1. Nella narrazione corrente, il sistema economico italiano è prevalentemente rappresentato come una realtà affetta da una indubbia tendenza al declino. Per lo più, l’attenzione viene attirata sul tendenziale ristagno della crescita aggregata, conseguenza di una insoddisfacente dinamica della produttività e a sua volta ragione di una vera e propria riduzione, nell’arco dell’ultimo ventennio, dei redditi da lavoro in termini reali.
Mentre è di piena evidenza che la società italiana sia stata caratterizzata da un periodo di generale impoverimento e da un forte aumento delle disuguaglianze, di cui porta tuttora le ferite, appare invece del tutto infondata la deduzione che vorrebbe far derivare questo fenomeno da un complesso di (crescenti) inadeguatezze del sistema industriale, e di quello manifatturiero in particolare – nel cui ambito spiccherebbero un’insufficiente competitività e soprattutto una strutturale incapacità di adeguamento dei processi produttivi agli sviluppi delle tecnologie “avanzate”. Nel merito della questione, semmai, la prospettiva di analisi dovrebbe essere addirittura ribaltata, e quella che è invece una notevole capacità di adattamento del sistema manifatturiero – e a cui infatti corrispondono risultati economici notevoli a livello comparato – costituisce in realtà un elemento di forza di un paese altrimenti destinato a perdere rapidamente posizioni a livello globale. Il punto, in questo quadro, è che i riscontri fattuali che mostrano da anni una performance di tutto rispetto della manifattura italiana nel confronto internazionale sono sistematicamente rimossi da una rappresentazione del problema preoccupata prima di tutto di confermare la narrativa dominante.
Questa narrativa, di chiara matrice macroeconomica e che dunque ignora completamente le teorie dell’impresa (e più in generale la logica organizzativa dei sistemi industriali), circoscrive l’osservazione ad una unica variabile, che è la dinamica della produttività a prezzi costanti, collocandola all’interno di uno schema interpretativo elementare di stretta osservanza offertista. L’argomento forte è che le misure ricavabili dai conti nazionali mostrerebbero una sostanziale stagnazione della produttività ormai da più di un ventennio, al contrario di quanto avverrebbe – come risulta dalle comparazioni internazionali – nelle economie concorrenti. E poiché a questo fenomeno è associabile un output innovativo (formalizzato) anch’esso relativamente basso, il passo successivo è dedurre che la stagnazione della crescita aggregata sia funzione diretta della bassa competitività di un sistema industriale incapace di fare un uso adeguato degli sviluppi della tecnologia.
Dunque, secondo questo schema, i mali dell’economia italiana partono dall’incapacità dell’industria nazionale di gestire efficientemente l’impiego dei suoi input (le spese per la ricerca formalizzata, i brevetti, le famose ict, gli investimenti nei cd. intangibles), spiegata a sua volta da un peso tuttora spropositato delle piccole e piccolissime imprese rispetto alle altre economie e da una specializzazione “sbagliata”. Da questa inadeguatezza origina la scadente dinamica della produttività e quindi una crescita stentata e largamente inferiore a quella di tutti gli altri paesi. In questo schema il primum movens è la produzione di tecnologia, e a valle di essa i risultati ottenuti, in sequenza, in termini di innovazione, efficienza, crescita. Il correlato teorico sotteso è quello tutto offertista del growth accounting: la relazione che conta è esclusivamente quella che va dalla produttività – alimentata dal progresso tecnico – alla crescita. Un’industria efficiente troverà sempre e comunque una domanda che la accoglie (in armonia con la legge di Say), di cui dunque non merita parlare; la domanda in questa sequenza semplicemente non esiste.
2. Questo ragionamento, mentre sembra approcciare il tema esclusivamente sul piano empirico, si incardina in realtà su presupposti teorici tutt’altro che neutrali, e di cui mai si fa menzione (essendo ormai largamente acquisito, in ambito accademico e non, che tutto quello che conta è far funzionare il lato dell’offerta). Secondo questa impostazione infatti: a) la crescita deriva dall’aumento nell’efficienza allocativa delle risorse nella produzione di un insieme finito e costante di prodotti; b) l’analisi che conta è quella che va condotta a livello aggregato, preferibilmente con riferimento alla cd. produttività totale dei fattori; c) gli indicatori devono essere misurati a prezzi costanti (e quindi devono escludere in partenza variazioni di qualità); d) la tecnologia svolge un ruolo determinante; e) viene completamente espunto dal campo visivo, come si è detto, il ruolo della domanda; f) la competitività è solo di prezzo; g) esiste un unico modello di innovazione che è quello cd. lineare nella sua versione più estrema (relazione causale a senso unico che va dalla r&d all’innovazione alla produttività alla crescita); h) il conseguimento dell’efficienza passa solo attraverso le economie di scala (e dunque richiede necessariamente la grande dimensione); i) il salario è determinato solo dalla produttività marginale del lavoro (dall’ability to pay).
Il complesso di queste assunzioni configura un impianto teorico non meno che estremo, tale da deviare in partenza l’analisi del fenomeno verso una direzione predeterminata. Ma un punto di vista così radicale, e così privo di “sponde” sul piano della teoria dell’organizzazione industriale, non solo impedisce di mettere a fuoco, ma addirittura trascura elementi sostanziali, la cui inclusione nel quadro interpretativo consente invece, come viene mostrato nel nostro paper , la costruzione di una chiave di lettura coerente con i risultati economici assai positivi che la manifattura italiana effettivamente ottiene e che occorre rimuovere per salvaguardare la cornice cognitiva dominante.
3. In questo contesto la dinamica della produttività a prezzi costanti è l’architrave della narrazione, e su di essa viene ossessivamente attirata l’attenzione in quanto indicatore esclusivo e inequivocabile di un disastroso declino della manifattura nazionale. Ma – come viene mostrato nel paper – l’impiego di questa misura presenta, sul piano metodologico ed empirico, problemi insormontabili: per sapere di quanto è aumentata la produzione di beni relativamente omogenei quali l’acciaio e il cotone, come era utile sapere nell’Ottocento (ed è ancora utile sapere nelle economie in via di sviluppo), le misure di crescita a prezzi costanti forniscono una buona approssimazione della realtà. Ma in un contesto di prodotti altamente eterogenei, sofisticati e sempre nuovi, in cui la componente intangibile del valore conta sempre di più e l’individuazione dei cambiamenti qualitativi diventa virtualmente impossibile, la semplice componente quantitativa della crescita perde di significato. E poiché i criteri adottati per misurare la qualità a livello internazionale sono totalmente eterogenei, la comparazione internazionale non ha alcun fondamento statistico e la dinamica delle serie a prezzi costanti ricavata da questo tipo di deflatori non è direttamente utilizzabile come misura della crescita nel confronto tra paesi. L’inconsistenza di queste comparazioni è rivelata direttamente dai fatti: dal confronto tra la dinamica dell’indice implicito dei prezzi del valore aggiunto manifatturiero dell’Italia e della Francia, si ricava che il deflatore della Francia è costantemente negativo per tutti gli anni 2000 (il che implica un livello delle serie a prezzi costanti superiore per vent’anni a quello delle serie a prezzi correnti), mentre quello dell’Italia cresce incessantemente (oltre 30 punti cumulati). Ne deriva un differenziale cumulato di inflazione alla produzione di quasi 40 punti percentuali tra due paesi che competono largamente sugli stessi mercati. Un simile differenziale è logicamente inconcepibile in un contesto di globalizzazione (e quindi di pressione concorrenziale) crescente; e la sua implicazione immediata sarebbe la scomparsa della manifattura italiana e simmetricamente il trionfo di quella francese. Al contrario accade che l’Italia continui a posizionarsi ai vertici della manifattura mondiale, mentre il ruolo della Francia è ben più limitato.
Il ribaltamento della logica diventa così completo: la chiave di lettura mainstream è, semplicisticamente, che il valore aggiunto italiano (a prezzi costanti) si riduce perché la manifattura è inefficiente (in quanto “troppo inflazionistica”) e non quella secondo cui la dinamica del valore aggiunto è l’esito di una strategia di aumento dei valori unitari che comporta il posizionamento su fasce di mercato, meno consistenti in termini quantitativi, nelle quali la prima determinante della competitività non sono i prezzi ma è l’upgrading produttivo. In un contesto in cui la misurazione della qualità è totalmente campata per aria (e l’inflazione è frizionale), il contenuto informativo delle serie a prezzi correnti diventa cioè maggiore di quello delle serie a prezzi costanti. Una misura comparata della dinamica della produttività in valore, a questo riguardo, fornisce un quadro del tutto differente da quello usualmente evocato (figura 1): la curva relativa all’Italia mostra un profilo del tutto paragonabile a quello delle altre due grandi economie europee (a partire dallo spartiacque della crisi finanziaria la curva appare pressoché sovrapposta a quella della Germania, e negli ultimi anni è nettamente al di sopra di quella della Francia). Questo dato appare tanto più notevole considerando che nello stesso periodo (in particolare nella sua seconda metà) il livello assoluto del valore aggiunto manifatturiero della Germania registra una crescita notevole (tra il 2010 e il 2022, + 41,5% in valore).
Fonte: elaborazioni su Conti nazionali
4. Al tempo stesso la lettura mainstream rimuove completamente i due elementi essenziali per comprendere lo “stato di efficienza” del sistema industriale, ossia la teoria dell’impresa e i risultati economici che esso effettivamente ottiene. L’inclusione all’interno del campo visivo di questi due elementi consente di costruire una chiave di lettura molto più chiara e logica. Per quanto riguarda la prima, nel paper si dà conto dei fondamenti della competitività del sistema industriale italiano, esplicitando la sua logica di funzionamento (le modalità attraverso cui nell’esperienza italiana è stato risolto il “problema produttivo”) facendo uso di categorie interpretative proprie della teoria dell’impresa e dell’economia industriale. Quanto ai secondi, viene fornita evidenza dei molti indicatori di performance – non considerati dalla visione mainstream – che è necessario costruire per disporre di un quadro adeguato dell’“efficienza manifatturiera”. L’estesa documentazione quantitativa proposta mostra inequivocabilmente che in punto di fatto la manifattura italiana si colloca sistematicamente ai vertici dei ranking internazionali.
Naturalmente l’approccio seguito non implica in alcun modo che il nostro sistema industriale sia privo di problemi. Al contrario, la prospettiva di analisi proposta è che solo rimuovendo completamente un mantra che è ormai arrivato a permeare la stessa pubblicistica corrente sia possibile concentrare finalmente l’attenzione sui molti problemi reali che senza dubbio affliggono il mondo della trasformazione industriale – così come d’altra parte accade nei sistemi industriali di tutti i paesi, anche i più blasonati. Su quei problemi il nostro paper richiama l’attenzione e suggerisce alcune politiche che riteniamo più opportune per affrontarli.
* Questo articolo presenta alcune delle tesi contenute in un nostro lavoro assai più esteso e articolato: Il falso mito della manifattura inefficiente”, luiss Institute for European Analysis and Policy, Working Paper Series, 11/2024, July. https://leap.luiss.it/wp-content/uploads/2024/07/WP11.24-Il-falso-mito-della-manifattura-inefficiente-1.pdf