Sul n. 174 del Menabò Elena Granaglia ha posto 6 domande aperte sulla meritocrazia e sulle questioni da lei poste sono già intervenuti Andrea Boitani e Maurizio Franzini e Quirino Camerlengo. Entrambi gli interventi concordano, in formule diverse, sull’idea di valorizzare le competenze plurali, piuttosto che regolamentare un’impossibile unica gara del merito; nonché di assumere una posizione forse meno ambiziosa ma più effettiva, che vada ad esempio verso una «limitata immeritocrazia», in modo da evitare le controindicazioni più note e denunciate di una società interamente basata sul merito.
Le domande poste (come definire il merito; chi lo definisce; come si misura; come applicarlo; in quali ambiti farlo e perché premiarlo) segnalano le questioni aperte sulla meritocrazia. Le sposo in toto, senza aspirare a poter risolvere le contraddizioni segnalate. Credo però possa aiutare la discussione, per un verso, suggerire un motivo in più che contestualizza lo scetticismo recente rispetto all’«illusione meritocratica»; per altro verso aggiungere che esiste una polarità che attraversa le domande poste e che ne conferma, e in parte ne spiega, l’aporeticità.
Vengo al primo punto. Solitamente si sostiene che coloro che erodono la centralità del merito costruirebbero modelli sociali ingiusti e «deprimenti», che non premiano i talenti, non consentono sogni di ascesa sociale, non generano incentivi (ad esempio M. Santambrogio, Il complotto contro il merito, 2021). Ora non si nega certo che il merito debba costituire un criterio importante per le società. Al tempo stesso temo che il vero problema di questi anni, il vero modello «deprimente» e disincentivante, sia stata la disillusione rispetto al merito per eccesso di aspettative, lo scetticismo verso la meritocrazia perché troppo era stato messo sulle sue spalle. Bisogna senza dubbio impegnarsi perché i percorsi formativi e il tragitto verso determinate professioni e posizioni apicali non siano inquinati da familismi, opacità, corruzione, ma se per i nati dopo gli anni ‘70 la mobilità sociale intergenerazionale è una chimera, i motivi sono molti e non certo tutti riassumibili nell’assenza di merito. Se in Italia, tra disoccupati e working poors, ci sono persone con laurea e talvolta con PhD la colpa non è certo della meritocrazia (quanto di un sistema economico e sociale in affanno); al tempo stesso possiamo pure dirci ragionevolmente certi che la retorica del merito, invocata come panacea e cavalcata per almeno un quindicennio, non ha rispettato le sue promesse e non può sorprendere il backlash di questi ultimi anni.
Chi caldeggia una società che abbia come sua stella polare i meriti ha spesso come spauracchio polemico o una stagione di appiattente egualitarismo (come riassumono alcuni «un nuovo ‘68») o la vischiosità delle reti di potere clientelare. Non si tiene in conto una diversa possibilità: che in fasi di crisi i meriti rimangano disattesi, non tanto perché venga dato tutto a tutti o perché comportamenti opachi ne abbiano impedito il riconoscimento – non dunque per troppa eguaglianza o troppa corruzione – quanto perché i beni da distribuire non sono abbastanza e la corsa di un numero sempre maggiore di persone alla «certificazione» dei propri meriti svaluta i titoli che li renderebbero riconoscibili e premiabili.
Insomma sempre più spesso non è stata una raccomandazione o un comportamento altrui spregiudicato a privare i meritevoli della ricompensa attesa, quanto il fatto, più semplice e crudele, che quella ricompensa non c’è più (o non c’era mai stata). Certo, anche in un contesto ideale, non tutti i «meritevoli» riescono a ottenere il premio agognato (ad esempio in una gara), e una parte consistente degli usi del merito riguarda proprio l’allocazione di beni strutturalmente scarsi, per cui bisogna stilare dei criteri distributivi. In questo caso però la drastica diminuzione delle ricompense va a erodere direttamente una parte decisiva della stessa definizione di merito: la legittima aspettativa di ottenere qualcosa. L’apparente paradosso è che spesso minori possibilità ci sono (cioè minori ricompense e aspettative più difficili da soddisfare), più si fa forte il richiamo alla meritocrazia per uscire dall’impasse.
Forse però il problema non è generalmente più meritocrazia, quanto un merito meglio calibrato, e preferibilmente spogliato della fiducia messianica che lo ha circondato. Quando ha compiti che non può assolvere, quando viene considerato la panacea rispetto a una struttura sociale ammalata principalmente per altri motivi, si accresce la sfiducia nei suoi confronti (e questo in contesti come l’Italia, si salda con scetticismi atavici). Per valorizzare davvero il merito nella società, bisogna discutere cioè dei meccanismi del merito reale, non di quelli del merito utopico; poggiare sul merito solo la quota di aspettative che può ragionevolmente soddisfare.
Per questo ha senso entrare nei meccanismi interni della nozione, come già hanno fatto sul Menabò, Granaglia e Boitani-Franzini. E vengo dunque al secondo punto, che può apparire forse eccessivamente astratto ma che segnala una questione strutturale sul piano teorico. Nella storia «merito» è stato a lungo sussunto nella formula classica della giustizia distributiva, secondo cui va dato a ciascuno secondo il suo merito ( in greco, axia). È la categoria aristotelica fluita nel diritto romano e poi (con alcune inevitabili cesure) in buona parte della speculazione filosofica moderna. Andrebbe in realtà aggiunto che lo stesso motto aristotelico non è così cristallino, poiché Aristotele afferma sì che la giustizia distributiva consiste nel dare a ciascuno secondo il suo merito, ma aggiunge subito che ognuno reputa in maniera diversa che cos’è il merito: sin dall’inizio cioè la discussione sul merito è stata segnata dalla sua contendibilità e dalla sua incertezza. Quel motto rimanda all’idea che ognuno debba ottenere un riconoscimento legato al suo valore o alle sue azioni, ma senza implicare una competizione su base di eguaglianza.
A partire dal ‘700, in ogni caso, il legame tra l’idea di merito e quest’ultima assunzione si è fatta sempre più forte, a partire dalla formula illuminista che vuole «le carriere aperte ai talenti», poi variamente declinata. Sebbene «le carriere aperte ai talenti», sia in qualche modo una specificazione della formula
«a ciascuno secondo il suo merito», si è trattato di un’epocale mutamento sociale, che ha messo al centro l’efficienza (se la sia guarda dal punto di vista delle «carriere») e l’eguaglianza (sul piano dei «talenti») e ha pian piano mutato la costellazione concettuale del discorso sul merito. Non c’è solo la differenza, ovvia, tra merito e talento, ma il mutamento riguarda lo stesso meccanismo di allocazione implicato nella teoria del merito. Nel progressivo slittamento di significato che è seguito alla preminenza del motto «le carriere aperte ai talenti» alcune caratteristiche si sono eclissate, altre hanno preso maggiore spazio.
«A ciascuno il suo» è un elemento cardine della giustizia distributiva; «la carriera aperta ai talenti» ha a che fare invece con l’eguaglianza delle opportunità (quantomeno formale). Inoltre nel suo sviluppo storico quest’ultima formula si è accompagnata con la rivendicazione della libertà dell’individuo, che deve poter intraprendere e sviluppare il talento che più ritiene opportuno, e con il benessere della società, avvantaggiata dalla maggiore quantità di talenti allenati e dalla loro migliore allocazione.
«A ciascuno secondo il suo merito» non si accompagna necessariamente all’idea che tutti debbano competere su basi di eguaglianza iniziale. Intende piuttosto fornire una distribuzione proporzionalmente ‘giusta’, a fronte di una diseguaglianza iniziale: essa è più importante per l’equilibrio della società, piuttosto che per la sua performance. Richiama inoltre, un momento distributivo in cui è fondamentale un attore terzo, spesso un’istituzione, che ripartisce a ciascuno il suo. «Le carriere aperte ai talenti» non si incarica invece, in prima battuta, della giustizia né della proporzionalità della distribuzione, quanto della possibilità, reale o formale, di partecipare. Per quanto riguarda le istituzioni le guarda, principalmente, come ad enti che definiscono le regole del gioco e che però, in molti casi, si incaricano di eliminare gli ostacoli della gara.
Entrambe le formule possono appellarsi a motivazioni forti che fuoriescono strettamente dall’ambito della giustizia. Possono essere considerate utili per una società, ma a diversi livelli: si può presumere che la prima formula contenga una maggiore attenzione alla coesione sociale, mentre la seconda implichi una centralità maggiore della competizione. Nella nozione di «a ciascuno secondo il suo merito» è fondamentale l’idea di proporzionalità, entro cui è possibile, ma tutto sommato distante, l’idea secondo cui «i vincitori prendano tutto» («winners take all»): c’è infatti una proporzionalità delle ricompense così come vi è una proporzionalità dei meriti. È un’idea che invece non genera attriti quando l’enfasi è «sulle carriere aperte ai talenti», perché si interessa della fase iniziale della gara ma ne lascia libera gli esiti (anche quando essi fossero improntati alla massima diseguaglianza). La formula «le carriere aperte ai talenti» ha del resto dal canto suo un legame molto più forte con l’allocazione di mercato (tanto che non sono rare le letture che tendono ad equiparare, esplicitamente o implicitamente, merito e successo economico).
Più in generale, quando dalla costellazione concettuale di «a ciascuno il suo», ci si sposta in quella delle «carriere aperte al talento» – come è effettivamente accaduto – mi pare venga accentuata la natura individualistica del merito, e questo comporta un’interessante tensione. La giustizia distributiva è infatti «olistica» (cioè l’assegnazione di specifici beni agli individui dipende, in maniera diretta o indiretta, dalla più generale distribuzione di tali benefici in tutta la società). La formula «a ciascuno il suo» implica un accordo tra la componente individualistica e quella olistica, che è meno immediata nell’idea delle «carriere aperte ai talenti».
In conclusione, «dare a ciascuno il suo merito» sostiene in sostanza un discorso che verte intorno a redistribuzione e titolarità; il principio che vuole «le carriere aperte ai talenti» guarda al merito come criterio che consente di offrire a ciascuno l’opportunità di ottenere ciò che vuole. Il primo è un criterio di equità; il secondo un principio di autodeterminazione e al tempo stesso un criterio di selezione. Quando diciamo merito facciamo riferimento, talora confusamente, all’uno e all’altro. Molto spesso questo non crea problema, ma va tenuto in mente che ci sono casi in cui le coppie cui esse rimandano (giustizia vs eguaglianza delle opportunità; coesione vs selezione, etc) fanno scintille e talora cortocircuito.
Si tratta, come si vede, di una constatazione, non di una risoluzione; ma di una constatazione che credo possa aiutare se non a districare quantomeno a comprendere alcune delle difficoltà teoriche che si sono aggrovigliate nella matassa della meritocrazia.