ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 185/2023

14 Gennaio 2023

Guerra in Ucraina e crisi energetica: verso un ritorno dello stato?

Andrea Prontera esamina alcuni cambiamenti nella politica energetica europea ed italiana innescati dalla guerra in Ucraina. Dopo aver illustrato il ‘ritorno dello stato’ nel governo dell’energia, l’autore evidenzia il ruolo delle imprese a partecipazione pubblica per assicurare gli approvvigionamenti di gas naturale e sostiene che se i ‘campioni nazionali’ hanno consentito all’Italia di rispondere rapidamente alla crisi la loro rinnovata centralità può essere rischiosa sia per la transizione energetica sia per gli obiettivi climatici del paese.

L’anno appena trascorso è stato senza dubbio uno snodo cruciale per la politica energetica europea ed italiana. Quando il 24 febbraio del 2022 le truppe di Mosca hanno iniziato l’invasione dell’Ucraina molti paesi dell’Unione Europea (UE), Italia compresa, si trovavano nella scomoda posizione di essere fortemente dipendenti dalle forniture energetiche russe. Questa situazione era particolarmente allarmante nel settore del gas naturale, dove la diversificazione degli approvvigionamenti è resa complessa dalla necessità di sviluppare gradi (e costose) infrastrutture, siano esse gasdotti o terminali per la rigassificazione del gas naturale liquefatto (GNL). Non sorprende quindi che le sanzioni dell’UE nei confronti della Russia non abbiano colpito il suo export di gas nel continente, nonostante una simile decisione fosse stata chiesta sia dal governo ucraino sia da vari attori della società civile. Tuttavia, poco dopo lo scoppio della guerra, con il lancio dell’iniziativa REPowerEU, l’UE si è posta l’obiettivo di eliminare la sua dipendenza dalle fonti fossili russe ‘ben prima del 2030. Questo traguardo è senz’altro molto ambizioso. Basti ricordare che nel 2021 circa il 40% delle importazioni di gas naturale dell’UE e il 27% di quelle di petrolio provenivano proprio da Mosca. In altre parole, la scelta fatta dopo lo scoppio della guerra rappresenta una vera è propria rivoluzione copernicana per la politica energetica europea. Solo l’ingiustificata ed aperta aggressione russa ha reso possibile tale svolta, che non era stata minimamente contemplata dai paesi occidentali – Germani ed Italia in testa, i principali partner energetici di Mosca – nemmeno dopo la guerra nel Donbass e l’annessione della Crimea nel 2014. 

La decisione di eliminare le importazioni da Mosca, però, non è la sola innovazione scaturita dall’invasione dell’Ucraina. La crisi energetica, aggravata dal conflitto e dalla manipolazione delle forniture da parte del Cremlino, ha avviato un ripensamento profondo dello stesso mercato unico dell’energia, così come promosso dalla Commissione Europea fin dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso. È in questo periodo infatti che il progetto del mercato unico dell’energia ha preso le mosse, sostenuto da un paradigma di mercato che vedeva nella liberalizzazione dei settori energetici, nello smembramento dei monopoli nazionali (spesso imprese pubbliche verticalmente integrate), e nel passaggio dai contratti di lungo periodo alle negoziazioni spot nelle borse del gas, gli strumenti privilegiati per ridurre i costi dell’energia e accrescere la sicurezza energetica del continente. Con l’esplosione dei prezzi del gas dopo lo scoppio della guerra, tuttavia, diversi paesi dell’UE hanno chiesto a gran voce un ‘ritorno dello stato’ nel governo dell’energia. Vi è poco da stupirsi di un simile sviluppo. Le politiche energetiche dei paesi consumatori sono state sempre caratterizzate da simili oscillazioni – come un pendolo – lungo l’asse stato-mercato. Slittamenti verso il mercato solitamente si verificano in fasi di stabilità geopolitica, bassi prezzi dell’energia e offerta abbondante. Viceversa, nelle fasi di crisi, tensioni internazionali e scarsità ci si accorge della necessità di un ritorno dell’intervento pubblico. Il settore energetico è fin troppo strategico perché i governi possano semplicemente sedersi ed aspettare che passi la bufera. 

Nel contesto europeo questo ‘ritorno dello stato’ ha preso due strade. A livello comunitario, la discussione si è presto orientata verso l’introduzione di un price cap per il gas e l’attivazione di meccanismi di acquisti congiunti da parte dell’UE. Come è noto però queste proposte (soprattutto il price cap) hanno incontrato notevoli resistenze, sia da parte della Commissione sia da parte di alcuni importanti stati membri, come l’Olanda e la Germania. Solo alla fine del 2022 si è arrivati ad un primo accordo di massima su questi temi. Nel frattempo, a livello nazionale, si è assistito ad un nuovo interventismo dei governi. Soprattutto i paesi più dipendenti da Mosca si sono mossi rapidamente per prevenire un aggravarsi della crisi energetica (in vista dell’inverno 2022-2023) e per sostituire le importazioni di gas russo.

L’Italia è stata una di questi paesi. Ed anche qui si è visto un ritorno dello stato, impersonato da quei campioni nazionali – imprese a partecipazione pubblica come ENI e SNAM – che erano stati (seppur solo parzialmente) messi da parte durante il periodo delle liberalizzazioni. Ma un simile ritorno dello stato si è visto anche in altri paesi: si pensi alla nazionalizzazione di EDF da parte del governo francese o al salvataggio di UNIPER da parte di quello tedesco.

Come anticipato, prima del 2022, l’Italia, insieme alla Germania, era fra i principali partner energetici di Mosca. In entrambi i casi, questa partnership risale ai tempi della Guerra Fredda. In Italia, a partire dagli anni ottanta, e poi in maniera sempre più marcata dagli anni novanta e duemila – complice anche la progressiva riduzione della produzione nazionale di gas – le forniture russe sono diventate una componente strutturale della sicurezza energetica del paese. Nel 2021, le importazioni di gas in Italia sono arrivate a toccare oltre il 95% della domanda nazionale. E di queste addirittura il 40% provenivano dalla Russia (circa 29 miliardi di metri cubi di gas). Inoltre, diversamente dalla Germania, in Italia il gas naturale gioca un ruolo importante non solo nel settore industriale, ma anche nel settore elettrico, contribuendo circa al 50% della produzione elettrica nazionale. 

In virtù di simili dati, non è quindi un caso che dopo l’inizio della guerra il governo italiano si sia attivato immediatamente per adottare misure volte a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti nazionali. Due sono state, in particolare, le direttrici lungo le quali si è mosso il governo Draghi: assicurare un elevato riempimento degli stoccaggi di gas in vista dell’inverno 2022-2023 e rimpiazzare le forniture provenienti da Mosca. Nel secondo caso il governo si è adoperato sia per incrementare le importazioni di GNL – prevedendo anche la realizzazione di nuove infrastrutture – sia per accrescere quelle via gasdotto, in particolare dall’Algeria (attraverso il gasdotto Transmed). Proprio per raggiungere questi obiettivi sono stati fondamentali campioni nazionali come ENI e SNAM. Subito dopo lo scoppio della guerra, infatti, un’intensa attività di diplomazia energetica ha visto coinvolti i vertici dell’ENI e dell’esecutivo. Questa azione congiunta ha prodotto risultati immediati, come l’aumento delle forniture dall’Algeria, che in breve tempo è divenuta il principale fornitore dell’Italia scavalcando la Russia. Ma ben presto nuovi accordi di fornitura di gas sono stati negoziati dall’ENI con l’Egitto, il Qatar, il Congo, l’Angola, la Nigeria, l’Indonesia e il Mozambico. Grazie a questi accordi – e da un atteso raddoppio della produzione nazionale – l’Italia dovrebbe essere in grado di sostituire quasi completamente il gas russo entro il 2025 (29 miliardi di metri cubi) (Tabella 1). La rimanente differenza (poco meno di 5 miliardi di metri cubi) dovrebbe poi essere colmata attraverso una crescita delle fonti rinnovabili e misure di efficienza energetica. 

Tabella 1: Il piano di diversificazione degli approvvigionamenti del Governo Draghi (volumi attesi in miliardi di metri cubi).

Fonte: elaborazione dell’autore da Ministero della Transizione Ecologica, Piano nazionale di contenimento dei consumi di gas naturale (https://www.mite.gov.it/sites/default/files/archivio/comunicati/Piano%20contenimento%20consumi%20gas_MITE_6set2022_agg.pdf).

Se l’ENI ha svolto un ruolo chiave negli sforzi di diversificazione degli approvvigionamenti – d’altra parte era proprio l’ENI il principale partner energetico della russa Gazprom – la SNAM ha avuto un ruolo di primo piano sul versante delle infrastrutture per l’import di GNL, necessarie per accogliere i maggiori flussi attesi per i prossimi anni. Su mandato del governo, infatti, la SNAM ha rapidamente (già prima dell’estate 2022) acquistato due Floating Storage and Regasification Unit (FSRU), entrambe con una capacità di 5 miliardi di metri cubi: la Golar Tundra, che dovrebbe essere collocata nel porto di Piombino ed entrare in esercizio nei primi mesi del 2023, e la BW Singapore, che invece dovrebbe essere collocata di fronte a Ravenna ed entrare in esercizio nel 2024. Una volta pienamente operative queste due nuove infrastrutture potrebbero coprire fino a circa il 13% della domanda italiana di gas. Va qui sottolineato che il governo si è dovuto muovere con particolare velocità su questo fronte. Infatti, con lo scoppio della guerra è aumentata la competizione fra paesi europei non solo per firmare nuovi contratti di fornitura di gas ma anche per acquistare FRSU, le quali possono entrare in esercizio in tempi più rapidi rispetto agli impianti fissi e, ovviamente, sono più veloci e facili da realizzare rispetto a nuovi gasdotti. Poter contare sull’expertise e le risorse della SNAM ha quindi certamente costituito un fattore di successo per il governo. 

Come è noto, con l’insediamento del nuovo esecutivo guidato da Giorgia Meloni non vi è stata discontinuità rispetto alle scelte fatte da Draghi in tema di sicurezza degli approvvigionamenti. Tale continuità è stata ribadita anche dalla scelta fatta per la guida del nuovo Ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, già viceministro per lo sviluppo economico sotto il governo Draghi (ma lo stesso ex ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, è stato nominato consulente del Governo Meloni). Questa continuità sembra riflettersi anche per quanto riguarda la rinnovata centralità dei campioni nazionali nelle politiche energetiche del paese. In altre parole, il ritorno dello stato sembra essere uno dei lasciti strutturali della crisi innescata dalla guerra in Ucraina. 

Tuttavia, esso non è privo di rischi nell’attuale fase di (necessaria) transizione energetica. Rimettere al centro i tradizionali campioni nazionali e delegare loro la sicurezza energetica del paese potrebbe facilitare una ‘cattura’ dei decisori politici da parte degli interessi delle fonti fossili, con un conseguente rallentamento della decarbonizzazione e un indebolimento delle politiche climatiche italiane. Paradossalmente, il fatto che l’Italia potesse contare sui suoi campioni nazionali del gas per fronteggiare la crisi ha finito per mettere in secondo piano scelte più coraggiose ed innovative, ad esempio in materia di risparmio energetico o sviluppo delle rinnovabili (si veda, ad esempio, Global reaction to energy crisis risks zero carbon transition. Climate Action Tracker. Per evitare, quindi, che si passi da una crisi energetica ad una crisi climatica è necessario che il governo non solo riconosca l’utilità dei suoi giganti dell’energia, ma guidi (anzi acceleri) la loro trasformazione – solo in parte già in atto – da campioni delle fonti fossili a campioni della transizione energetica. 

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