ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 224/2024

2 Novembre 2024

Il Rapporto Draghi non è un’agenda per la sinistra

Andrea Boitani e Roberto Tamborini argomentano che “l’Agenda Draghi”, se attuata, non disegnerebbe una economia conforme al modello sociale europeo e a una visione di sinistra riformatrice. In particolare, secondo gli autori, non appaiono adeguatamente disegnati gli strumenti e le istituzioni in grado di garantire la diffusione dei benefici della perseguita crescita della produttività e il contenimento del potere (non solo di mercato) degli invocati campioni europei dell’innovazione e della tecnologia.

Finalmente abbiamo l’autentica Agenda Draghi, entità fino ad ora esistente solo nel politichese italiano. S’intitola Il futuro della competitività europea (alias Rapporto Draghi), e riguarda non solo l’Italia ma l’intera Unione Europea (UE). Il Rapporto non doveva essere un programma di governo per l’Europa, né tanto meno per l’Italia, ma contiene una grande quantità di informazioni, dati e analisi accurate, nonché molte proposte importanti (e che andrebbero discusse pubblicamente), all’attuazione delle quali la presidente von der Leyen ha richiamato esplicitamente o implicitamente i nuovi commissari nelle “lettere di missione” inviate a ciascuno. Forse, l’Agenda Draghi è divenuta l’Agenda von der Leyen.

Una premessa ci pare doverosa. Il titolo del Rapporto c’entra poco col contenuto. La prima frase recita: “L’Europa si preoccupa del rallentamento della crescita dall’inizio di questo secolo. Si sono succedute varie strategie per aumentare i tassi di crescita, ma la tendenza è rimasta invariata.” Draghi sa bene che per accelerare la crescita di un intero paese serve incrementare la produttività dell’economia nel suo complesso, mentre la competitività è una “pericolosa ossessione” in quanto scambia la capacità di crescita con la conquista di quote di mercato di singole imprese sui mercati altrui (P. Krugman, Foreign Affairs, 1994, citato da Draghi nella presentazione del Rapporto, Aprile 2024). 

Il Rapporto individua l’insufficiente dinamica della produttività in Europa osservando il divario con Cina e Stati Uniti che si è creato nei settori della frontiera tecnologica, dove innovazioni e investimenti non tengono il passo. Transizione digitale e transizione verde devono accelerare, affrontando in maniera razionale i costi di breve e medio periodo. L’ampio ventaglio di proposte miranti ad affrontare e vincere queste sfide sottende un duplice cambio di paradigma della political economy europea, o per usare il vocabolario caro alla tecnocrazia europea, richiede profonde riforme strutturali (medico, cura te stesso!) di natura economica, organizzativa, istituzionale.

In primo luogo, vi è l’urgenza di approfondire l’integrazione europea (leggi ridurre le prerogative e le riserve esclusive dei singoli stati) in tutti e tre gli ambiti suddetti. Ad esempio, occorre procedere a una rapida unificazione della regolamentazione nei settori cruciali dei servizi, oggi in larga misura frammentata tra i paesi membri, con evidente difficoltà per la formazione di un vero mercato unico. Lo stesso dicasi per il mercato dei capitali, che richiede ulteriori sforzi di maggior integrazione, nel cui ambito si raccomanda di affidare a un debito comune europeo il compito di finanziare gli investimenti pubblici necessari al programma di riforma. Tutti punti di rilievo.

Il secondo cambio di paradigma riguarda gli organi di governo dell’economia, i quali oltre ad essere investiti di maggiori prerogative sovranazionali, devono cambiare ruolo e missione. Per fare cosa? Se la diagnosi del malessere europeo è corretta, il Rapporto (involontariamente?) ci dice che dopo trent’anni di mercato unico, attenta tutela della concorrenza e divieti agli aiuti di stato, l’economia europea si ritrova incastrata in una specializzazione internazionale sbagliata sia come input energetici (e non) che come output finali. Non sembra credibile sia solo il frutto di una regolamentazione dipinta come eccessiva, complicata e troppo diversificata tra i vari stati. La correzione di rotta proposta s’inscrive nell’operazione di riesumazione della cosiddetta “politica industriale” in corso nei paesi occidentali a partire dagli Stati Uniti (versione Biden). La Cina, per ovvie ragioni, è già avanti sul programma, ma per altrettanto ovvie ragioni non la si può presentare come modello. 

La politica industriale, ossia un insieme d’interventi pubblici diretti e indiretti al fine di (ri)orientare il sentiero di sviluppo dell’economia, si può fare in tanti modi. L’attenzione mediatica si è concentrata quasi esclusivamente sulla stima kolossal di 750-800 miliardi all’anno (non si dice per quanti anni) di investimenti pubblici e privati necessari per dare impulso ai settori ritardatari. Ma altrettanto, se non più, eclatante è l’ingrediente della ricetta che prevede un “ripensamento” anche della politica di tutela della concorrenza e della regolamentazione dei mercati in generale. Da un lato si rileva un eccesso del “principio di precauzione” (nel dubbio, vieta) il quale impedirebbe lo sprigionarsi degli animal spirits che sono la linfa vitale della nuova economia immateriale. Dall’altro viene sottolineato che, in questa economia, le nuove attività imprenditoriali, necessitano di tutto lo spazio (potere) di mercato per sfruttare le inesauribili economie di scala di queste tecnologie (più si produce, meno costa), che sono le fonti dei loro profitti. Un recente studio dell’Institute for European Policymaking dell’Università Bocconi sostiene che le imprese europee fanno pochi investimenti nei settori della frontiera tecnologica perché rendono meno che negli USA. Conclusione: per poter stare al passo col resto del mondo che conta bisogna lasciar crescere dei “campioni europei” e consentire loro di fare profitti elevati. Le grandi squadre della Champions League competono tra loro, non con le piccole delle Nation Leagues. E molto meglio, si dice, se le regole da rispettare sono poche e semplici.

Una parte non piccola dei commenti al Rapporto ha evidenziato i numerosi ostacoli, soprattutto di ordine politico, che ne rendono improbabile la realizzazione. Ma noi qui vogliamo immaginare che l’Agenda Draghi venga realizzata, e ci poniamo qualche domanda di sinistra. Quali conseguenze avrebbe la formazione di GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) europei nel mondo del digitale, delle telecomunicazioni, dei servizi in generale? Cosa garantisce che i benefici previsti siano diffusi e distribuiti a tutta la popolazione? La società europea sarebbe migliore quanto a benessere economico, qualità della vita e del lavoro, equità, inclusione? È necessario (purtroppo) ricordare perché è legittimo, per la sinistra, porsi queste domande. Per due ragioni che ci insegnano sia la storia che l’economia. La prima è che non esiste una relazione né automatica, né spontanea, tra gigantismo di dimensione e profitti, innovazione tecnologica, produttività, crescita e diffusione del benessere (M. Kurz, The Market Power of Technology, New York, 2023). La seconda è che questa catena virtuosa o viene creata e presidiata dal primo anello all’ultimo o si spezza, e allora possono svilupparsi i germi del divorzio tra capitalismo e democrazia, come già avvenuto in passato, di cui oggi rivediamo i sintomi inquietanti (M. Wolf, La crisi del capitalismo democratico, Torino, 2024). L’accoppiamento Trump-Musk (e altri simili) è un segno dei tempi che non può essere ignorato guardando solo alle statistiche delle innovazioni e della produttività. 

Cercando risposte alle nostre domande, leggiamo che “un ambiente economico non gestito, altamente innovativo e dinamico genera vincitori e vinti, aumenta le disuguaglianze, accresce il rischio di disoccupazione, comporta costi di transizione distribuiti in modo diseguale tra la popolazione e porta a una concentrazione sproporzionata dell’attività economica in poche aree con costi proibiti­vi” (p. 279). Quali sono i contrappesi da predisporre? Salvaguardare il “modello sociale europeo”, a cui viene reso omaggio, soprattutto nella prima parte del Rapporto (“Un approccio europeo deve garantire che la crescita della produttività e l’inclusione sociale vadano di pari passo”, p. 11). 

Tuttavia, non viene dedicato molto spazio a come affrontare le conseguenze sociali delle proposte contenute nel Rapporto. Non che il problema sia risolvibile a parole, ma il termine welfare compare solo 7 volte e quasi solo con riferimento alla riduzione dei suoi costi grazie alla digitalizzazione. La parola inequality compare in tutto 10 volte (9 nelle prime sedici pagine). Viene menzionato l’esempio della Svezia, in realtà uno dei paesi dove la disuguaglianza di mercato è aumentata in misura più significativa dal 1980 al 2015 (visto che il reddito del primo decile è passato dal 23.5 al 30.7%, e quello degli ultimi cinque decili dal 29.5 al 23.6%). L’aumento della disuguaglianza è stato contenuto, ma nient’affatto annullato, dall’efficacia redistributiva della tassazione, visto che la quota post tax del primo decile è salita solo dal 17.5% al 22.0% e quella degli ultimi cinque decili è scesa solo dal 40.1% al 35.3% (dati WID, 2024). Nonostante le buone prestazioni macroeconomiche, la socialdemocrazia svedese, dopo aver imboccato questa strada, ha visto frantumarsi il suo storico modello sociale ed è stata punita nelle urne. 

Per preservare la caratteristica inclusività del modello sociale europeo, il Rapporto si limita a raccomandare una riduzione coordinata della tassazione sui redditi da lavoro per le fasce medio-basse e di contrastare le pratiche che limitano la mobilità del lavoro tra imprese (clausole di non concorrenza), che riguardano soprattutto il management. Il tutto in poche righe a p. 320, la stessa in cui i rischi sopra richiamati vengono ricordati. Non si fa alcun cenno al possibile e, probabilmente necessario, aumento della tassazione sui redditi più elevati, sui profitti e sui patrimoni per continuare a finanziare il welfare compensando la perdita di gettito dovuta alle riduzioni di prelievo sui redditi medio bassi. Nessun cenno abbiamo trovato alla possibilità di recuperare risorse per il welfare da una seria riduzione dell’evasione fiscale da parte dei più ricchi e dell’arbitraggio fiscale (che di fatto è elusione) da parte delle grandi imprese, consentito dalla corsa verso il basso su regimi e aliquote fiscali (E. Saez, G. Zucman, Il trionfo dell’ingiustizia, Torino, 2019). Per non dire del ruolo ancillare della crescita che il Rapporto sembra attribuire al welfare.

I più recenti indirizzi di riforma dei sistemi di welfare hanno messo in luce il livello “pre-redistributivo”, ossia come si determina la distribuzione del reddito nel mercato prima degli effetti fiscali perequativi classici. Marginale è l’attenzione pestata alla necessità di un’equa ripartizione degli aumenti di produttività con i lavoratori, mentre si pone l’accento sulla necessità di garantire profitti e condizioni di finanziamento almeno comparabili con quelli delle imprese innovative in USA. Però, come è noto, i salari in America, almeno dal 1980, hanno sempre meno beneficiato della crescita della produttività derivante dalle innovazioni e dalla diffusione delle nuove tecnologie (Figura 1). Tra il 1948 e il 1979 il tasso medio annuo di crescita della produttività è stato del 2.5% e quello dei salari dell’2.1%, i dati corrispondenti per il periodo 1979-2024 sono rispettivamente 1.4% annuo) e 0.6%. L’innovazione non va sempre nella direzione (desiderabile) di accrescere benessere e uguaglianza e di proteggere l’ambiente: spesso è mirata a risparmiare lavoro e quindi a ridurre i costi privati, creando costi sociali in termini di disoccupazione e disuguaglianza (J. Stiglitz, The Road to Freedom, 2024, p. 227). Anche in Europa, negli ultimi venticinque anni, si è aperto un gap tra crescita della produttività e dei salari, ma di entità inferiore a quella degli USA e in misura abbastanza differenziata tra paesi. Dovremmo metterci sulla strada americana?

Figura 1

Fonte: Economic Policy Institute, agosto 2024

Troviamo poi nel Rapporto Draghi la necessità (sottolineata già nel Rapporto Molto più di un mercato, presentato la scorsa primavera da Enrico Letta) di un ridimensionamento della regolamentazione e di un progressivo allargamento del mercato unico che permetterebbe di sfruttare le economie di scala ma diluendo il potere di mercato dei giganti. La loro dominanza dovrebbe comunque essere frenata dalle procedure antitrust (di cui si raccomanda una revisione, che merita approfondimenti). Ma con la dimensione cresce comunque il potere delle imprese, anche se l’antitrust limitasse gli abusi e l’impatto sui prezzi. E con il potere delle imprese cresce anche quello dei grandi asset managers che le controllano. Inoltre, l’esperienza delle grandi banche divenute too big to fail, su entrambi i lati dell’Atlantico, non è stata esattamente tranquillizzante, tanto che, pur tra incertezze e timidezze, sono state sottoposte a regolazioni più stringenti. Regolare i giganti diviene sempre meno agevole. Il fatto che siano targati come “europei” può essere una pericolosa illusione. Quanto meno, occorre mettere seriamente in cantiere la proposta di Enrico Letta di un “ventottesimo ordinamento”, e non solo con occhio alle PMI, con un codice degli affari europeo, una regolamentazione esclusiva europea, ma anche, a nostro parere, una normativa per fisco e legislazione del lavoro di eguale scala europea, altrimenti la mobilità dei capitali, l’arbitraggio fiscale e regolamentare rimangono potentissime armi di pressione al ribasso. I sindacati dei lavoratori e le comunità territoriali hanno già perso molto potere in Europa e, molto di più, negli Stati Uniti. Ne dovranno perdere ancora? E con quali conseguenze? Qual è il rischio che, nell’ansia semplificatrice, a cadere per prime siano proprio le regole che hanno segnato un avanzamento di dignità e sicurezza per i cittadini e i lavoratori europei (in contrasto con quelli cinesi, ma anche americani)?

La giustificazione di alti margini di profitto in quanto incentivi per innovazioni e investimenti. suscita qualche dubbio. La Figura 2, riferita agli USA, a sinistra, mostra l’andamento della quota del capitale nella distribuzione del reddito e a destra l’andamento della quota sul PIL degli investimenti netti privati negli ultimi quarant’anni. Dove sono finiti i profitti insieme al gigantesco abbattimento delle loro imposte?

Figura 2

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat AMECO

In conclusione, al di là dei molti pregi ampiamente riconosciuti – in primis il sincero, e coraggioso, europeismo che lo anima – nel Rapporto Draghi non abbiamo trovato risposte chiare e convincenti alla nostre domande, anzi altre si sono poste. Grave, in una prospettiva di sinistra, non accompagnare le proposte per recuperare produttività e permettere la crescita dimensionale delle imprese con proposte altrettanto forti e articolate per garantire l’equa diffusione di benefici e prevenire la progressiva perdita di rilevanza dei lavoratori e delle comunità. Propugnare e misurare il progresso di un paese (nel nostro caso, di un continente) solo sulla base dell’innovazione e della crescita della produttività e non sulla base della crescita e la diffusione delle capacità e del benessere (Sen, Nussbaum) significa non aver superato interamente la fallace logica del “trickle down”, della marea che alza tutte le barche, e altre fairy tales consimili, che ci hanno condotti alla più grave crisi di fiducia e consenso delle democrazie liberali dopo la Seconda guerra mondiale. 

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