli per i lavoratori. E ciò riguarda tanto la regolamentazione (compresa quella ambientale) e il regime antitrust, quanto la tassazione dei redditi da capitale, le relazioni industriali e il costo del lavoro. Nelle parole di Stiglitz (La globalizzazione che funziona, Einaudi, 2006, p. 222), “La concorrenza tra paesi in via di sviluppo (e non solo quelli in via di sviluppo, n.d.r.) per attirare gli investimenti può innescare un circolo vizioso, perché le aziende tenderanno sempre a privilegiare le nazioni con leggi più permissive in materia di tutela dei lavoratori e dell’ambiente”. Naturalmente, poi, le grandi multinazionali sanno come esercitare pressioni contro le norme ambientali, le regolamentazioni e le tasse che mettono in pericolo i loro profitti, sia minacciando la exit per trasferire i propri asset in un paese più morbido sia esercitando tutte le pratiche lobbistiche e corruttive su governi deboli e che sovente hanno una dimensione economica e finanziaria di molte volte inferiore a quella delle imprese.

Il management delle grandi imprese è oggi sempre più diretta emanazione di (o condizionato da) pochi e giganteschi fondi di investimento, perlopiù americani. La concentrazione della proprietà dei capitali, avviatasi negli Stati Uniti oltre quarant’anni fa, si è diffusa in tutto il mondo, con un aumento del potere degli asset manager sui capitalisti tradizionali e i loro rappresentanti. Non approfondiremo qui l’origine specifica di questo fenomeno. È utile, però, riflettere su qualche numero. Secondo recenti stime, le azioni delle società quotate statunitensi controllate da investitori istituzionali sono passate dal 48% del 1997 al 59% del 2020. In quest’ultimo anno, i fondi di investimento americani avevano in portafoglio il 28% delle azioni delle società quotate a livello globale. Le tre maggiori istituzioni finanziarie (non bancarie) americane (Black Rock, Vanguard e State Street, le cosiddette Big Three) possiedono da sole il 17% del mercato azionario statunitense e il 4% del mercato azionario fuori degli Stati Uniti. Le Big Three hanno partecipazioni nell’81% delle società quotate americane e nel 20% delle società non americane e soprattutto in quelle più grandi e globalizzate (A. Gibadullina “Who owns and controls global capital? Uneven geographies of asset manager capitalism”, Economy and Space, 2024, vol. 56(2), 558-585). In alcune imprese chiave, soprattutto dell’intelligenza artificiale, le Big Three sono presenti insieme e insieme detengono la maggioranza dell’equity. Con questi numeri, non stupisce che sia cresciuto il potere degli asset manager. Gli obiettivi di questi soggetti sono, prevalentemente, la pura redditività finanziaria (anche se non necessariamente di breve periodo), perseguita mediante strategie slegate dai territori e dalle comunità in cui le imprese sono in origine radicate. La conseguenza probabile (e in effetti osservata) è un’ulteriore spinta alla mobilità dei capitali e alle delocalizzazioni, anche se la pandemia prima e le crisi geopolitiche poi hanno posto un temporaneo freno a tale spinta. Cresce così la credibilità della minaccia di exit e si riduce ancora la voice dei lavoratori, la resistenza dei governi e la loro capacità di compiere scelte politiche indipendenti. Scrive Gibadullina: “La concentrazione della proprietà degli asset da parte di poche società di investimento crea un enorme squilibrio di potere. L’influenza che queste imprese (e gli individui che le guidano n.d.r.) esercitano sull’economia sta crescendo e solleva preoccupazioni”.

La corsa verso il basso in termini di regolazione, protezione del lavoro e tassazione dei profitti può essere avviata dai paesi più poveri (e/o più piccoli) per attrarre investimenti dall’estero ma si riverbera anche nei paesi più ricchi, quando cercano di frenare l’emorragia di capitali (e la riduzione di “buoni” posti di lavoro) allentando la regolamentazione (anche ambientale), riducendo la pressione fiscale sui guadagni di impresa, abbassando la tutela e i diritti dei lavoratori. Questi ultimi (nei paesi da cui i capitali si allontanano o minacciano di fuggire) sono forzati ad accettare una qualche combinazione di contratti di lavoro più precari (collaborazioni esterne, finte partite Iva, part time involontario, ecc.), di minore sicurezza sul lavoro, di minore potere di incidere sulle decisioni manageriali. Gli azionisti e i manager delle grandi corporations e, indirettamente, dei grandi fondi di investimento vedono così crescere sia il loro potere di limitare le scelte o i comportamenti possibili di altri soggetti, sia quello “di “indurre” altrui comportamenti che diano luogo a cambiamenti nella struttura e nel valore degli incentivi (tassazione, regolamentazione, e relazioni industriali sono, di fatto, forme diverse di incentivo). I vantaggi per chi acquisisce più potere grazie alla globalizzazione e alla connessa “race to the bottom” sono sia economici (più alti profitti, al netto delle tasse e, quindi una più elevata quota del reddito globale), sia politici (capacità di condizionare le scelte di più governi allo stesso tempo, capacità di condizionare gli esiti elettorali), sia ideologici, supportando, anche finanziariamente, chi predica che la globalizzazione “funziona” sempre e, almeno in media, per tutti; è irreversibile e non può essere governata, perché ciò inevitabilmente produrrebbe perdite enormi. 

La mobilità dei capitali, grazie alla connessione tra gli investimenti internazionali, alla concentrazione del controllo finanziario e alla creazione delle catene internazionali del valore, rafforza la tendenza alla disarticolazione delle imprese, che ha certo origine nel cambiamento tecnologico e nel conseguente mutamento dei modelli organizzativi nelle imprese stesse. “Per certi versi, con le nuove forme, la situazione peggiora per il lavoro. In primo luogo, la frammentazione riduce la possibilità per i lavoratori di identificare istanze rivendicative comuni. Inoltre, le imprese ‘globalizzate’ sono molto meno dipendenti dalle scelte degli Stati sovrani, ciò che depotenzia grandemente l’incisività delle politiche economiche nazionali, in particolare di quelle che tutelano direttamente e indirettamente i lavoratori e che hanno caratterizzato gli anni felici dell’esperienza socialdemocratica” (M. Lippi, M. Magnani, “Impresa, comando sul lavoro e democrazia economica”, in La democrazia del XXI secolo, a cura di G. Amato, Roma, Treccani, 2021, p. 135). 

La democrazia economica, ovvero la partecipazione dei lavoratori alle decisioni di impresa, può essere vista come la via per ridurre lo squilibrio di poteri che sempre esiste nel capitalismo tra i proprietari e gestori del capitale e i lavoratori, riducendo la possibilità dei proprietari di escludere gli altri stakeholders dell’impresa (lavoratori in primo luogo) dal partecipare alle decisioni che riguardano il presente e il futuro dell’impresa stessa, ivi compresa la sua localizzazione. La democrazia economica è fondamentale nella prospettiva di giustizia sociale, intesa non tanto come redistribuzione ex post da parte dello Stato “ma come equa distribuzione primaria di diritti anche nella sfera delle decisioni economiche” (L. Sacconi, F. De Nozza, A. Stabilini, “Democratizzare l’economia, promuovere l’autonomia dei lavoratori…”, EconomEtica n. 75, 2019; anche L. Sacconi, “Governo di impresa responsabilità sociale e democrazia economica”, in Quale Europa, a cura di E. Granaglia, G. Riva, Donzelli, 2024). Tra quei diritti appare cruciale quello di poter prevenire decisioni da parte di azionisti e manager che ostacolano l’esercizio degli skills acquisiti dai lavoratori; decisioni, per esempio, come quella di rilocalizzare gli asset dell’impresa spinti dal puro “arbitraggio” sui salari e sulle condizioni di lavoro. Con l’estensione della democrazia economica verrebbe ridata anche forza ai governi nazionali, che risulterebbero meno ricattabili (certamente quelli dei paesi dai quali vengono “esportati” i capitali; probabilmente anche quelli che li “importano”). Ma proprio la disarticolazione delle imprese, con la riduzione della base di lavoratori dipendenti e sindacalizzati, la crescente libertà dei movimenti di capitale e la concentrazione del controllo azionario nelle mani di pochi grandissimi fondi di investimento finiscono per ridurre le possibilità che si affermino appropriate forme di democrazia economica. Un orientamento sovranazionale a favore della democrazia economica, o quantomeno un orientamento europeo, sembra certamente necessario, come suggerito nei citati lavori di Lippi e Magnani e di Sacconi, ripreso ed elaborato nei documenti del Forum disuguaglianze e diversità. Difficile dire se sia sufficiente.

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