Il Brasile e il suo futuro

Leonardo Ditta, in un articolo la cui seconda parte sarà pubblicata sul prossimo Menabò, tenta di spiegare l’imprevedibile e imprevista vittoria nelle elezioni presidenziali brasiliane dello scorso ottobre di un candidato di estrema destra come Bolsonaro, dopo 14 anni di governo del Partito dei Lavoratori di Lula, una questione al centro di rinnovata attenzione dopo la recente pubblicazione di scottanti intercettazioni da parte di “The Intercept”. In questa prima parte, Ditta si sofferma sul ruolo dell’economia passata da una notevole crescita con forte riduzione delle disuguaglianze, a una delle peggiori crisi della storia del Brasile.

Nel 1941 Stefan Zweig, scrittore austriaco ebreo in fuga dal nazismo e approdato in Brasile, affascinato dal paese che lo aveva ricevuto e dalla grande cordialità che lo circondava, diede alle stampe un libro dal titolo “Brasile, un Paese del futuro”. Oggi, a 78 anni di distanza, il Brasile rimane ancora un paese dove il futuro non riesce a diventare presente. E la recentissima pubblicazione di estratti di intercettazioni telefoniche riguardanti le indagini– ed in particolare il ruolo svolto dall’allora giudice Sergio Moro, ora ministro del governo Bolsonaro – che hanno condotto alla condanna dell’ex presidente Lula sembra esserne una dolorosa conferma.

Ma procediamo con ordine. Il 2018 è stato un anno cruciale: invece che al passaggio di questo paese dal futuro al presente abbiamo assistito ad un vero e proprio salto all’indietro. Le elezioni presidenziali dell’ottobre del 2018 si sono concluse con l’elezione di Jair Messias Bolsonaro, ex capitano paracadutista e deputato per 7 legislature consecutive, anonimamente presente sui banchi del Congresso per 28 anni.

Bolsonaro si distingue per la sfrontatezza e la rozzezza delle sue dichiarazioni; in interviste su giornali e tv, si è detto a favore della dittatura militare e delle torture da essa praticate (l’unico errore commesso, a sua detta, non è quello di aver torturato gli oppositori, ma di non averne uccisi abbastanza), per la sua misoginia, il suo disprezzo per le donne [in parlamento si è rivolto alla deputata Maria do Rosario, del PT (Partido dos Trabalhadores, Partito dei Lavoratori) dicendole che “non l’avrebbe stuprata perché non lo meritava in quanto “brutta e non corrispondente ai suoi gusti”] e per i diversi, siano essi tali per il colore della pelle (alla cantante negra Preta Gil che gli chiedeva cosa avrebbe fatto se suo figlio avesse sposato una donna negra ha risposto: “mio figlio è stato educato bene “) o per le inclinazioni sessuali (ha dichiarato: “non sarei capace di amare un figlio omosessuale).

Bolsonaro si è circondato di militari della riserva e di ministri attaccati ad una visione di parte, tra i quali spiccano il ministro degli esteri, quello dell’educazione e la ministra, nonché pastore evangelico, della famiglia, con deleghe ai problemi delle donne e ai diritti umani, che propone il carcere per chi ricorre all’interruzione di gravidanza. Nei primi cento giorni di governo, Bolsonaro ha già dovuto cambiare due ministri, tra i quali quello dell’Educazione.

Di fronte alle imponenti manifestazioni studentesche del 15 maggio contro i tagli alla ricerca, alle università pubbliche e alla scuola in generale, proposti dal nuovo ministro, il presidente, che non parla con la stampa, ma si rivolge direttamente al ‘popolo’, ha twittato: “si tratta di utili idioti, usati come massa di manovra da una minoranza che costituisce il nucleo delle università federali in Brasile”.

Lo slogan della campagna di Bolsonaro, ripetuto in continuazione anche adesso, è: O Brasil acima de tudo e Deus acima de todos (il Brasile prima di tutto e Dio sopra tutti). Ma al giornalista che gli chiedeva un commento sul futuro, dopo che il Pil era caduto del 0,2% nel primo trimestre, rispondeva: “ho già detto che non mi intendo di economia”. E intanto suo ministro dell’Economia è un economista della scuola di Chicago -a suo tempo chiamato dagli ex-colleghi a lavorare nel Cile di Pinochet. E ministro della giustizia è il giudice Sergio Moro – protagonista dell’operazione “Lava Jato”- che ha in qualche modo favorito l’elezione di Bolsonaro condannando e facendo arrestare Lula, che -a giudicare dai sondaggi sulle intenzioni di voto a pochi mesi dalle elezioni – aveva molte probabilità di vincere.

Ma come è potuto accadere che, dopo quattro elezioni presidenziali vinte dal Partito dei Lavoratori (PT) e 14 anni di suo governo (dal 2003 al 2016) , il Brasile abbia scelto (con 57 milioni di voti!) nell’ottobre del 2018, un candidato di estrema destra come Bolsonaro? E che rapporto ha tutto questo con l’andamento dell’economia, passata in pochi anni da una crescita estremamente sostenuta (il Brasile era una dei paesi Brics) e con forte riduzione delle disuguaglianze a una delle peggiori crisi della sua storia? Per cercare una risposta, è necessario guardare, seppure velocemente, al complesso intreccio tra politica, economia e istituzioni. Lo faremo in questo articolo e nel successivo che sarà pubblicato sul prossimo numero del Menabò.

Iniziamo ricordando le principali vicende degli ultimi anni. Nel 2010 dopo due mandati, Luis Inacio Lula da Silva è sostituito alla presidenza della Repubblica da Dilma Roussef, anche lei del PT.

In quell’anno l’economia mondiale si stava ancora dibattendo nelle spire della crisi globale del 2008, mentre invece il Brasile cresceva ad un tasso del 7,5%. Il presidente si congedava dal palazzo con un indice di approvazione elevatissimo, un vero e proprio record (l’87%, secondo un’indagine dell’Instituto Brasileiro de Opinião Pública e Estatística, uno dei principali dell’America Latina).

Come sostiene A. Singer (Raízes Sociais e Ideológicas do Lulismo, 2009, Os Sentidos do Lulismo2012, O Lulismo em Crise, 2018) il lulismo è stato un fenomeno complesso. Per comprenderlo occorre ricordare che il Brasile è caratterizzato da una forte segmentazione sociale, sotto alcuni aspetti un vero e proprio apartheid, diviso tra una sorta di “classe media” (che include i molto ricchi, ma anche percettori di redditi bassi occupati nel settore formale e perciò beneficiari dei servizi che l’ancora embrionale stato sociale brasiliano è in grado di provvedere) e i ‘poveri’, con redditi bassissimi e privi di qualsiasi protezione, che rappresentano circa la metà della popolazione. Il lulismo, sostiene Singer, ha dato speranza alle aspettative di questi ‘poveri’ (“una frazione che, sebbene maggioritaria, non riesce a costruire dal basso le sue proprie forme di organizzazione”) che in fondo volevano “uno stato sufficientemente forte da realizzare una riduzione delle disuguaglianze, ma senza minacciare l’ordine esistente”. Ma il successo elettorale di Lula è dipeso anche dall’aver inizialmente vinto le resistenze delle oligarchie e della ‘classe media’; in questo un ruolo importante lo ha probabilmente avuto, finché c’è stato, il favorevole andamento dell’economia, aiutato dalla congiuntura internazionale.

Lula aveva indicato Dilma Roussef come candidata alle presidenziali del 2010, mentre Michel Temer, presidente del PMDB nonché della Camera, fu scelto per la vicepresidenza. Una novizia delle competizioni politiche, affiancata ad un veterano, profondo conoscitore dei retroscena e degli intrighi di corridoio. La loro lista vinse con larga maggioranza.

Il governo di Dilma Roussef, nacque sotto auspici favorevoli e la presidente fu riconfermata nelle elezioni del 2014. Ma di lì a poco si sarebbe giunti ad un epilogo traumatico: il tradimento del PMDB e l’allontanamento dalla presidenza di Dilma a seguito del suo impeachment alla quale è succeduto il suo vice Temer.

Di questa evoluzione possono darsi diverse spiegazioni. Quella più ortodossa parte dai presunti errori nella conduzione delle politiche macroeconomiche, in particolare si considera decisivo l’abbandono, dopo la crisi mondiale del 2008 – già a partire dal secondo mandato di Lula- del cosiddetto modello del “tripè” macroeconomico, in uso sin dal 1999, e fondato su tre pilastri: i) il raggiungimento di un predeterminato avanzo primario (cioè un dato eccesso delle entrate rispetto alle spese pubbliche, al netto della spesa per interessi sul debito); iii) una politica monetaria orientata esclusivamente al controllo dell’inflazione tramite lo strumento del tasso d’interesse (si ricorda che in Brasile dal 1995, anno del Plano Real, i tassi di interessi sono tra i più alti al mondo e la teoria monetaria non offre una convincente spiegazione) ; iii) un tasso di cambio flessibile.

In tema di politica fiscale, prima della grande crisi del 2008/2009 prevaleva, anche in Brasile, la posizione ortodossa secondo cui la stabilizzazione e la riduzione del debito pubblico è il compito primario di quella politica. Da questa prospettiva – che accetta anche la controversa tesi dell’austerità espansiva – l’aumento della spesa pubblica, e conseguente peggioramento del debito, realizzato dal governo di Dilma, appare come la principale causa prima del rallentamento della crescita (nel 2012/13) e poi della recessione.

Una spiegazione alternativa,, e che appare più convincente, punta l’attenzione su fattori esogeni e considera il cambiamento impresso dal governo alla politica economica come la risposta a due problemi, uno di breve e l’altro di lungo periodo: 1) il rallentamento della domanda intervenuto subito dopo l’insediamento del primo governo Dilma,; 2) far rivivere il modello “desenvolvimentista” (applicato dagli anni ’50 e abbandonato con l’affermarsi del neo-liberismo) secondo cui lo Stato deve svolgere, con interventi strutturali, un ruolo attivo di promotore del processo di sviluppo economico.

In relazione al primo punto, come si è già accennato, il rallentamento dell’economia può essere ascritto prevalentemente, a fattori esogeni. Una serie di shocks di origine internazionale colpì

l’economia brasiliana in quegli anni; in particolare, l’indebolimento della domanda delle commodities esportate e la caduta del loro prezzo (con effetti sulle ragioni di scambio, vedi P. Krugman “What the Hell Happened to Brazil? (Wonkish)”, NYT, Nov. 9, 2018), dovuto al prolungarsi della crisi europea e al rallentamento dell’economia cinese. Inoltre, si ebbe instabilità nel mercato dei cambi, con tendenza alla svalutazione della moneta nazionale ed effetti sul tasso di inflazione. Il valore della moneta rispetto al dollaro, durante il primo mandato della presidente Dilma, dal 2011 al 2014, passò da 1,68 a 3,33 reals per dollaro.

Anche l’instabilità climatica ebbe un ruolo importante: siccità e alluvioni, che si abbattevano spesso nello stesso momento in diverse regioni del paese, hanno avuto effetti pesanti, influenzando negativamente i prezzi dei beni alimentari. Inoltre, la lunga siccità nel 2013-14 spinse decisamente verso l’alto i prezzi dell’energia. In un paese fortemente dipendente dalle fonti idroelettriche, la caduta dei livelli dell’acqua nei bacini costrinse a spostare la produzione nelle centrali termiche; ed è noto che il costo di produzione dell’energia termica è molto più alto di quella idroelettrica. Il governo cercò di mitigare e/o mascherare le pressioni sui prezzi generate dai costi crescenti, sovvenzionando le imprese del settore. Questa politica, tuttavia, ebbe effetti negativi nel medio periodo. Da un lato, contribuì ad incrementare la spesa fiscale, dall’altro rallentò la riduzione dei consumi energetici da parte di famiglie e imprese. Quando la siccità si fece più intensa e duratura del previsto, il governo dovette abbandonare la politica dei sussidi, con un conseguente repentino aumento dei prezzi dell’energia. Ne risentirono non solo i consumi ma anche i costi di produzione delle imprese, e l’effetto finale fu una spirale inflazionistica estesa a tutta l’economia.

In queste condizioni era difficile continuare con la politica fiscale di avanzi primari; anche il tentativo di introdurre cambiamenti strutturali nell’economia con un “modello di sviluppo neo-desenvolvimentista” -che si richiamava alla teoria strutturalista elaborata nel secondo dopoguerra nell’ambito della Commissione Economica per l’America Latina delle Nazioni Unite, la Cepal e che ebbe trai suoi padri fondatori Raul Prebish e, specificatamente per il Brasile, Celso Furtado- spingeva ad aumentare la spesa. La ripresa di questo modello nasceva dalla considerazione che le politiche inclusive dei governi Lula avevano avvicinato i ‘poveri’ ai consumi, alimentando la domanda e accattivandosi il loro consenso e il loro voto ma non avevano introdotto le modifiche strutturali di cui l’economia del paese aveva bisogno. Per questo bisognava riprendere il modello di crescita del desenvolvimentismo senza però abbandonare il carattere inclusivo della politica economica; da qui la nuova denominazione del modello: “social-desenvolvimentismo”.

Anche questa scelta fu criticata dal pensiero ortodosso, soprattutto perché assegnava allo stato compiti che secondo quella visione il mercato può svolgere da solo e lo può fare meglio. Più in generale, la crescente spesa pubblica fu considerata un grave errore e si riteneva che avrebbe portato il debito pubblico fuori controllo, con conseguenze negative sulla fiducia degli agenti economici e quindi sugli investimenti e la crescita economica.

La disapprovazione verso quella che veniva chiamata “Nova Matriz Macroeconomica” crebbe di intensità.

Un ruolo non indifferente lo ha avuto anche la politica monetaria. Forte del proposito di orientare la politica industriale, la presidente Dilma Roussef già nel suo primo anno di governo si era adoperata per una riduzione rapida dei tassi d’interesse che erano elevatissimi (il tasso d’interesse medio èstato del 37,3%, con un aumento del 3,9 p.p.). La riduzione degli elevatissimi spreads bancari perseguita attraverso un massiccio intervento delle banche pubbliche con finanziamenti a tassi agevolati, era stata criticata. Tutto questo contribuì ad alienare l’appoggio dei rentiers e del settore finanziario al governo e a rinforzare l’opposizione di gran parte delle élite del paese.

Ci si può chiedere perché i settori industriali che indubbiamente avevano tratto vantaggio da quelle politiche, si siano rivoltati contro il governo (la Fiesp, la federazione industriale di Sao Paulo, è stata tra i principali sostenitori dell’impeachment). E’ probabile che un ruolo lo abbiano avuto i cambiamenti intervenuti nella struttura azionaria delle imprese, conseguenti agli ingenti profitti del settore finanziario e bancario (nel periodo 2003–2015, i profitti netti delle sole 4 maggiori banche del Brasile sono aumentati di circa il 560%) che rendevano difficile distinguere tra settore puramente finanziario e settore produttivo.

I maggiori organi d’informazione fecero proprie queste posizioni e le diffusero ampiamente con l’esito di farle diventare senso comune anche suscitando , presso ampi segmenti sociali, il timore che prima o poi sarebbero state aumentate le imposte. “Não Vou Pagar o Pato ou Chega de Pagar o Pato” ossia, non pagherò io il conto o  basta con il dover pagare il conto” è questo lo slogan principale coniato della Fiesp nella sua campagna contro le imposte – e specificamente contro il tentativo del governo di ripristinare la CPMF (Contributo provvisorio sui movimenti finanziari) e ripetutamente risuonato nelle manifestazioni pro-impeachment.

Ecco preparato il terreno favorevole allo svilupparsi del processo che, insieme ad altri fattori di carattere politico-giudiziario, ha portato prima all’impeachment di Dilma e poi all’elezione di Bolsonaro. Ma di questo si dirà nella seconda parte di questo articolo, sul prossimo Menabò.

Schede e storico autori