L’emergenza COVID-19 ci pone di fronte a situazioni fino a poco tempo fa impensabili. La crisi economica iniziata nel 2008 aveva, certamente, provocato un grave impoverimento. La quota di popolazione in povertà assoluta, ad esempio, era arrivata a toccare l’8%. Si era, tuttavia, ben lontani dalla situazione odierna in cui moltissimi nostri concittadini si sono trovati privati improvvisamente della possibilità di lavorare, in alcuni casi, senza neppure i mezzi per fare la spesa alimentare, oltre che pagare l’affitto, badare ai non auto-sufficienti…. Tutto ciò è anche l’effetto di un aspetto specifico di questa crisi: i provvedimenti di sospensione dell’attività economica si sono abbattuti simultaneamente su molti settori con effetti non soltanto drammatici ma anche immediati, diversamente da quanto accade nelle crisi ‘normali’, quando i meccanismi di propagazione e aggravamento richiedono (e concedono) più tempo.
Di fronte a questa situazione occorre pensare all’immediato. Occorre impedire che alcuni restino senza sostegno, soli di fronte a un’emergenza insostenibile. Una volta individuati, i titolari di sussidio, occorre poi assicurare la tempestività dell’accesso al sostegno. Contrastare insieme l’incertezza, uscendo dallo stato di natura, è una finalità fondamentale della società.
A tal fine, molto resta da fare. Il decreto “Cura Italia”, ad esempio, non prevede alcun sostegno per numerose categorie: gli addetti al settore domestico; gran parte dei lavoratori dipendenti stagionali o intermittenti (chi era senza occupazione al 23 febbraio o, nel caso degli stagionali, chi ancora non aveva lavorato nel corso del 2020); i parasubordinati non occupati al 23 febbraio; gli autonomi non rientranti nelle condizioni previste dal cura Italia (ovvero, quelli senza partiva IVA attiva al 23 febbraio); gli ex percettori di sussidi di disoccupazione, o le persone in procinto di subire la sospensione del periodo di erogazione di tali sussidi; chi lavora unicamente con contratti “in nero” (un insieme di soggetti che secondo le stime potrebbero arrivare addirittura a 3 milioni di persone) e, fra questi, necessariamente, gli immigrati irregolariAl contempo, le misure indirette a favore delle imprese, sempre previste dal “Cura Italia”, non si applicano al terzo settore, proprio in un momento in cui del supporto di questo settore e di lavoratori sociali c’è tanto bisogno.
Seppure al momento in cui scriviamo indicazioni specifiche non siano ancora disponibili, il Reddito di Emergenza allo studio del governo in questi giorni dovrebbe estendere il sostegno a tutti coloro che possono dimostrare – presumibilmente attraverso la registrazione di periodi contributivi o indennizzati presso l’Inps – di avere svolto, anche per periodi brevissimi, un qualche lavoro nel 2019. Il primo problema è che restano comunque fuori i soggetti completamente al nero il secondo. che le risorse disponibili appaiono largamente insufficienti per coprire la platea dei potenziali beneficiari.
Ai rischi di esclusione formale si aggiungono i rischi di esclusione effettiva, in una situazione in cui i vincoli di liquidità “mordono” nell’immediato. Occorre tempo per fare domanda, dimostrare di avere diritto di ottenere la prestazione, controllare. E, intanto, molti non hanno più i soldi per la spesa.
Dunque, i problemi aperti per l’oggi sono numerosi. Sono state, però, avanzate proposte più convincenti, come quella elaborata dal Forum Disuguaglianze Diversità insieme a Cristiano Gori e sostenuta da ASVIS. Si tratta di una proposta d’emergenza che mira a completare le misure governative, estendendo le protezioni del reddito ai soggetti esclusi e contrastando con più forza il rischio di collasso del settore produttivo.
In queste note, vogliamo estendere lo sguardo oltre l’emergenza corrente proiettandoci nel medio periodo. Non è retorico affermare che questa pandemia ci assegna un compito simile a quello che venne assolto dopo la II guerra mondiale quando si posero le basi dello stato sociale del ‘900: occorre pensare al disegno dello stato sociale del futuro. Il Covid-19 potrà passare, ma le insufficienze dei sistemi di protezione dei redditi restano, tutte, con noi. Sistemi pensati per il lavoratore maschio dell’impresa manifatturiera del ‘900, come riconosciuto da tempo, sono intrinsecamente incapaci di rispondere alle esigenze di un mondo lavorativo come è quello odierno, caratterizzato dalla frammentazione delle forme contrattuali e delle tutele di welfare, nonché, per troppi lavoratori, da retribuzioni molto basse che impediscono di mettere da parte un adeguato risparmio a fini precauzionali. Allo stesso tempo, occorre, in anticipo, prevedere tutele contro un rischio che quei sistemi di fatto ignorano: il rischio di shock improvvisi di reddito che, come l’attuale, colpiscano tutti (o gran parte di noi), anziché, come accade con i rischi standard di disoccupazione, solo alcuni lavoratori.
Non abbiamo alcuna ricetta pronta. Alcune linee di marcia per noi appaiono, però, chiare. Primo, nel ridisegnare il welfare occorre distinguere fra i rischi di disoccupazione standard, associati al “normale” andamento del mercato del lavoro, e rischi di disoccupazione “straordinari” dovuta a gravi crisi sistemiche che, come nel caso dell’epidemia in atto, derivano da eventi soggetti a ‘pura incertezza’ e con effetti interdipendenti. Misure appropriate per il primo caso possono infatti dimostrarsi insufficienti nel secondo.
Secondo, con riferimento alla protezione dai rischi ordinari di disoccupazione, occorre porsi con forza la questione del lavoro autonomo e non standard. Se il mantenimento del reddito al livello abituale, anche di fronte a eventi avversi, è una finalità importante per tutti, possiamo accettare un sistema di indennità di disoccupazione limitato ai lavoratori dipendenti e assimilati? Prima facie, sembrerebbe di no. Ma come si fa a disegnare un sistema di tutele per chi non lavora come dipendente? Nel caso dei lavoratori autonomi e non standard non è neanche definibile lo status di licenziato. Inoltre, anche a prescindere dai maggiori rischi di evasione fiscale e contributiva, i redditi dei lavoratori autonomi e non standard sono, fluttuanti, con la conseguenza di rendere assai ardua una determinazione attendibile del reddito cui commisurare l’eventuale l’indennità di disoccupazione e del periodo di tempo a cui riferirsi per il suo calcolo (l’anno, il biennio, il trimestre?). Ancora, soprattutto i lavoratori autonomi (o “falsi autonomi”) con livelli reddituali particolarmente bassi potrebbero non disporre delle risorse necessarie per assicurarsi. Questi fattori rendono molto complesso il ricorso al classico strumento assicurativo. Dobbiamo allora pensare a un’assicurazione alternativa costituita da un’indennità fissa finanziata dal fisco oppure anche questa soluzione è densa di problemi? Se così, non resterebbe che rinunciare all’estensione della tutela contro i rischi di disoccupazione limitandosi a misure contro l’impoverimento, ricorrendo a schemi di reddito minimo basati sulle condizioni reddituali e patrimoniali del nucleo familiare, quale è l’attuale reddito di cittadinanza.
Nel caso del finanziamento fiscale, inoltre, dovrebbe, forse essere previsto un finanziamento per categoria? In ogni caso, una cosa è certa: nella ricerca di strumenti per rendere universali le tutele contro i rischi del mercato del lavoro, andrebbero uniformate le regole fiscali, abolendo le immotivate agevolazioni fiscali di cui oggi gode il lavoro autonomo. Basti pensare che per i lavoratori autonomi con reddito fino a 65000 euro l’aliquota di imposta è del 15% mentre per i lavoratori dipendenti l’aliquota più bassa è del 23%, e, se il reddito supera i 28.000 euro sale al 38%. Si consideri inoltre che i libero-professionisti “ordinisti” nemmeno fanno parte del sistema previdenziale pubblico gestito dall’INPS, dato che versano i contributi obbligatori alle casse autonome gestite dal loro ordine professionale.
Terzo, con riferimento a situazioni emergenziali – che possiamo chiamare di “incertezza pura” interdipendente –, legati a pandemie o calamità naturali, è necessario da subito a pensare a soluzioni che si attivino automaticamente. Solo in questo modo, si possono limitare i ritardi di intervento di cui oggi soffriamo. In questa prospettiva, un’opzione innovativa, potrebbe essere quella di fare in modo che tutti dispongano di un cuscinetto finanziario costituendo conti di risparmio vincolato, cui attingere esclusivamente in presenza di rischi improvvisi e non calcolabili. Ricordiamo che nel nostro paese (da dati Eurostat) circa un quarto della popolazione dichiarava, già prima della crisi, di non essere in grado di affrontare, senza indebitarsi, una spesa improvvisa superiore a 800 euro. Altri dati, relativi al periodo pre-crisi 2008, indicavano che un terzo delle famiglie italiane non aveva una ricchezza liquida superiore a quanto necessario per vivere oltre tre mesi a livello della soglia di povertà. Naturalmente, diversi aspetti resterebbero da definire: quale mix di finanziamento privato e pubblico per tale cuscinetto? L’unità di riferimento per il beneficio dovrebbe essere la famiglia o il singolo? Nel caso familiare, come adeguare gli importi al variare della dimensione della famiglia? Ma, appunto, si tratta di una possibile direzione di marcia su cui riflettere.
Quarto, le tante domande aperte che sorgono in relazione sia all’estensione al lavoro autonomo e non standard dell’assicurazione contro i rischi di disoccupazione sia al cuscinetto finanziario appena menzionato, non rafforzano ancor più le motivazioni a favore dell’introduzione di un reddito di base, universale e incondizionato? In quanto universale e incondizionato un reddito siffatto sarebbe sempre disponibile a tutti, in tempi ordinari e in tempi pandemici, prescindendo da interminabili esigenze di selezione fra aventi e non aventi diritto. A partire da questa base, poi si potrebbero costruire tutele assicurative anche differenziate. In scelte come quelle di cui stiamo trattando una variabile rilevante è, naturalmente, anche il grado di avversione sociale all’incertezza pura e dura che in qualche modo andrebbe rilevato.
Quinto e ultimo punto: al di là delle misure compensative a carico del welfare state, comunque lo si disegni, una strategia necessaria (e per certi versi prioritari) consiste nell’attuare una serie di misure a carattere pre-distributivo che limitino fino ad escluderle, forme contrattuali atipiche e/o ben poco remunerate (anche, ma non solo, agendo attraverso l’innalzamento dei salari minimi). I limiti di un percorso di riforma basato sulla svalutazione del fattore lavoro – in relazione sia ai livelli retributivi (quelli di chi è costretto ad accettare lavori “a partita IVA” ben poco remunerati, ma anche quelli di molti dipendenti), sia alle forme contrattuali atipiche (in primis il part-time involontario) – vengono chiaramente alla luce in una situazione di crisi più o meno profonda. In presenza di un mercato del lavoro sempre più frammentato, anche misure meritorie come l’immediata attivazione della Cassa Integrazione in deroga lasciano inevitabilmente scoperti un gran numero di lavoratori e, fra questi, spesso i più fragili.
In conclusione, Covid-19 con il suo tremendo carico di vite perse e di strazianti sofferenze, ci obbliga a immaginare un futuro diverso, a riflettere su una nuova normalità sociale nella quale il lavoro sia più tutelato e meno discriminato e dove i rischi – quelli più e quelli meno prevedibili – siano adeguatamente fronteggiati. Queste note vorrebbero essere un primo, parziale contributo, a tale riflessione.