ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 171/2022

30 Aprile 2022

Guerra in Ucraina e transizione ecologica in Europa

Questo numero del Menabò si apre con il contributo di Michele Grillo che, riflettendo sul rapporto tra guerra ucraina e transizione ecologica, sostiene che la dipendenza dal gas russo mina non solo il cambiamento ecologico ma la stessa costruzione europea e rende necessario procedere verso l’unione politica.

Le conseguenze della guerra in Ucraina per la prospettiva della transizione ecologica potrebbero estendersi seriamente al progetto di unità politica in Europa e invitano a una riflessione su aspetti fondativi dell’intera vicenda europea.

Il cambiamento ecologico si è affermato in Europa nell’ultimo decennio come momento di un cammino faticoso verso un obiettivo di unità politica che fu guidato fin dall’inizio dalla cosiddetta “dottrina Monnet”: perseguire l’unità economica come premessa necessaria per conseguire l’unità politica.

La prima fase, il Mercato Comune, fu un successo. Non lo fu invece il Mercato Unico perché la logica della dottrina Monnet entrò in un circolo vizioso. Mentre il Mercato Comune dei beni manufatti non aveva bisogno di scelte politiche concrete per la sua realizzazione, l’attuazione del Mercato Unico, che si estendeva alle Public Utilities a rete e ai settori dei Servizi, pretendeva specifiche decisioni politiche comuni. Il Mercato Unico delle Public Utilities restava incompleto finché le infrastrutture di rete rimanevano separate a livello nazionale. La Direttiva Bolkenstein sul mercato unico dei Servizi si dissolse in mancanza di istituzioni comuni di Welfare State. Per la debolezza di fronte agli effetti reali della crisi finanziaria, il circolo vizioso investì anche l’Unione Economica e Monetaria, costruita su una Politica monetaria comune (tra una coalition of the willing) ma politiche reali delegate agli Stati membri. Solo da un decennio l’Europa ha elaborato esplicitamente progetti di “beni comuni europei”. La transizione ecologica è stata quella che ha incontrato alla fine il più vasto consenso ma è stata posta seriamente a repentaglio dalla guerra.

Strutturalmente, la difficoltà principale nella transizione ecologica è il maggior costo di produrre energia da fonti rinnovabili, rispetto a carbone, petrolio e gas. In questa prospettiva, gli aumenti dei prezzi delle fonti non rinnovabili – attribuiti in una prima fase a squilibri di mercato nella ripresa post-pandemica ma enfatizzati dalla guerra – sono stati perfino visti con favore. Questa lettura rischia però di essere fonte di un equivoco. Vi sono serie ragioni per temere gli effetti della guerra in Ucraina, non solo riguardo alla transizione ecologica, ma più in generale sulla stessa costruzione di unità politica in Europa. Il ruolo chiave del gas in questo quadro è emerso chiaramente nel dibattito sulle sanzioni alla Russia: per quanto a fatica, l’Europa sembra in grado di raggiungere un consenso sull’embargo delle importazioni di carbone e di petrolio, ma non sull’embargo delle importazioni di gas.

In effetti, un punto fermo del progetto europeo ha individuato il gas come “combustibile indispensabile per la transizione”. La ragione tecnica è la non immagazzinabilità dell’energia elettrica. Gli sviluppi tecnologici sulle batterie sono cosa limitata rispetto ai bisogni energetici dell’industria. A parte l’idroelettrico, le fonti rinnovabili non assicurano la coincidenza tra fabbisogno e produzione. Tra le non rinnovabili, il gas sembrava soddisfare questa condizione più delle altre, in base al costo economico diretto e al costo indiretto in termini di inquinamento.

Alle ragioni tecniche si aggiungono fattori istituzionali, legati alle politiche europee di liberalizzazione. Mentre, per le ragioni richiamate sopra, non si riuscì a creare un reale mercato unico europeo del gas, la liberalizzazione si proponeva almeno, con minori ambizioni, di aiutare gli Stati a diversificare le fonti di approvvigionamento. Le normative di recepimento della Direttiva del 1999 diedero grande enfasi agli stimoli offerti agli Stati per ampliare la rete dei gasdotti e, soprattutto, investire in rigassificatori del GNL per attingere a tutte le fonti mondiali. Non si ritennero però necessarie scelte europee condivise, né sulle strategie di approvvigionamento, che furono delegate agli Stati, né sulle interconnessioni tra reti nazionali, per dare a ciascun Paese ulteriore incentivo ad ampliare le fonti di approvvigionamento.

Gli Stati membri si mossero così in modo indipendente. Ai Paesi collegati a fornitori extraeuropei tramite gasdotti, la strategia più conveniente apparve quella di rafforzare le relazioni di lungo periodo con i fornitori. Solo i Paesi iberici hanno ampliato significativamente la capacità di importazione di GNL investendo in impianti di rigassificazione; ma lo hanno potuto fare a beneficio proprio, e non dell’intera Europa, perché le interconnessioni tra la Spagna e il resto dell’Europa restano molto deboli. Le relazioni di lungo periodo, vantaggiose anche per i Paesi fornitori, hanno inoltre facilitato accordi su prezzi di acquisto del gas relativamente bassi. Complessivamente, negli ultimi due decenni, i Paesi europei hanno cercato sicurezza dell’approvvigionamento e valori di scambio contenuti con un modello ben diverso da quello che la liberalizzazione intendeva ispirare (rendere fluido il mercato dell’approvvigionamento). L’incapacità di cogliere la necessità di una gestione politica comune di tale obiettivo ha determinato all’opposto un aumento delle condizioni reciproche di lock-in nelle relazioni tra i singoli Paesi europei e i fornitori.

In un contesto di mercati europei non integrati, la liberalizzazione in Europa ha prodotto esiti non desiderati anche quando si è posta l’obiettivo di ampliare gli spazi per le relazioni di mercato spot rispetto alle relazioni di lungo periodo. Singoli soggetti e singoli Paesi (anche europei) hanno potuto infatti appropriarsi in ampia misura di extraprofitti estraibili dal mercato spot, come mostra la recente vicenda del controllo dei prezzi del gas alla fonte che non ha trovato consenso in Europa per l’opposizione dei Paesi che dagli alti prezzi dei mercati spot traevano beneficio.

Il quadro esposto è alla radice della dipendenza del sistema europeo dal gas russo e del suo accrescimento nel tempo. Oggi il fabbisogno europeo di gas (circa 500 mld metri cubi annui) è coperto dalla Russia per il 40%, per un quarto da Norvegia e UK e, per il residuo, dal GNL e dai gasdotti che ci collegano con il Nord Africa. Specularmente, le esportazioni dalla Russia (circa 240 mld metri cubi) si dirigono in Europa, essenzialmente via gasdotto, per due terzi.

Mentre non ha senso, nelle mutate circostanze, imputare ai singoli Stati una storia di relazioni individuali di lungo periodo con la Russia, è utile riflettere invece sul debole coordinamento europeo all’origine dell’assetto attuale. E’ poco plausibile che, data la loro natura e gravità, le difficoltà attuali possano trovare adeguata correzione da un giorno all’altro. Merita invece di essere perseguita con urgenza una rivisitazione profonda del disegno di unità economica e politica in Europa, anche per evitare il rischio di fare della guerra in Ucraina il detonatore di un fallimento complessivo del progetto europeo. Il punto essenziale è che, nello stato attuale, l’Europa non è in grado di affrancarsi dalla dipendenza dal gas russo in tempi compatibili con gli eventi bellici in corso, senza mettere a rischio la transizione energetica, con la sua valenza di progetto politico unitario. La maggior parte degli osservatori ritiene necessario un periodo medio di 5 anni. In tempi ravvicinati (1-2 anni) non sarebbe possibile sostituire più di un terzo dell’approvvigionamento attuale: potenziando le fonti europee tramite gasdotti (Norvegia, UK e Paesi Bassi) per circa 15-20 mld mc; gli altri sistemi di gasdotti non connessi con la Russia (utilizzando il TAP e le forniture dirette dell’Algeria verso Italia e Spagna) per 30-35 mld mc; l’approvvigionamento di GNL, senza ricorrere a nuovi impianti di rigassificazione non disponibili prima di 2-3 anni, per 15-20 mld mc.

In questo quadro, di fronte alla sfida della guerra con la Russia, l’Europa è chiamata a scelte importanti in un contesto seriamente vincolato dalla eredità di scelte che hanno impedito di realizzare un sistema europeo unico e flessibile. Sarebbe un errore guardare alla mancanza di coordinamento solo come a un fatto del passato. E’ più che mai un fatto, e una sfida, del presente. La consapevolezza del passato deve però costringerci a prendere atto di due circostanze.

Innanzi tutto, che non riusciremmo a liberarci dalla dipendenza dalla Russia in tempi (auspicabilmente) compatibili con quelli della guerra in corso. In secondo luogo, che i vincoli odierni possono avere conseguenze più gravi se i singoli Paesi dovessero continuare a procedere in forme isolate. Questo vale soprattutto per i due Paesi “grandi” che sono particolarmente dipendenti dal gas russo, come l’Italia e la Germania e che (per ragioni differenti) potrebbero essere spinti, isolatamente, o a indebolire la risposta alla sfida geopolitica in corso o a riconsiderare il ritorno a fonti energetiche tradizionali, mettendo a repentaglio il progetto europeo di transizione ecologica e, in ultima analisi, la stessa prospettiva di unione politica.

Se si vuole governare l’impatto della guerra in Ucraina sull’intero sistema europeo, occorre riconoscere che il momento invita a scelte di grande respiro, cioè a far compiere un serio balzo in avanti a un progetto di unione politica che merita oggi di essere perseguito “in quanto tale”, al di là di progetti specifici strumentali su cui elaborare un accordo. Oggi non c’è “realismo” nel chiedersi come ciascun singolo Paese possa fare fronte alle sfide del momento, assumendo come un dato l’attuale assenza di coordinamento a livello europeo e lasciando agli Stati vie di uscita individuali in forma isolata. Alla fine nessun Paese riuscirebbe ad affrancarsi davvero dalla dipendenza del gas russo, mentre si metterebbe seriamente a repentaglio, con il cambiamento ecologico, il solo progetto di bene comune europeo elaborato nell’ultimo decennio.

In conclusione, l’Europa deve riuscire a comporre la consapevolezza di non potersi affrancare dalla dipendenza dal gas russo nel breve periodo e la difesa di una progettualità politica che aveva trovato il massimo punto di accordo nella transizione ecologica. Ciò richiede, come si è detto, un balzo ideale in avanti del progetto di unità politica “in quanto tale”. Riuscirci è peraltro condizione necessaria per perseguire due obiettivi meritevoli: da un lato raggiungere, sia pure solo nel medio-lungo periodo, reali condizioni di flessibilità nell’approvvigionamento delle diverse fonti energetiche superando in modo strutturale la dipendenza dalla Russia; dall’altro fare, anche fin da subito, dell’Europa un interlocutore unico e indipendente per la Russia, in grado di contribuire con autonomia e influenza a risolvere in modo efficace e duraturo le tensioni politiche che hanno bussato ai suoi confini.

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