Il Neocorporativismo decentrato

Ezio Tarantelli nel 1984 concesse un’intervista a ‘Quale Impresa’, rivista dei giovani industriali, che fu pubblicata a luglio di quell’anno, 8 mesi prima del suo assassinio. Pubblichiamo nuovamente quella intervista per la sua attualità, frutto della straordinaria capacità di Tarantelli di prevedere l’evoluzione del lavoro. Nell’intervista si parla, tra l’altro, di riduzione dell’orario di lavoro per far fronte alla disoccupazione e del progressivo superamento della distinzione tra lavoro dipendente e autonomo. Sfide per gli attori sociali, ed in particolare per il sindacato, rispetto alle quali Tarantelli non manca di indicare, con la sua fiducia e la sua inesauribile capacità propositiva, la strada da seguire.

Intervista a Ezio Tarantelli di Andrea Valentini*

Ezio Tarantelli è docente di economia politica all’università di Roma e anche presidente dell’Isel/Cisl. Ci tiene a sottolineare quell’anche, perché, dice, «ho l’impressione che fra i docenti universitari cresca la tendenza a dare maggior rilievo agli incarichi esterni: una tendenza – aggiunge – alla quale non vorrei essere associato».

Non è quindi con l’intenzione di oscurare il suo lavoro accademico che abbiamo preso spunto, nel sottoporgli i temi del dibattito avviato da «Quale Impresa» dai suoi recenti interventi sulla condizione delle relazioni industriali e del governo dell’economia. Tarantelli è ben noto per essere padre teorico della predeterminazione dell’inflazione e della scala mobile nel quadro di una concertazione in cui il ruolo delle parti sociali è di assoluto rilievo.

 

La predeterminazione è stata al centro di una lunghissima fase del negoziato sociale, anche se in accezioni non sempre omogenee; tuttavia si ha l’impressione che sia venuto meno uno degli elementi fondamentali di questo negoziato, cioè il dialogo diretto fra le parti. Tutto è avvenuto attraverso i contatti ‘separati’ del governo con gli imprenditori e con il sindacato. Ora, a prescindere dalla valutazione dell’epilogo della vicenda, ci sono le opportunità e le condizioni per una ripresa del confronto diretto fra le componenti? E su quali temi?

Per quanto riguarda il passato, mi limito ad osservare che su alcune manchevolezze dello schema di politica dei redditi che si è cercato e si cerca di realizzare in Italia hanno pesato fattori di carattere strutturale e contingente. Penso, per i primi, al fatto che lo schema di predeterminazione poggia sulla necessità del cosiddetto ‘scambio politico’, rispetto al quale l’opinione delle stesse forze della maggioranza di governo è tutt’altro che concorde.

Fra i secondi citerei, invece, la disdetta della scala mobile, che io non condivisi principalmente proprio per il motivo che rischiava di rendere estremamente più difficile il confronto diretto tra le parti.

Poiché ora ci occupiamo del futuro premetto che la ripresa di tale confronto mi appare molto importante: parlo sotto il profilo dell’opportunità, perché le condizioni poi non debbono essere definite dall’economista, ma scaturiscono dalla volontà e dagli atteggiamenti delle stesse forze sociali.

L’economista invece deve puntare il dito sulla malattia e poi indicare una terapia: a me pare che il quadro clinico sia caratterizzato ancora dall’inflazione, ma soprattutto da un forte problema di disoccupazione. Ciò in primo luogo perché il parziale rientro dei livelli inflazionistici è stato ottenuto attraverso politiche monetarie di tipo restrittivo che hanno penalizzato gli investimenti e, in ultima analisi, ancor più l’occupazione.

Ci sono quindi due nodi obbligati sulla via della politica economica che corrispondono a due insufficienze: da un lato c’è l’insufficiente attuazione della predeterminazione, di cui è stata accettata l’idea ma che è stata tradotta in un quantum inadeguato; dall’altro c’è, ci deve essere, la consapevolezza che, se la sconfitta dell’inflazione è un passaggio indispensabile per recuperare competitività, essa è insufficiente a fornire risposte idonee al problema dell’occupazione.

Quindi lei ritiene che proprio l’occupazione sia uno dei temi centrali del futuro delle relazioni industriali. C’è però anche un motivo specifico che unisce l’analisi di questo problema alla questione del confronto diretto tra le parti: lei ha infatti collegato recentemente le opportunità di riduzione della disoccupazione ad una serie di scelte in materia di riduzione dell’orario di lavoro, non intesa però nel senso automatico (e forse un po’ meccanicistico) della battaglia per le trentacinque ore.

Esattamente. Ma credo che sia prima opportuno chiarire i termini della situazione, che si presenta a mio giudizio veramente drammatica.

Diamo infatti per scontato che la ripresa internazionale si consolidi (il che non è sicuro che accada dopo le elezioni americane) e che il nostro tasso di sviluppo si mantenga nell’ordine del 3% che è anche il massimo che possiamo permetterci senza rischiare di aprire grossi problemi sul piano dei conti con l’estero. D’altro canto, è ragionevole prevedere che nell’ordine del 3% debba situarsi anche l’incremento della produttività e la corrispondenza fra i due livelli significa che tutti gli incrementi di reddito che saranno consentiti al nostro paese deriveranno da coloro che già oggi sono occupati. Quindi, non avremmo alcun miglioramento dell’occupazione: non solo, bisogna aggiungere che è prevedibile anche l’ingresso di oltre centomila nuove unità di forza- lavoro nel mercato, per ogni anno e nei prossimi dieci anni, composte soprattutto da giovani e donne. E se si tiene conto di questo la situazione peggiora, perché non solo disoccupazione non diminuirebbe, ma sarebbe destinata ad aumentare; rischiamo di arrivare a quattro milioni di disoccupati.

Ora non credo che ci sia altro modo di agire sui contorni rigidi di tale prospettiva che quello di recuperare spazi di flessibilità nel tempo di lavoro.

Che, d’altro canto, è un tema sul quale i rapporti tra sindacati e imprenditori non sono stati sempre molto facili.

Ma la mia proposta è abbastanza diversa da quelle che sono state discusse in questi anni. L’operazione dovrebbe essere condotta senza costi aggiuntivi per le imprese, e venendo incontro ad aspirazioni che diventeranno sempre più sentite tra i lavoratori. In sostanza, credo che dovrebbe essere consentito a questi ultimi di optare per soluzioni come il part-time, periodi di ferie non retribuite, periodi di riposo settimanali non retribuiti, periodi sabbatici. Per la fine di questo secolo,, inoltre, pensare alla generalizzazione del venerdì libero.

Il tempo di lavoro deve diminuire con una pari diminuzione del salario e anche dell’assicurazione sociale (sanitaria e pensionistica) corrispondente, che potrebbe essere integrata da un’assicurazione privata. Quindi, se non ci sono costi per le imprese, non c’è nemmeno diminuzione del salario reale medio: la ratio dell’operazione consisterebbe nel dirottare una parte degli incrementi di produttività di cui abbiamo parlato al tempo libero. Importante è anche abituarsi a considerare il tempo libero come un bene di consumo.

E’ una ricetta a mio avviso valida e importante anche per il pubblico impiego. Valida a patto che non si traduca in una sola diminuzione dell’orario, perché i dipendenti pubblici fanno già un orario ridotto. Importante perché agirebbe in modo positivo sul contenimento ella spesa pubblica. Sotto questo profilo, si deve condividere pienamente il monito lanciato dal governatore della Banca d’Italia, circa la necessità di contenere l’aumento della spesa pubblica due punti al di sotto dell’aumento del reddito; ma poiché la spesa pubblica, al netto degli interessi, è composta per l’appunto di salari, previdenza e sanità, non vedo strada migliore – a parte un attacco serio all’evasione fiscale – per ottenerne una riduzione, sempre che non si voglia colpire troppo duramente il tenore di vita dei lavoratori.

In conclusione, non mi pare siano state avanzate fino ad ora obiezioni decisive, sul piano generale, a questa proposta, che comunque non va interpretata in modo meccanicistico. Bisogna prima vedere come essa si combinerà, e se si combinerà, nella prassi, con la riduzione di orario: ma è certo che, stanti le condizioni che ho descritto in precedenza, essa è l’unica risposta possibile al problema della disoccupazione.

 

Lei ha accennato all’esigenza di una accorta traduzione in pratica di questi suggerimenti. Quali sono a suo avviso le modalità e i canali di contrattazione attraverso cui sarebbe meglio possibile rispettare l’aderenza alle situazioni concrete, l’applicazione flessibile che si deve ottenere di una proposta per sua natura ispirata alla flessibilità?

Questo è un passaggio certamente importantissimo, perché il rapporto fra la nuova flessibilità che propongo e l’organizzazione del lavoro non è uguale, e non potrebbe esserlo, per tutte le imprese e nemmeno per tutti i lavoratori. A mio avviso, dunque, le richieste del lavoratore, scaglionate in un periodo di tempo che direi annuale, dovrebbero passare per il consiglio di fabbrica, che discuterebbe poi con l’azienda la fattibilità tecnica del progetto, la sua realizzabilità e non è affatto escluso che a molte delle domande debba essere risposto di no. L’importate però, è che questa contrattazione avvenga a livello decentrato, l’unico che può consentire un’analisi realistica dei possibili sviluppi.

 

Se non capisco male, questo è uno dei cardini su cui si regge il modello di relazioni industriali che altre volte ha descritto come auspicabile e ha definito come «neocorporativo decentrato»?

Io credo che noi abbiamo bisogno da un lato di predeterminare l’inflazione in un modello neocorportivo nel quale le parti sociali acquistino via via più peso e più rilevanza e in cui lo Stato intervenga sia come imprenditore sia a livello di scambio politico. Modello che naturalmente non implica la conclusione attraverso «diktat» dell’esecutivo a patto che si realizzino certe condizioni ambientali e che la politica dei redditi sia intesa nel senso corretto. Insisto in proposito sul fatto che il governatore della Banca d’Italia ha indicato anche l’esigenza di un aumento della pressione fiscale, ma attraverso la lotta all’evasione e all’erosione, non tramite l’inasprimento dei tributi per coloro che già pagano.

Ma tutto la parte centralizzata del modello, il confronto relativo alla predeterminazione dell’inflazione, non può essere considerato sufficiente, così come la discesa dell’inflazione non è sufficiente al ripristino di condizioni di efficienza e di equità sociale. Occorre dare spazio a una trattativa decentrata, fondata sul ruolo dei consigli di fabbrica, in aree di problemi che sono di diretta pertinenza del sindacato di azienda; perché non è pensabile che sia compito di quest’ultimo andare a Palazzo Chigi a discutere il tasso di inflazione programmato, così come non è pensabile che sia fissato dall’uomo della strada il controllo della manovra sul tasso di cambio.

Viceversa, però, non si può sottrarre alle rappresentanze sindacali aziendali il compito di discutere una serie di temi importanti come i ritmi di lavoro, la qualità della vita in fabbrica, la mobilità del lavoro, la struttura salariale, le gerarchie e i sentieri di mobilità all’interno dell’azienda, le assunzioni e i licenziamenti; ma anche, per riallacciarci ai temi precedenti, la riorganizzazione del lavoro necessaria per ottenere gli spazi di flessibilità ritenuti ottimali. E, naturalmente, per tutti questi argomenti, quando parlo di sindacato a livello di azienda, è implicito che mi riferisca anche all’azienda stessa come interlocutore contrattuale indispensabile.

 

Ultimamente, anche in relazione agli sviluppi concreti del negoziato sindacale, sono state sollevate obiezioni di un certo peso in rifermento alla capacità di tutti i partecipanti di tenere presenti gli obiettivi di carattere generale, come appunto il contenimento dell’inflazione e della spesa pubblica. E’ stato rilevato, cioè, il pericolo che alcune disfunzioni del negoziato stesso siano state «pagate» attraverso un appesantimento dei conti dello Stato o, per un usare un’espressione tra il serio e i faceto, attraverso una «fiscalizzazione degli oneri contrattuali».

Lei ritiene che evitare distorsioni di questo tipo dipenda solo dalla responsabilità delle parti (naturalmente governo compreso) o che ci sia qualcosa da modificare anche nella dinamica e nell’assetto del negoziato? E qual è la sua opinione circa il pericolo di «espropriazione» delle prerogative del Parlamento, pure segnalato?

Premetto che non voglio entrare nell’aspetto strettamente giuridico della questione, ma credo che una soluzione potrebbe essere prefigurata in questi termini: il Parlamento, al momento di varare la legge finanziaria e di bilancio, dovrebbe prevedere un «intervallo di confidenza» uno spazio all’interno del quale il governo potrebbe essere autorizzato a portare denaro pubblico sul tavolo della trattativa per ottenere determinati obiettivi.

Il sistema potrebbe valere per più aspetti, ad esempio non solo per la spesa, ma anche per le entrate fiscali, e dovrebbe essere tale da garantire spazi di flessibilità ma con limiti categorici, nel senso di proibire tassativamente l’oscillazione al di là dei tetti fissati. Creo che il Parlamento recupererebbe così la sua autorità e le sue prerogative, che sono state effettivamente intaccate, ma da molto tempo prima della vicenda del decreto.

Tornerei al tema dei rapporti fra le parti per sottolineare un aspetto molto importante dell’analisi che lei compie relativamente alla possibile evoluzione del tempo e dell’organizzazione del lavoro.

Un suo scritto dedicato a questi temi si concludeva con una frase alla quale forse non è stata prestata la dovuta attenzione: «la deregolazione dell’organizzazione del lavoro implica una generalizzazione del part-time senza aumenti di costo per le imprese; una generalizzazione che è destinata a ridurre nel tempo la divisione storica fra lavoro dipendente e lavoro indipendente». Lei crede che nel sindacato e nell’impresa ci sia una consapevolezza sufficiente di questa tendenza, che è connessa anche a profonde modificazioni sociali?

Mi fa piacere tornare su questo aspetto perché esso è stato effettivamente sottovalutato e io credo che continuare a farlo potrebbe produrre delle sorprese amare sia per il sindacato sia per gli imprenditori. Qui l’asse del ragionamento va spostato sul medio periodo e forse il ragionamento stesso va condotto anche con qualche osservazione che può sembrare provocatoria; ma è una provocazione intellettuale che secondo me non può che essere utile. Noi stiamo andando verso un tipo di forza-lavoro che si comporterà sempre più in base a criteri di duttilità e di mobilità; non è scritto da nessuna parte, o meglio non è certamente una legge di natura che gli operati e gli impiegati debbano lavorare otto ore al giorno per cinque giorni la settimana, per quattro settimane al mese e per undici mesi l’anno, e sempre nello stesso posto. Noi dobbiamo al contrario prevedere un panorama in cui quello che oggi consideriamo il lavoratore dipendente standard lavorerà per tre ore, ad esempio, alla Olivetti per altri tre ore presso un’altra azienda della stessa città e poi magari avrà (se è un impiegato) del lavoro di consulenza o simile da svolgere a casa per una altra azienda ancora; ed è chiaro che anche lo sviluppo delle nuove tecnologie faciliterà questo tipo di evoluzione. Magari la moglie di questo lavoratore si comporterà allo stesso modo, e finiranno con l’assomigliare (altra provocazione!) ad un dentista, nel senso che passeranno da un lavoro all’altro con la facilita con cui il dentista cambia i pazienti.

Un’evoluzione di questo tipo pone dei problemi formidabili al sindacato, che dovrà rappresentare e organizzare una forza-lavoro per la quale non esiste più il cosiddetto mercato del lavoro interno, il «posto» di lavoro immutabile, dal quale si esce soltanto per andare in pensione; ma pone anche problemi enormi di riorganizzazione interna alle imprese, molti dei cui dipendenti – come già oggi siamo largamente in grado di prevedere – non si recheranno nemmeno più fisicamente sul posto di lavoro, essendo in grado di svolgere agevolmente da casa la propria attività.

E aggiungo ancora che certo tipo di innovazione tecnologica privilegia decisamente la piccola dimensione, lo small is beautiful, ed è quindi destinata a mettere in crisi una certa egemonia della grande impresa anche da questo punto di vista.

Ma il problema di fondo, più generale, è esattamente quello di cui parlavo all’inizio, cioè lo sgretolamento progressivo della distinzione storica fra lavoro dipendente e lavoro indipendente. Coloro che oggi consideriamo così diversi, anche socialmente, perché rientrano nell’una o nell’altra di tali categorie, avvicineranno in realtà i propri modelli di vita, di organizzazione del tempo nell’arco della giornata e di periodi più lunghi.

 

Questo processo influirà anche su un altro punto di riferimento tradizionale delle relazioni industriali e cioè sul sistema di sicurezza sociale, su questa forma tutta particolare di Welfare che si è realizzata in Italia?

Inevitabilmente penso che andremo verso la recisione del cordone ombelicale, se è consentita questa similitudine, che ha tenuto sempre stretto il «pargolo» lavoratore italiano al governo; il quale, a sua volta, ha alimentato questo rapporto spendendo anche quando non avrebbe avuto più nulla da spendere.

Ora occorre puntare a un sistema che garantisca uno zoccolo di prestazioni minime decenti a tutti, sul piano sanitario e previdenziale; chi vorrà più della decenza dovrà pagarlo privatamente. E 1ui c’è un altro interesse comune di imprenditori e sindacati nello scambio politico, in cui essi debbono chiedere allo Stato non di spendere di più, ma di spendere meglio, di razionalizzare per spendere meno.

Ma vorrei dire che c’è anche un altro aspetto importante sul quale occorre riflettere. Noi abbiamo avuto, nel corso degli anni ’60, a partire dalla protesta di Berkeley, un movimento giovanile che protestava sì contro le clientele della spesa pubblica, ma anche contro un certo tipo di gerarchia in fabbrica, contro il mantenimento di torri d’avorio ingiustificate. La protesta di intere generazioni di giovani è stata in un certo senso imbavagliata dallo spettro della disoccupazione, che aumenta progressivamente da quegli anni, ma che ha subito vere impennate in particolare con gli shocks petroliferi. Non credo, tuttavia, che ci si possa illudere: quella protesta è solo sopita, ma quando la disoccupazione allenterà la sua morsa essa tornerà prepotentemente alla ribalta, di pari passo con il passaggio dalla cultura del posto di lavoro a quella del lavoro tout court.

Se noi non manterremo una valvola di sicurezza, in azienda e nei luoghi di lavoro, tutta la conflittualità sociale connessa a certe istanze si ripresenterà con effetti dirompenti sul sistema. Ecco un altro passaggio cruciale per le relazioni industriali nel futuro.

*L’intervista originale è stata pubblicata su Quale Impresa n. 7/8 del 1984. Desideriamo ringraziare il Direttore Editoriale della Rivista, Michela Fantini, per l’impegno nella non facile ricerca della versione originale dell’intervista. Un affettuoso ringraziamento va anche a Luca Tarantelli che ha letto alcuni passi di questa intervista, da una stropicciata fotocopia, nel webinar di commemorazione di suo padre del 29 marzo scorso, permettendoci di venire a conoscenza di questo documento piuttosto eccezionale. 

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