Presentare un proprio libro può essere per chi l’ha scritto l’occasione per ripensarci, per dire qualcosa che non ha detto e avrebbe potuto dire, per precisare quanto ha detto. Il vantaggio, quando vi sono limiti di spazio come in questo caso, è non dover giustificare troppo i propri ragionamenti. Il titolo del libro recita Fare la guerra con altri mezzi (Il Mulino, 2023). È questo che, grosso modo, consentono i regimi rappresentativo-democratici, faticosamente costruiti dalla modernità occidentale. Ebbene, la precisazione fondamentale riguarda la natura di tali regimi. Che non siano troppo democratici, o lo siano molto imperfettamente, è assodato. Ciò che il libro non dice apertamente è che sono soprattutto il governo dei ricchi. Non il comitato d’affari di marxiana memoria. Il meccanismo è ben più complicato. Ma, tra conflitti, contraddizioni, effetti non previsti, questo sono i regimi in questione, che hanno nondimeno offerto ai governati qualche opportunità in più – incerta, ma apprezzabile – rispetto ai regimi fondati anzitutto sulla coercizione.
Lo spunto di partenza, per quella che il sottotitolo definisce una «sociologia storica» del governo democratico, sono le riflessioni sullo Stato di due grandi classici: Weber e Tilly. Per il primo lo Stato ha avuto origine da un’associazione, provvisoria, di predatori, e dalla propensione delle loro vittime ad associarsi per difendersi. Non meno oscuri sono i natali dello Stato indicati da Tilly. Per il quale, se il racket è «la forma più raffinata di crimine organizzato, allora la minaccia della guerra e la costruzione degli Stati … – classiche forme di racket col vantaggio della legittimità – sono il più grande esempio immaginabile di crimine organizzato».
Non fosse che in occidente, il potere violento ha trovato modo di durare indossando panni più pacifici e facendosi perfino garante dell’ordine. È un’opera immane, quella che ha istituito lo Stato, di cui hanno dato conto studiosi come Elias, Bourdieu, Polanyi, Foucault e molti altri. Né è stata un’opera condotta consapevolmente, alla luce di disegni strategici, anche se talora sono state concepite ambiziose strategie. È frutto piuttosto di scelte tattiche, assunte senza valutarne gli effetti di medio e lungo termine. La prima consistette nel reclutare una schiera di collaboratori professionali, per amministrare il patrimonio accumulato con la forza. Sorsero così le burocrazie di mestiere, che, secondo la formulazione weberiana, hanno col tempo espropriato coloro che avevano istituito il monopolio della coercizione.
Seguirà un fascio parecchio intricato di processi. I funzionari del re hanno regolato il monopolio tramite il diritto, elaborando via via formule legittimanti (sovranità, nazione, ecc.) e istituendo grandi apparati persuasivi, come la scuola. La principale vittima con cui, fattosi Stato, il racket ha patteggiato, restandone però prigioniero, fu invece la nascente borghesia commerciale: lo Stato aveva bisogno dei ricchi e i ricchi avevano bisogno dello Stato. Tra Stato e mercato si è stabilito un vincolo così stretto che andrebbero considerati come un unico spazio di dominio e di conflitto. Che è poi la tesi di Polanyi.
L’incontro è stato reciprocamente conveniente, ma ha prodotto altri effetti non previsti. La varietà sociale, la dissociazione degli individui tra loro, suscitate dal mercato, sono tra i motivi che hanno sospinto lo Stato a scendere a patti col pluralismo religioso, culturale, sociale e ad istituire il moderno regime rappresentativo, facendosi garante della libertà degli individui. È così che alla fine del XVII secolo l’elettività ha sostituito in Inghilterra il principio dinastico, inaugurando appunto la guerra condotta con altri mezzi: una competizione regolata e pacifica per accedere alle cariche di governo che farà scuola. Con altre impreviste implicazioni. Oltre a schiudere ufficialmente le cariche di governo ai ceti possidenti, il nuovo regime avrebbe suscitato una nuova professione fondata sulla capacità di reclutare e persuadere elettori: è la rappresentanza politica moderna, i cui professionisti, quale che sia la loro estrazione sociale, avranno interesse ad estendere il diritto di voto, nonché nel XIX secolo a politicizzare le sofferenze dei ceti popolari, coinvolti dall’industrializzazione. Nel giro di un secolo i partiti socialisti diverranno poderoso argine al potere dei ricchi, a fianco delle burocrazie pubbliche.
Tra gli effetti del regime rappresentativo rientra pure la comparsa di una rigogliosa e ostinata corrente di nostalgici dell’autorità monocratica e del potere armato. Si farà sovente sentire e sarà la premessa delle moderne dittature. Fascismo e nazismo sono le variazioni più recenti. Guarda caso, si sono sempre accordate coi ceti possidenti.
La novità di metà secolo XX è stata l’intesa tra lo Stato (o le burocrazie pubbliche), il capitalismo (o una parte dei ricchi) e il movimento operaio. Stipulata dopo la catastrofe della guerra, l’ha cementata la stagione dello sviluppo: ha ridisegnato i regimi democratici e le loro relazioni reciproche, introducendo quale ulteriore motivo di pacificazione qualche sostanzioso beneficio per i ceti popolari e le classi medie, cioè il welfare. È’ durata per un tempo tutto sommato breve. Da metà anni ’70 è iniziata un’altra stagione, che ha drasticamente potato il welfare. Senza in apparenza scalfire la conduzione democratica dell’azione di governo e della mediazione dei conflitti: diritti, parlamenti, partiti sono sempre al loro posto. Perfino i diritti sociali. Basta tagliare la spesa dello Stato. In realtà, la contesa politica si è inasprita e l’azione di governo è divenuta unilaterale: chi vince le elezioni governa, anche quando la maggioranza è artificiosamente fabbricata dalle norme elettorali, chi perde sta a guardare. È’ stata la premessa per l’invasione da parte del mercato degli spazi dello Stato, della politica, partiti socialisti inclusi, della società civile. La stagione dello sviluppo si era consumata e i sistemi industriali occidentali sono decaduti. I ricchi, o i capitalisti, si sono difesi, hanno reagito utilizzando quali armi le nuove tecnologie, sollecitando i governi a liberalizzare gli scambi di merci, capitali, persone, sostituendo la speculazione finanziaria alla produzione. A spese del mondo del lavoro, la cui attuale alienazione politica ben si spiega.
Tra gli eventi inattesi – dai più – della stagione iniziata a metà anni ’70 c’è il rovesciamento dei rapporti di forza tra l’occidente e il resto del pianeta. Il libro, è un suo difetto, si limita ad accennare, ma gli ultimi eventi lo mettono in evidenza. Finora l’occidente, dove erano stati inventati il capitalismo e le nuove tecniche di conduzione del conflitto, aveva utilizzato il potere armato risparmiato all’interno per estendere il suo dominio fuori dai propri confini: è il colonialismo. Solo dopo il primo conflitto mondiale, e con più impegno dopo il secondo, con la Dichiarazione universale dei diritti umani e l’istituzione dell’Onu, l’occidente ha provato a replicare su scala sovranazionale le tecniche di pacificazione che aveva elaborato. Conveniva prevenire i contraccolpi della ribellione dei popoli colonizzati, alimentata dalle stesse idee occidentali. Solo che l’occidente è arretrato solo in via provvisoria e ha prolungato piuttosto il suo dominio sfruttando sia la propria preminenza economica, sia il proprio potere armato, se del caso fomentando terribili conflitti interni negli Stati ex-coloniali. Le crisi petrolifere degli anni ’70 hanno tuttavia segnalato come la superiorità occidentale fosse ormai venuta in scadenza. Sceso a patti con i paesi produttori di petrolio, insidiato dalla concorrenza delle economie emergenti, l’occidente ha replicato aprendosi alla concorrenza globale e scaricandone buona parte dei costi sulle proprie classi lavoratrici. Senza più freni ha insomma ripristinato il governo dei ricchi.
In occidente da quarant’anni le disuguaglianze sono tornate a crescere. Sul piano globale il paesaggio è più vario. Una circoscritta minoranza di super-ricchi ha ricavato benefici colossali. Per ampi segmenti della popolazione mondiale che si sono incontrati con la modernità capitalistica le condizioni di vita sono migliorate. Per altri sono rimaste le stesse. Per altri ancora, che sono tantissimi, l’incontro è stato terribile. Dietro le parvenze pacifiche, la globalizzazione è anche un processo drammaticamente conflittuale, segnato da nuove avventure del potere armato occidentale, magari condotte in nome dei diritti umani, e dalle reazioni dei paesi extra occidentali. Reazione violenta è il terrorismo, ma conflitto sono anche i flussi migratori, che hanno messo in subbuglio le opinioni pubbliche d’occidente. Mentre le nuove potenze emerse nel frattempo, Cina in testa, non si mostrano affatto disponibili a sottomettersi. È’ in questi frangenti che i nostalgici dell’autorità monocratica, mimetizzati sotto l’etichetta di populismo, i nemici della tradizione liberale, gli alfieri del nazionalismo, sono tornati in lizza. Col fascismo si erano adattati alla politica di massa, da ultimo hanno appreso a sfruttare le procedure democratiche: i media sono di grande aiuto.
Sono imperfette, ma vi sono tante ragioni per apprezzare le tecniche di governo e pacificazione dei conflitti che chiamiamo democrazia a preferenza di altre. Ma dobbiamo renderci consapevoli delle loro manchevolezze e ambivalenze. Che, a lungo andare, rischiano di distruggerle. La democrazia non è il destino della specie. È’ frutto di un humus storico peculiare. La sua esportazione, specie se condotta con la forza, è un’impresa difficilissima: non basta evocare i diritti umani. Meglio sarebbe se i regimi democratici anche nelle loro relazioni con il resto del pianeta rispettassero i principi cui dichiarano d’ispirarsi. L’hanno fatto poco finora e attualmente le vittime, antiche e recenti, li stringono d’assedio. Il futuro democratico è dunque gravido di rischi. Spicca la tentazione di trasformare l’occidente in uno spazio fortificato, a beneficio del potere armato e delle culture identitarie cui quest’ultimo ama accompagnarsi. Ma se il nazionalismo, eventualmente rielaborato su scala continentale o atlantica, può distogliere l’attenzione dalle asimmetrie sociali scavate dalla società postindustriale, non è una promessa per i valori di libertà e tolleranza di cui l’occidente mena vanto. Assai più virtuosa è la prospettiva di una pacificazione e cooperazione planetaria, sempre che ve ne sia ancora il tempo. È che i ricchi non le si oppongano.