Quello dell’estrazione dei minerali dal sottosuolo è un problema secolare ed è un problema molto complesso perché coinvolge potenti interessi economici, solleva delicate questioni sui diritti di proprietà, e ha poco tranquillizzanti implicazioni di natura sociale ed ambientale.
Ad attirare rinnovata attenzione su questo problema è stata anche la recente vicenda della miniera di Jabiluka nell’estrema punta settentrionale del Northern Territory (NT) in Australia. A luglio il governo australiano non ha rinnovato la concessione per lo sfruttamento della miniera alla multinazionale mineraria Energy Resources Australia (ERA), generando opposte reazioni delle parti maggiormente interessate: la multinazionale, appunto, e le comunità aborigene locali.
La miniera di Jabiluka. Vale la pena ricostruire brevemente la storia di Jabiluka. Nei primi anni ’70 del secolo scorso la Pancontinental Mining Limited scoprì miniere ad alto contenuto di uranio nel NT in una zona circondata dal Parco Nazionale del Kakadu, dichiarato (per ragioni naturalistiche e culturali) patrimonio dell’umanità dall’Unesco, al pari, ad esempio, di Venezia e Luxor.
La Pancontinental in pochi anni predispose, come richiesto dalla legge, l’EIS (Environmental Impact Statement) per una miniera sotterranea e un impianto di estrazione nella vicina Jabiluka. Nel 1982 il Northern Land Council, che rappresenta solo alcunedelle comunita’ Aborigene con diritti fondiari nella regione di Jabiluka, approvò l’EIS. È rilevante il fatto che ora si dica che quella approvazione sia stata data sotto costrizione. Il governo del NT concesse allora una licenza mineraria della durata di 42 anni. Nel 1991 l’ Energy Resources Australia acquistò Jabiluka ma l’attività restò limitata finchè al governo laburista di Hawke non subentrò quello conservatore di Howard nel 1996. Infatti se il primo guardava con qualche preoccupazione alle miniere in generale e in particolare a quelle di uranio, il secondo era di tutt’altro orientamento. E nel 1998, con l’autorizzazione del Ministro delle Risorse e dell’Energia, iniziò la costruzione del sito di Jabiluka e quindi l’estrazione di uranio.
Nel 2021 è venuta a scadenza la concessione e occorreva decidere del rinnovo. Nel frattempo, rispetto al 1982, erano accadute cose rilevanti. Il Kakadu National Park si era molto espanso e tutte e tre le aree che lo compongono furono considerate Patrimonio dell’Umanità. Inoltre, soprattutto, per effetto della politica pro-miniere del governo Howard, le proteste degli ambientalisti e degli Aborigeni proprietari dei terreni interessati si erano fatte molto intense. In particolare si sono mobilitate le popolazioni Aborigene del clan Mirarr, contro lo sfruttamento non solo di Jabiluka ma anche della vicina miniera del Ranger, da anni responsibile di frequenti contaminazioni di falde acquifere nella zona circostante.
Anche se la voice degli Aborigeni non è molto forte l’effetto è stato di contribuire a indurre il governo alla decisione di cui si è detto. La partita, però, non è chiusa; l’agguerrita squadra legale dell’ERA minaccia di tenerla aperta ancora per anni.
Questa pur sintetica ricostruzione della vicenda di Jabiluka permette di individuare i diversi aspetti problematici dell’estrattivismo. Gli interessi economici in gioco sono fortissimi; i diritti di proprietà sui terreni potenzialmente sfruttabili in generale sono molto deboli e non tutelano i locali che in questo caso – ma anche in molti altri – sono Aborigeni; tutto ciò ha rilevanti conseguenze sociali e di possibile spiazzamento delle popolazioni nonché di rischio – secondo i più pessimisti – di neo-colonialismo; le posizioni dei governi nazionali sulla questione possono oscillare e risentono anche della loro sensibilità ai vari interessi in gioco; l’impatto sull’ambiente – che può manifestarsi in vari modi – è assai rilevante.
Gli interessi in gioco. Si parla di estrattivismo per indicare l’interesse allo sfruttamento del suolo e del sottosuolo su larga scala allo scopo di trarne minerali sui quali ottenere un profitto. Il grande e crescente interesse per le miniere è documentato dalla forte espansione delle estrazioni globali nel corso dell’ultimo secolo circa. Dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente si apprende che le estrazioni totali sono aumentate di circa 8 volte in meno di un secolo, con un particolare incremento per i minerali da costruzione (cresciuti 34), i minerali industriali (cresciuti 27 volte ) e i vettori energetici fossili (cresciuti 12 volte ). Tutto ciò ha alimentato i profitti delle grandi società minerarie. Tornando a Jabiluka, l’azionista di maggioranza dell’ERA è la nota multinazionale Australo-Britannica Rio Tinto, che, da decenni domina le classifiche mondiali delle compagnie minerarie e nel 2024 era prima per profitti, seconda per capitalizzazione e quarta per ricavi.
Si può aggiungere un dato sotto vari aspetti inquietante e cioè che più del 50% delle attività minerarie a livello globale non sono ufficialmente dichiarate. Anche in Australia, circa il 39% delle attività minerarie non figurano in rapporti finanziari di alcun tipo; quindi molte attività estrattive producono profitti che non vengono equamente distribuiti con i proprietari fondiari, che non sono tassati e che, probabilmente, violano i diritti fondiari di comunità indigene o sono illegali in altri modi. Questo è quanto emerge da un accurato studio di Tim Werner e Victor Maus del 2024 in cui vengono riportati i risultati di un’analisi condotta su una mappa satellitare delle attività minerarie finora sconosciute.
La questione sociale e ambientale. L’estrazione mineraria rimanda a una lunga storia di colonialismo, oppressione e devastazione ecologica che precede l’era industriale. Da tempi immemorabili – e ancora oggi – le società commerciali e minerarie hanno accumulato un numero enorme di violazioni dei diritti umani ed in particolare di quelli dei lavoratori delle miniere. Un esempio contemporaneo di cui si è occupato anche il è lo sfruttamento del lavoro minorile nelle miniere di cobalto della Repubblica Democratica del Congo.
Problemi sociali sono anche quelli, già menzionati, di dislocazione territoriale, di deprivazione o di degrado ambientale di cui soffrono le comunità locali: un costo enorme sopportato da coloro che spesso sono tra i più deboli del pianeta a beneficio di chi certo debole non è. E altrettanto spesso, come nel caso australiano, si tratta di popolazioni indigene che vivono in quei territori da millenni.
Queste considerazioni si colorano di toni ancor più preoccupanti quando vengono considerati in relazione ai problemi della transizione ecologica. Molte delle attività estrattive correnti interessano, infatti, “minerali di transizione“, come il litio ed il nichel, che hanno numerosissime applicazioni nella produzione di manufatti, quali le turbine eoliche, i pannelli solari e i veicoli elettrici, necessari per la transizione energetica. Queste produzioni hanno un alto impatto ambientale perché si tratta di attività ad alta intensità di combustibili fossili che distruggono gli ecosistemi e la biodiversità, con profonde conseguenze negative sul clima e sulla sostenibilità ambientale.
Nel caso del litio ad esempio i problemi ambientali consistono nell’inquinamento atmosferico e delle acque, oltre che in un enorme consumo di acqua e nel rischio di degrado del suolo per il suo esteso utilizzo e per la deforestazione che comporta. In queste riflessioni vi è qualcosa di particolarmente inquietante perché riguardano minerali che dovrebbero servire a risolvere i problemi di sostenibilità ambientale. E, invece, affiora il dubbio che, se nulla cambia, il saldo possa essere negativo: il danno ambientale dell’estrazione di questi minerali potrebbe non essere compensato dalla maggiore disponibilità di rinnovabili che questa estrazione consente. E, si può aggiungere, l’effetto negativo si manifesta prima di quello positivo. Di fronte a questa situazione per alcuni versi tragica occorre esplorare la possibilità – che alcuni considerano assai concreta – di modificare le techiche di estrazione di questi minerali adottando quelle che consentono di minimizzare l’impatto negativo sull’ ambiente anziché massimizzare il profitto.
Sfide radicali. Avviandoci a concludere, ci sembra che Jabiluka possa essere assunto come esempio eclatante dei problemi che l’estrattivismo pone e dei conflitti che lo caratterizzano e che di certo le questioni ambientali connesse ai minerali di transizione non alleviano.
Vi sono almeno tre ambiti problematici: quello dei diritti di proprietà, quello sociale e di giustizia sociale, quello ambientale. Quanto sia importante il ruolo dello Stato in questi ambiti non deve essere sottolineato. Nello svolgere questo compito lo Stato non può dimenticare – anche in una prospettiva di giustizia sociale – i diritti delle comunità locali e indigene. La giustizia sociale deve estendersi alla considerazione di casi in cui le prorità di un modello di sviluppo orientato alla crescita economica, quale quello adottato dal Global North, siano in conflitto con culture millenarie, quali quella Aborigena, in cui il legame con la terra e il suo sottosuolo non sono concepite in chiave produttivistica.
Sempre in tema di giustizia sociale occorre evitare che nelle attività di estrazione si utilizzi il lavoro nel modo praticamente disumano in cui esso spesso viene utilizzato, in particolare quando ad esserne vittime sono i minori. Lo Stato (e le autorità sovranazionali) dovrebbero vincere anche questa difficilissima battaglia.
In conclusione se ai problemi posti dall’estrattivismo si vuole dare una risposta all’altezza delle sfide che pongono sembra necessario un radicale ripensamento dell’idea di sviluppo che domina da tempo immemorabile, superando la sostanziale timidezza che sembra aver prevalso nell’ormai annoso dibattito sullo sviluppo sostenibile.