Il blocco dei licenziamenti: il vero problema è la “distruzione non creativa”

Andrea Garnero interviene sul dibattito in corso sul divieto di licenziare chiedendosi anzitutto se esso abbia avuto un ruolo aggiuntivo, rispetto alla Cassa Integrazione e alle misure per il credito, nel “proteggere il lavoro” durante la crisi, A tal fine, Garnero compara la caduta dell’occupazione in Italia e in due paesi (Francia e Germania) che non hanno introdotto un simile divieto Inoltre, egli sostiene che di fronte ai segnali di ripresa il problema per chi perde il lavoro resta un sistema di welfare e di politiche attive con troppi buchi.

Un anno e quattro mesi dopo lo scoppio della pandemia, il divieto di licenziamento (economico) continua ad essere il principale oggetto di contesa nella discussione sulle politiche del lavoro. La norma ha una forte rilevanza simbolica e politica, ma, in realtà, non è chiaro quale sia stato il suo ruolo effettivo nel limitare i danni economici e sociali del COVID-19, al di là della rete offerta dalla Cassa integrazione e le corpose misure per il credito. Al momento, la discussione si sta cristallizzando su cosa fare a partire dal primo luglio, quando i licenziamenti tornerebbero ad essere consentiti nell’industria, il settore relativamente meglio coperto dagli ammortizzatori sociali esistenti e che da qualche mese vede la ripresa più decisa. Gli altri settori continueranno comunque ad avere accesso alla cassa integrazione senza addizionali se si impegneranno a non licenziare. Il Governo ha, poi, messo in campo un’ampia gamma di strumenti per gestire la transizione (dai contratti di espansione ai contratti di solidarietà). Ciononostante, alcuni sindacati paventano il rischio di uno “tsunami di licenziamenti” senza rinnovo del divieto di licenziamento, mentre Confindustria preme perché il divieto non venga nuovamente rinnovato, pena un freno per la ripresa. Questo clima da giorno del giudizio è giustificato? Oppure il dibattito rischia di essere una grande distrazione rispetto al fatto che centinaia di migliaia di lavoratori il lavoro lo hanno già perso e per loro – e per tutti quelli che, per una ragione o per l’altra, lo perderanno nei prossimi mesi – poco o nulla è disponibile?

L’Italia è stata l’unico paese OCSE ad introdurre una norma simile (sperimentata prima solo nel 1945, nell’immediato dopoguerra) ma ha comunque subito un forte calo del numero di occupati. Secondo i dati delle Comunicazioni obbligatorie, nel 2020 ci sono stati 558mila licenziamenti, solo un terzo in meno rispetto agli anni precedenti (il divieto, infatti, riguarda solamente i licenziamenti economici, mentre è sempre stato possibile licenziare per ragioni disciplinari o per fallimento dell’impresa). Le imprese, poi, hanno comunque ridotto la forza lavoro attraverso minori assunzioni e non rinnovando i contratti temporanei; quest’ultimo costituisce un margine di aggiustamento importante in un mercato duale (cioè dove la quota di contratti temporanei è elevata) come l’Italia. Tra uscite e minori entrate, in totale, tra febbraio 2020 e gennaio 2021, quando si è toccato il punto più basso, erano quasi un milione gli occupati in meno (secondo la nuova definizione Istat  che include tra i non occupati anche chi è in Cassa Integrazione da oltre tre mesi) Come ha fatto notare la Commissione europea nel documento tecnico che accompagna le raccomandazioni annuali, se confrontato al crollo del PIL (Figura 1), il calo occupazionale italiano è in linea con la media dell’area euro, ma è più forte di quello registrato in Francia e Germania dove non esiste un divieto di licenziamento, ma piuttosto, come in Italia, un generoso sistema di Cassa Integrazione e corpose misure per la liquidità delle imprese. l’Italia ha fatto meglio di Spagna e Portogallo dove la percentuale di temporanei è più alta e di tutti i paesi in cui il sistema della Cassa Integrazione non esiste o è molto limitato. Il sospetto che il divieto di licenziamento fosse in qualche modo ridondante rispetto alla Cassa Integrazione e le misure per il credito resta forte visto l’andamento del mercato del lavoro italiano comparato a quello degli altri paesi.

Figura 1: Elasticità dell’occupazione rispetto al PIL

Fonte: elaborazione dell’autore su dati OCSE

Nonostante questi dati, si continua a parlare del divieto di licenziamento come di uno strumento per evitare che le persone perdano il lavoro, facendo finta di ignorare che in un mercato del lavoro in perenne movimento (ogni giorno migliaia di persone trovano lavoro, lo perdono o lo cambiano) non può una norma, per quanto radicale, congelare tutto in attesa che torni il bel tempo. E si ignora pure che per molti lavoratori continuare con la Cassa Integrazione non è una soluzione sostenibile: in CIG, in Italia, si è pagati poco (Figura 2) e non solo non si può fare un altro lavoro o lavoretto (se non in nero), ma nemmeno si hanno opportunità di formazione. Quanto è sostenibile un sistema che tiene assolutamente ferme centinaia di migliaia (negli scorsi mesi, anche milioni) di persone in cambio di una retribuzione ridotta?

Figura 2: Tassi di sostituzione dei sistemi di cassa integrazione e nei sistemi di sussidio di disoccupazione, % del salario lordo

Fonte: Ocse (2020), Job retention schemes during the COVID-19 lockdown and beyond

Guardando ai prossimi mesi, tuttavia, ci sono ragioni per non essere del tutto pessimisti: l’economia italiana è in significativa ripresa, in particolare il settore manifatturiero e nell’ultimo mese anche il commercio. Lo mostrano i dati sulla fiducia delle imprese e dei consumatori così come le previsioni di tutti gli organismi nazionali e internazionali. Ma lo si vede già in queste settimane, grazie al tracker settimanale messo a punto dall’OCSE che, con tecniche di nowcasting (previsioni in tempo reale), permette di seguire l’andamento dell’attività economica, senza dover attendere i dati ufficiali che arrivano sempre con un certo ritardo (Figura 3). Il divieto di licenziamento, almeno a luglio, sarà eliminato in una fase di significativa espansione. Perfino il settore tessile e dell’abbigliamento, tra i più colpiti dai lockdown e dal ricorso allo smart-working e che al momento è candidato a un’estensione parziale del divieto di licenziamento, è in forte ripresa: ad aprile la produzione industriale ha registrato un aumento del 363,2% rispetto all’anno scorso (anche se il riferimento è rispetto al mese più duro dello scorso anno).

Figura 3: Tracker settimanale dell’attività economica

Fonte: OECD Weekly Tracker

Anche le prospettive occupazionali secondo le imprese italiane sono buone e in linea con quelle dell’area euro (Figura 4). I dati delle Comunicazioni obbligatorie sul primo trimestre, peraltro, mostrano che già a partire da febbraio le attivazioni superano in numero le cessazioni. I dati per il Veneto lo confermano anche per i mesi più recenti. L’incertezza maggiore resta l’andamento della pandemia: se il virus tornerà a circolare e ci saranno nuove chiusure allora certamente il discorso cambierà e di molto. Per questo la campagna vaccinale e il controllo delle varianti sono così importanti.

Figura 4: Prospettive occupazionali delle imprese

Fonte: EU Business and consumer surveys

Tutto bene, quindi, e nessuna ragione di preoccuparsi? No, perché, oltre al costo psicologico, personale ed economico che qualunque licenziamento comporta, chi perde il posto di lavoro in Italia non ha la certezza di essere coperto dagli ammortizzatori sociali mentre, con tutta probabilità, non riceverà alcuna assistenza, umana e professionale, per ritrovare un lavoro.

Come ampiamente discusso in questi mesi, il sistema di protezione del reddito dei lavoratori in Italia ha mostrato tutti i propri limiti in questa crisi e, come discusso da Guarascio in questo numero del Menabò, è urgente una riforma che riduca il carattere categoriale e meglio protegga tutti i lavoratori in difficoltà a prescindere dal contratto, l’impresa o il settore in cui lavorano. Tuttavia, in un’economia in ripresa, più che la riforma degli ammortizzatori sociali (comunque necessaria per evitare di farsi trovare impreparati in caso di nuova crisi), quello che può fare la differenza è avere un sistema di politiche attive funzionante su tutto il territorio nazionale. E purtroppo in questo ambito l’Italia sconta un ritardo pluridecennale non facile da colmare in pochi mesi. Nelle scorse settimane, il Governo ha preso misure decise per cambiare la governance dell’agenzia nazionale per le politiche attive (ANPAL) ma questo non basta a far sì che, in tutte le aree del Paese, chi cerca lavoro sia preso in carico dal punto di vista personale e professionale. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede più di 12 miliardi di investimento in materia di politiche attive e formazione, ma nella migliore delle ipotesi l’effetto si comincerà a vedere tra molti mesi, se non anni. Gli ostacoli, infatti, non sono tanto di fondi (comunque utili!), quanto di struttura istituzionale (il Titolo V), organizzativa (un esempio su tutti: non solo i Centri per l’impiego mancano di personale, ma quello che c’è è pure per due terzi occupato in attività che non hanno a che fare con chi cerca lavoro) e culturale (il lavoro, in Italia, si cerca ancora soprattutto in maniera informale e sono pochi i lavoratori e poche le imprese che passano dai Centri per l’impiego). Per questo motivo, in maniera molto pragmatica, è necessario pensare a partenariati pubblico-privati per coinvolgere maggiormente i servizi privati che hanno competenze ed esperienza nel campo, soprattutto in quelle regioni dove non esiste né pubblico né privato. Costruire partenariati pubblico privati non significa esternalizzare o cedere alla “logica del profitto” (sono numerosi gli esempi in paesi dove lo Stato mantiene un controllo forte, come Belgio, Francia o Germania) ma mettere in rete attori diversi, conciliando gli interessi economici del privato con l’interesse pubblico.

In conclusione, un’analisi al momento ancora descrittiva e quindi un po’ superficiale di quanto successo negli scorsi mesi e delle prospettive che si aprono non sembra giustificare l’importanza che ha assunto nel dibattito italiano il divieto di licenziamento. Questo non significa porsi nel campo dei sostenitori entusiasti e acritici della “distruzione creativa”. Anzi, l’obiettivo è piuttosto evitare che il dibattito su un singolo punto, molto simbolico ma dagli effetti limitati, finisca per mettere in secondo piano le mancanze di sistema che alla “distruzione” fa seguire poca “creazione”.

Schede e storico autori