Il declino della spesa sanitaria: quali priorità per i recuperi di efficienza?

Enza Caruso mostra che mentre il Pil ristagna, la stretta dei bulloni sulla spesa pubblica dettata dai vincoli europei è stata scaricata sulla sanità. Quest’ultima ha perso risorse in valori nominali, mentre il resto della spesa corrente primaria ha continuato a crescere. Secondo Caruso, la ridefinizione delle priorità per la sostenibilità del Ssn non consente al settore di beneficiare dei recuperi di efficienza permessi da una buona governance, piuttosto dietro la contrazione delle prestazioni c’è il rischio di privatizzazione di importanti quote di spesa sanitaria.

Nel 1969 Richard Crossman, segretario di Stato per la sanità e i servizi sociali in Gran Bretagna, sostenne che non esiste un limite alla spesa sociale che la nazione può ragionevolmente richiedere salvo quello che impone il governo. Quest’affermazione era intesa a giustificare in senso positivo la crescita della spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil.

Oggi è invece sempre più a rischio la garanzia del diritto alla salute, sancita dalla carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Abbandonando la visione Health for all dell’OMS e subordinando l’obiettivo del vivere in buona salute dell’Ocse a quello di fare dell’Europa l’economia più competitiva e dinamica del mondo, l’EU considera la sanità non soltanto come un importante mercato (concorrenziale) interno di servizi (e di industrie) ad alto potenziale di occupazione, ma anche come il settore della politica sociale che più di altri può minare la sostenibilità fiscale futura dei sistemi di welfare europei (Cfr. J.K. Helderman in Health Economics, Policy and Law, 2015).

Avendo adottato una visione politica favorevole alla privatizzazione dei servizi e alla deregolamentazione dei mercati in tutti i settori, il vecchio continente è ormai un soggetto debilitato che ha bisogno di cambiare cura. La recessione è stata particolarmente pesante nell’area mediterranea: dal 2008 Grecia, Italia, Portogallo e Spagna hanno registrato per tre o più anni una contrazione del Pil. Ma l’intera area dell’euro ristagna. Per far quadrare i bilanci nazionali si insiste nel colpire la sanità e, infatti, è questo il settore in cui sono stati realizzati i maggiori risparmi. Il rallentamento della crescita della spesa sanitaria, nei paesi stretti nella morsa dell’austerità, è andato ben oltre quello dell’economia.

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La riduzione della copertura sanitaria pubblica si è tradotta in aumenti di spesa out of pocket più che nello sviluppo delle assicurazioni private, anche se la spesa sanitaria privata in valori nominali è diminuita in Grecia, Portogallo, Gran Bretagna, Italia. E nel nostro paese, data la debolezza del mercato privato, le pressioni dei fondi sanitari integrativi per la privatizzazione di talune prestazioni sanitarie fornite nell’ambito pubblico si fanno sempre più forti.

Gli effetti della crisi fiscale sulle politiche sanitarie dei diversi paesi europei dipendono oltre che dalle specifiche condizioni delle finanze pubbliche dall’organizzazione dei sistemi di welfare. In ogni modo, il riaccentramento della governance e la riduzione della frammentazione rappresentano caratteristiche comuni che hanno migliorato l’efficienza dei sistemi e contribuito al rallentamento della crescita della spesa sanitaria. La riduzione del finanziamento è stata diffusamente affrontata contenendo i costi del personale, l’eccesso di capacità produttiva ospedaliera e sfruttando il potere di monopsonio pubblico nella regolazione della politica dei farmaci e degli acquisti di beni e servizi.

Tuttavia, la politica di produrre di più con meno risorse incontra dei limiti quando la dimensione dei tagli è troppo grande e i tempi delle riforme sono troppo stretti, ostacolando la riallocazione delle risorse dall’assistenza ospedaliera verso quella territoriale, per la sostenibilità futura dei sistemi sanitari e una migliore qualità delle cure.

I sistemi sanitari dei paesi non colpiti dall’austerità (con adeguati livelli di spesa sanitaria, elevata copertura e ridotta spesa out of pocket) hanno potuto affrontare la crisi con politiche anticicliche: per esempio, in Germania (ma non solo) sono aumentati i fondi pubblici destinati al settore ed è stato incentivato l’accesso alle visite territoriali (assistenza di base e diagnostica ambulatoriale) riducendo la compartecipazione privata alla spesa. Nei paesi condannati dall’austerità la sanità è stata, invece, pesantemente colpita rincorrendo a politiche pro-cicliche al punto che la spesa in valori nominali è oggi inferiore a quella degli anni precedenti la crisi. Nella tragedia greca circa un quinto della popolazione vive in condizione di severa deprivazione materiale e circa un terzo della popolazione è priva di copertura sanitaria. In conformità con il memorandum, le cure primarie sono state riformate e ai medici è stato assegnato un budget mensile di 250 visite (in realtà effettuate in meno di una settimana), mentre le visite in eccesso sono a pagamento.

Nel bel paese, il processo di efficientamento della spesa è iniziato molto prima della crisi. La spesa sanitaria è stata, infatti, stabilizzata in valori reali sin dal 2005, da quando i guardiani del bilancio hanno ripreso in mano le redini della borsa. Le nuove regole del gioco hanno dettato la fine del bail out governativo a pioggia. Con la politica premiante degli equilibri di bilancio (anticipazioni per cassa dal 95% al 99% delle risorse spettanti) e quella sanzionatoria dei Piani di rientro per la correzione degli squilibri (automatismi sulla leva fiscale locale, blocco del turn-over e divieto di iscrivere in bilancio spese discrezionali), i disavanzi sono stati progressivamente contenuti (dai 6 mld del 2006 ai meno di 2 mld nel 2013 prima delle coperture regionali).

Dal 2010 l’austerità nostrana ha fatto entrare la sanità in una nuova fase di riduzione della spesa nominale, oltre che reale. I maggiori effetti di contenimento della spesa si registrano sulle politiche direttamente controllabili dal governo centrale (farmaceutica e personale). Meno incisive sono state invece le misure che ricadono sotto l’autonomia delle regioni (acquisti di beni e servizi; dispositivi medici e servizi in outsourcing; e acquisti di prestazioni ospedaliere e specialistiche da erogatori privati).

L’ostinata lotta per la difesa delle risorse condotta dal dicastero della salute e dalle regioni nel corso delle contrattazioni per il nuovo Patto per la salute 2014-2016 certamente non rappresenta un successo. Per la rideterminazione del finanziamento del Ssn è stata applicata la regola di allineamento alle variazioni del Pil tenendo comunque conto degli effetti delle manovre sul settore (109,9 mld nel 2014, 112,1 mld nel 2015 e 115,4 mld nel 2016). In quella sede, è stato però concertato il principio generale che i risparmi derivanti dalle misure di efficienza e efficacia contenute nel Patto restassero nella disponibilità delle singole regioni per finalità sanitarie a garanzia dell’equilibrio del sistema.

Segnato dalle discussioni sulla sostenibilità futura del Ssn e dovendo fare i conti con il programma di revisione della spesa, il Patto ha assunto come strategia principale la razionalizzazione della rete ospedaliera riversando i risparmi sul potenziamento dell’assistenza territoriale e domiciliare. Si punta a rafforzare i sistemi informativi per il controllo e il monitoraggio delle cure primarie, lasciando alla spending review la ricerca di nuovi risparmi sulla farmaceutica e sulle politiche di acquisto di beni e servizi.

Ma la cornice finanziaria del nuovo Patto per la salute è apparsa da subito fortemente precaria (essendo condizionata a “successive modifiche che si rendessero necessarie”).

La vexata quaestio della mano che toglie al Ssn ciò che l’altra dà, si è riproposta con l’aggravio del concorso delle regioni agli obiettivi di finanza pubblica prevista dalla manovra di stabilità per il 2015: 4,7 mld di economie di spesa da applicarsi liberamente nel rispetto dei Lea e dunque del finanziamento del Ssn. Tuttavia, poiché senza contraddizione non c’è vita, in assenza di auto-coordinamento i risparmi sarebbero stati attribuiti tenendo anche conto del Pil e della popolazione residente eventualmente ricadendo – e questo è da sottolineare – anche sulle risorse destinate al finanziamento corrente del Ssn.

La nuova sforbiciata sulla sanità era stata dunque già predeterminata nella manovra per il 2015 e il dl. 78/2015, nel recepire le intese regionali del 26 febbraio e del 5 luglio 2015, ha addossato al settore il 50% dei tagli (2.352 mln), rideterminando il finanziamento del Ssn in 109,7 mld per il 2015 e in 113,1 mld per il 2016.

Restando libere le regioni di conseguire i risparmi con misure alternative nel rispetto dell’equilibrio di bilancio, la nuova lista delle economie di spesa è stata comunque stilata. Essa interessa prioritariamente la rinegoziazione dei contratti al ribasso di beni e servizi, le misure di appropriatezza prescrittiva di prestazioni di specialistica ambulatoriale (con penalizzazioni sulla retribuzione accessoria o variabile dei medici) e di ricoveri riabilitativi, l’applicazione del regolamento sugli standard ospedalieri (azzeramento strutture sotto i 40 pl; riduzione di oltre 10.000 incarichi di strutture semplici e complesse; riorganizzazione della rete assistenziale).

I risultati e le previsioni del finanziamento e della spesa del Ssn sono riassunti nella seguente tabella:

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Il Def 2015 ha rivisto al rialzo i risultati passati e ha aggiornato le previsioni tendenziali includendo gli effetti dell’ultima manovra di stabilità. In media annua dal 2010 la debolissima crescita del Pil (+0,2%) si è accompagnata ad una decrescita della spesa sanitaria (-0,3%), contrariamente a quanto è avvenuto alla restante parte di quella scatola nera che è la spesa primaria corrente (+1,3%). Nel 2014 la spesa sanitaria ha ricominciato a crescere pur mantenendosi ancora al di sotto della previsione contenuta nel Def 2014 (una condizione che si ripete ormai dal Def del 2011). Le nuove proiezioni, confermate nella nota di aggiornamento al Def a legislazione vigente, continuano a posizionare il settore al di sotto della ripresa dell’economia, con la conseguenza che si riduce la sua incidenza sia sul Pil sia sulla spesa primaria corrente.

Il Ssn italiano, considerato tra i sistemi sanitari più efficienti ed efficaci al mondo, sebbene sia l’unico ad non essere interessato da specifiche raccomandazioni nell’ambito del semestre europeo, è posto duramente sotto attacco dalla politica nostrana. I miglioramenti di efficienza nella gestione delle risorse resi possibili da una buona governance centralistica degli ultimi dieci anni, che ha fatto scuola anche oltre i confini nazionali, sono stati soppiantati da altre politiche. E il Patto per la salute, inteso a salvaguardare i risparmi realizzati dal Ssn reinvestendoli nello sviluppo dell’assistenza territoriale, è già stato rotto.

Per disattivare la clausola di salvaguardia degli aumenti delle aliquote Iva, le risorse dovrebbero essere forse cercate altrove, evitando di mettere a rischio gli obiettivi di universalità ed equità nella tutela della salute. O, l’intenzione (mai dichiarata esplicitamente) è di comprimere le prestazioni sanitarie retrocedendo di fronte agli interessi di quel «fallimentare mercato» che da tempo aspetta di intermediare una parte consistente della spesa sanitaria?

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